Il pesce è consigliato a tutti, per l’apporto di acidi grassi omega 3 e altri preziosi nutrienti, ma non viene forse sottolineato con sufficiente forza che bisogna fare attenzione al tipo di pesce. Il rischio è di assumere contemporaneamente pochi acidi grassi omega 3 e troppo mercurio. Non solo. L’aumento esponenziale del pesce di allevamento degli ultimi anni ha causato una lenta ma inesorabile modifica della composizione dei mangimi. Se fino a qualche anno fa erano preparati con materia prima a base di pesce, oggi è normale trovare anche soia e altri cereali. Questo cambiamento determina un impoverimento del valore nutrizionale della carne e un impatto ambientale negativo per il depauperamento dei branchi di pesce di piccola taglia catturato per produrre mangime.
Il quadro di due recenti studi usciti a cura dell’Environmental Working Group, l’altro della Bloomberg School of Public Health della Johns Hopkins University è sconfortante, e dà il senso di una situazione che richiederebbe un profondo ripensamento. Il primo lavoro è un rapporto dove il gruppo ambientalista noto per le sue battaglie a difesa dei consumatori riporta quanto osservato in un gruppo di 250 donne in età fertile, residenti in 40 stati americani. Le partecipanti erano state selezionate in base al quantitativo di pesce assunto e consigliata dalle agenzie governative (compresa tra 220 e 350 grammi alla settimana, contro i circa 100 consumati da ogni americano, in media) o una dose leggermente superiore, oppure, nel caso di una trentina di volontarie, di mangiarne solo saltuariamente.
Gli autori hanno chiesto a ciascuna di rispondere a una dettagliata serie di domande sulla dieta, e poi hanno inviato campioni dei loro capelli a un’università danese, per il dosaggio del mercurio, per verificare i livelli di acidi grassi nel sangue (omega 3, DHA ed EPA). I risultati sono stati negativi, perché circa un terzo delle consumatrici abituali aveva valori di mercurio superiori a quelli consigliati (al massimo una parte per milione o ppm), e il 59% superava un limite ritenuto più sicuro, e cioè 0,58 ppm. Considerando che le donne partecipanti al test erano tutte in età fertile, la situazione risulta anche peggiore, perché le dosi sicure di mercurio sono più basse. Risultato: chi mangia pesce in maniera abituale rischia un accumulo di mercurio e, parallelamente, un’assunzione del tutto insufficiente di omega 3. I dosaggi confermano che anche le più accanite consumatrici di pesce spesso non raggiungono valori considerati efficaci. Per contro, ogni anno, negli Stati Uniti, si stima che nascano almeno 75.000 bambini esposti a livelli potenzialmente pericolosi di mercurio.
Per ovviare a questa situazione bisogna scegliere specie più sicure come il pesce azzurro e in generale quello di piccola taglia, dove il mercurio si accumula di meno. Al riguardo conviene consultare gli elenchi delle agenzie per la sicurezza alimentare locali per verificare quali pesci sono consigliabili. Dal punto di vista nutrizionale, invece, il consumatore può scegliere pesce allevato da filiere sostenibili certificate. Nello studio pubblicato su Environment International gli autori fanno il punto sull’impatto ambientale degli allevamenti e sul valore nutrizionale del pesce allevato. Il quadro è allarmante: gli americani già oggi mangiano pesce che in più di un caso su due proviene da un allevamento. Questo determina il maggior impiego di ingredienti vegetali nei mangimi soia e mais), mentre la quota di materia prima di origine ittica è diminuita.
Questo comportamento spinge verso l’incremento delle coltivazioni intensive di cereali con un maggiore consumo di suolo e acqua, minaccia la biodiversità, favorisce l’impiego di erbicidi in aree sempre più vaste e si traduce in pesci con carni sempre più povere di omega 3. Ovviamente l’effetto sulle specie selvatiche è positivo, anche se un computo globale dell’impronta ecologica, non sarebbe probabilmente favorevole all’acquacoltura, considerando gli scarsi benefici a livello nutrizionale. I consumatori possono rallentare questi processi, e talvolta invertirli, grazie alla pressione che riescono a esercitare orientando gli acquisti.
(Agnese Codignola - www.ilfattoalimentare.it)
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