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Mettiamoci il cuore in pace. Quando si tratta di cibo, gusto e sapori l’Italia non è affatto “una e indivisibile” come vorrebbe il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Tutt’altro. A ribadirlo è stato per primo Carlin Petrini quando ha ricordato che «a 150 anni dall’Unità, a tavola siamo un popolo diviso da infinite diversità». Per l’ideatore di Slow Food non c’è pizza o pasta al pomodoro che tenga: «La cucina italiana non si può definire con un modello unico o con una precisa codificazione, perché in quanto tale non esiste e non è mai esistita. La ricchezza della nostra cucina è nella varietà». Anche secondo il professor Giovanni Ballarini, presidente della storica Accademia della Cucina italiana, il processo di unificazione a tavola ha esaltato soprattutto le differenze. «Un cibo o un piatto, portato fuori dalla sua regione d’origine, è stato completamente reinterpretato in quella d’arrivo, contribuendo a una serie quasi infinita di reciproci arricchimenti», ha sottolineato Ballarini. Oggi, dopo un anno di studi, convegni, dibattiti, libri e rievocazioni sono tante le conferme del fatto che l’Italia ha impiegato molto più tempo culinariamente che geograficamente a unificarsi.
Eppure, indubbiamente a quei tempi l’Italia è stata fatta anche in cucina, tra un piatto di pasta e una spremuta di agrumi. Lo prova il telegramma inviato da Camillo Benso conte di Cavour, che nel luglio del 1860, alludendo alla Sicilia già occupata dai garibaldini che marciavano già verso il continente, scriveva: «Le arance sono sulla nostra tavola e stiamo per mangiarle. Per i maccheroni bisogna aspettare perché non sono ancora cotti». Ma solo il 7 settembre, dopo l’ingresso di Garibaldi vittorioso a Napoli, Cavour annunciò trionfante all’ambasciatore piemontese a Parigi che «I maccheroni sono cotti e noi li mangeremo».
Proprio il cibo, infatti, è sempre stato considerato uno degli aspetti più rappresentativi della nostra identità nazionale. E nella costruzione della nostra italianità la cucina ha avuto una sua indubbia importanza, come modello aperto e “democratico”; frutto di tradizioni diverse, ma sempre capace di assimilare il nuovo. Questo anche grazie alla capacità italica di digerire la diversità fino a trasformarla nel proprio carattere tipico, come già era successo con la pasta di forma allungata importata in età medievale dalla cultura musulmana e poi rivisitata con l’aggiunta di pomodoro e peperoncino.

Ma allora esiste davvero una cucina italiana o è meglio parlare di mille cucine locali? In realtà le due cose non si escludono a priori. Il segreto sta nel cogliere nella miriade di ricette diversificate una trama di passaggi che investono le pietanze, le persone e le tradizioni. In fondo la ricchezza della nostra gastronomia è data proprio da questa compresenza disseminata sul territorio: una rete di sapori e saperi diffusa, sia territorialmente che sul piano delle appartenenze sociali. I piatti popolari compaiono nelle tavole dei signori che a loro volta agiscono da modello per i ceti inferiori, e dunque nello stile gastronomico italiano - a differenza di altre realtà europee - si riconosce l’intera comunità, senza esclusioni.
Insomma, a distinguere l’arte culinaria da altri fattori fondamentali dell’identità nazionale è il fatto che tra le pentole e i fornelli un modello non prevale mai sugli altri. Basti pensare che se nella storia della lingua italiana a un certo punto è riuscito a imporsi un solo dialetto, la storia della cucina non ha conosciuto né Dante né l’Accademia della Crusca. Ha sempre funzionato un sistema paritario e sono mancati i rigidi codificatori, anche se esistono nella storia della nostra “ars coquinaria” personaggi come Giovanni Vialardi, il capocuoco dei re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, che pubblicando nel 1854 il suo “Trattato di cucina, Pasticceria moderna, Credenza e relativa Confettureria”, diede il via al tentativo di unificare (o sabaudizzare) l’Italia golosa, ben prima di Pellegrino Artusi, il primo che nel lontano 1891 codificò la gastronomia “italiana”, limitandosi però a confrontare e a mettere in rete le diverse tradizioni locali.
Il libro di Artusi, antesignano di ogni successiva raccolta di ricette del Belpaese, diventò il primo modello di cucina nazionale. Selezionando dal ricchissimo patrimonio gastronomico delle varie regioni, Artusi tratteggiò il menù di una cucina italiana moderna, fissando i piatti fondamentali della nostra tradizione culinaria. Oltre ad essere stato il primo a consacrare la centralità degli “spaghetti con il pomodoro”, piatto forte della nostra dieta, ha codificato gli altri “must” della tavola tricolore. In questo modo sono diventati “italiani” il risotto alla milanese, i crostini di fegatini di pollo, gli gnocchi, il vitello tonnato, le scaloppine al Marsala e le crostate di frutta, per citare solo alcuni dei piatti che riuscì a imporre, dal Piemonte alla Sicilia.
Poi vennero altri tempi e altre mode. Dal trionfo di dolci, cioccolato e caffè dell’epoca Liberty - celebrato dal poeta Guido Gozzano quando scriveva «Io sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle caffetterie» - alle sperimentazioni futuriste. Dai ricettari “autarchici” di Petronilla e Ada Boni alla rivoluzione del boom economico, dall’avvento degli chef stellati che oggi spopolano in tv alla svolta bio. Fino alla recente riscoperta del km zero che, a pensarci bene, altro non è se non la teorizzazione moderna della “disunità” d’Italia a tavola. Centocinquant’anni dopo, insomma, l’Italia del gusto cerca ancora di difendere le sue tante radici culinarie, così diverse e così ricche di sapore. E se Massimo D’Azeglio disse: «L’Italia è fatta, ora bisogna ancora fare gli italiani», l’opera di fusione delle abitudini, dei gusti e dei sapori non si è mai compiuta, perché i mille campanili della tradizione locale hanno resistito all’omologazione. Perché 150 anni dopo, per fortuna, esiste e resiste ancora l’Italia delle differenze. Almeno a tavola!