Alcune specie, in particolare merluzzo, triglia, rana pescatrice e melù, oltrepassano la soglia di sostenibilità di ben sei volte.
Il 96% degli stock ittici dell’UE nel Mediterraneo è troppo sfruttato, e la pressione supera fino a nove volte il rendimento massimo sostenibile (RMS ovvero numero di catture possibili senza compromettere la sopravvivenza della specie). In particolare merluzzo, triglia, rana pescatrice e melù, oltrepassano la soglia di sostenibilità di ben sei volte. Sono queste le conclusioni raggiunte da MedReAct (organizzazione che promuove azioni di recupero della biodiversità marina nel Mediterraneo), sulla base dei dati del comitato scientifico sulla pesca dell’Unione Europea (STEFC – Scientific, Technical and Economic Committee for Fisheries). «Bisogna intervenire subito per combattere la pesca illegale nel Mediterraneo, ridurre lo sforzo di pesca, adottare piani di recupero per le specie più a rischio e chiudere le aree di nursery per periodi di tempo idonei al ripopolamento» ha dichiarato la portavoce dell’organizzazione, Domitilla Senni.
Mentre nel Nord Europa un numero crescente di stock ittici mostra segni di recupero, nel Mediterraneo la situazione è critica e si rischia di creare un danno enorme alla biodiversità. I paesi più coinvolti sono Spagna, Francia, Croazia e Italia. Le specie che hanno superato la soglia di sostenibilità sono quelle più commerciali, come: sardine, acciughe, merluzzo, triglia, melù e gambero. Tra questi, come si può leggere dalla tabella 1, il merluzzo del Golfo del Leone e della Spagna settentrionale ha il tasso di sovrasfruttamento più alto e richiede una riduzione dello sforzo di pesca del 90%. Malta e Sicilia meridionale sono invece il teatro della pesca della triglia: il tasso di sovrasfruttamento è pari a 4.1 e si richiede una riduzione dello sforzo di pesca pari al 76%. Il 91% degli stock condivisi con paesi terzi (del Mediterraneo) è sfruttato a livelli di gran lunga superiori al rendimento massimo sostenibile. Da noi la pesca commerciale intensiva nel mar Tirreno e nel mare Adriatico utilizza principalmente reti a circuizione e a strascico, e solo in misura minore reti della pesca artigianale.
Da qualche anno l’UE chiede ai paesi interessati di ridurre la loro attività di pesca, ma le misure finora adottate si sono rivelate insufficienti. Uno studio curato da Daniel Pauly e Dirk Zeller e appena pubblicato su Nature mostra come la riduzione dello sforzo di pesca realizzato fino ad oggi non ha prodotto una diminuzione della sovrapesca. La quantità di pescato è stata calcolata integrando le statistiche ufficiali della FAO e unendole ai dati della pesca di frodo, di quella artigianale, ricreativa, insieme ai pesci ributtati in mare e a tutte le catture classificate come illegali (per specie, taglie, periodi, aree e sistemi di pesca adottati). Secondo lo studio, tra il 1950 e il 2010, le catture nel Mediterraneo, con picchi massimi registrati negli anni 90, risulterebbero superiori del 50% rispetto alle statistiche ufficiali– in Italia, si arriverebbe addirittura a 2.6 volte, di cui il 54% proveniente dalla pesca illegale realizzata anche con le reti ferrettare e spadare. Il declino degli stock sarebbe dunque più grave di quanto indicato dai dati ufficiali.
La riforma della Politica Comune della Pesca (PCP) europea, introdotta nel 2013, prevede che gli stock ittici debbano essere riportati a livelli sostenibili entro il 2020. Si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere. Infatti, secondo gli esperti dell’Unione europea, occorrerebbe ridurre del 50-60% lo sforzo di pesca nel Mediterraneo. Durante il convegno organizzato a Catania l’8 e il 9 febbraio dalla Commissione Europea (DG MARE) e dal Consiglio Consultivo del Mediterraneo (MEDAC), l’Unione Europea ha annunciato nuove misure per migliorare la salute degli stock ittici. La comunità scientifica ha messo in luce la necessità di considerare un approccio globale al problema: è importante considerare tutti i fattori che intervengono nel depauperamento delle risorse ittiche, come inquinamento, acidificazione degli oceani e riscaldamento climatico.
C’è poi da considerare l’aspetto socio-economico: come far sopravvivere il settore della pesca cercando al contempo di ripopolare i mari? La domanda riguarda anche il nostro paese, dove negli ultimi anni la riduzione della flotta non ha prodotto una sostanziale diminuzione della pesca indiscriminata. Il seminario ha preso atto della volontà della Commissione di potenziare le politiche europee nel Mediterraneo, integrando e rafforzando gli strumenti (anche quelli finanziari) messi a disposizione dal Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP). La Commissione ha annunciato una serie di incontri, compresi quelli bilaterali con i paesi terzi, che serviranno a concordare i prossimi passi. L’auspicio è che tutto ciò costituisca un primo banco di prova per avviare una cooperazione tra decisori politici e comunità scientifica. Ma soprattutto un primo passo per salvaguardare la salute del nostro mare.
Stato degli stock commerciali nelle acque EU del mediterraneo (Tabella 1)
In questa tabella per ciascuna specie “a rischio”, e la relativa area geografica di pesca, viene indicato il tasso di sfruttamento: è il rapporto tra la mortalità misurata (attuale) e quella che permetterebbe invece di dare il massimo rendimento senza danneggiare la specie e quindi permettendo alla specie stessa di sopravvivere. Viene indicata anche la percentuale di riduzione delle attività di pesca necessaria per eliminare e fermare questo sfruttamento.
Vittoria Gnetti - http://www.ilfattoalimentare.it
ASA Press / Le notizie di oggi