Le etichette nutrizionali dei prodotti non bastano. Nel senso che non riescono a chiarirci a fondo ciò che stiamo per comprare e che mangeremo. Per questo, secondo Shirley Cramer, a capo della Royal Society for Public Health britannica, occorrerebbe indicare con precisione sulle confezioni le cosiddette attività equivalenti. Cioè, tanto per fare un esempio, quanti minuti di camminata ci vorrebbero per smaltire le calorie di una barretta di cioccolato o quanti chilometri in bicicletta corrisponderebbe scolarsi una lattina di energy drink. Ansia.
Intorno al food packaging ruotano questioni estremamente importanti. Vi s’incontrano discipline molto diverse, dal marketing alla psicologia alla salute pubblica. Nelle alterne convinzioni, tutte da verificare, che i consumatori siano disponibili e soprattutto in grado d’infischiarsene del brand per valutare la qualità e compiere scelte più salutari o viceversa.
“Abbiamo un disperato bisogno di iniziative innovative per modificare l’atteggiamento della popolazione” ha spiegato Cramer a Science Daily. “Alcune evidenze hanno dimostrato che le informazioni sulle confezioni funzionano” ha invece raccontato in un report sul British Medical Journal. Insomma, a suo avviso può essere la strada giusta.
Numerose indagini dimostrano in effetti da anni che quello dovrebbe essere uno dei principali fronti su cui investire per fornire un servizio migliore agli acquirenti. Ma la risposta potrebbe davvero essere la figurina di un omino che corre con il minutaggio preciso da completare? Oppure quella di uno su due ruote con la distanza indicata, e magari anche il ritmo, per far fuori quel salsicciotto? Secondo lo studio di Cramer, dovremmo farci una camminata di 26 minuti per bruciare le calorie introdotte con una lattina di soda. Ma in generale, calorie a parte (solo uno dei tasselli di un regime alimentare bilanciato), una simile iniziativa ci condurrebbe a fare più esercizio. E di conseguenza a guadagnarne in autostima, umore, qualità del sonno, energia e così via.
La proposta è schiacciata fra due aspetti quasi speculari. Uno positivo e uno negativo. Quello positivo è che in effetti si racconterebbe al consumatore qualcosa che può fare per bilanciare il suo acquisto, magari non di prima qualità in termini nutrizionali. Insomma, dargli una spintarella a fare bene, accodandosi a quell’imperante teoria del nudging che tanto sta prendendo piede nel mondo anglosassone e altrove anche a livelli governativi. Invece di dirti cosa non devi (o dovresti) fare, i percorsi predisposti dalle aziende, dalla pubblica amministrazione o da altre organizzazioni ti guidano gentilmente verso un atteggiamento virtuoso che prenderai quasi senza rendertene conto. Un approccio che dimostra di funzionare in molti campi diversi della vita. Perché non dovremmo cercare di sfruttarlo sempre di più anche nel complesso scenario dell’alimentazione e della distribuzione di massa?
D’altra parte questa proposta, come altre, si scontrerebbe con la quasi scontata incompletezza della sua implementazione. Bisognerebbe per esempio sfoderare una lunga e complicata battaglia contro le lobby per fare in modo che tutti i generi di prodotti, da quelli freschi a quelli confezionati e processati, indichino le attività equivalenti. Certo, si potrebbe iniziare da ciò che davvero non dovremmo mai mettere nel carrello. Ma i cui effetti collaterali, se proprio non resistiamo, potremmo contenere lanciandoci di corsa per quel preciso numero di minuti. Forse converrebbe partire dai menu dei ristoranti, come si era tentato di fare tre anni fa negli Stati Uniti.
(Simone Cosimi- www.wired.it
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