Un rapporto di Oxfam denuncia: la CO2 immessa nell’aria dalla produzione delle materie prime del settore è inferiore solo a quella prodotta da USA e Cina
Il settore dell’industria agroalimentare è ormai un fattore determinante nei processi di cambiamento climatico ed è diventato insostenibile: almeno il 25% delle emissioni di gas serra a livello globale sarebbero causate dalla produzione agricola intensiva, una delle principali responsabili del riscaldamento globale. Ma quello alimentare è anche uno dei settori maggiormente danneggiati dai mutamenti atmosferici, poiché le 10 maggiori aziende sul mercato dipendono dal lavoro di almeno 100 milioni di contadini, che lavorano nelle regioni più colpite dagli effetti dei gas serra e che, per primi, subiscono le conseguenze delle calamità naturali. La denuncia è contenuta all’interno del dossier “A qualcuno piace caldo: così l’industria alimentare nutre il cambiamento climatico ”,realizzato da Oxfam in occasione del “Business and Climate Summit” di Londra, dove tra il 28 e 29 giugno si sono radunati numerosi rappresentanti delle grandi aziende, della finanza e delle istituzioni internazionali.
Il rapporto sottolinea come le aziende produttrici delle cinque principali materie prime, nello specifico riso, soia, mais, grano e olio di palma, generino da sole una quantità di emissioni di CO2 superiore a quella prodotta da qualsiasi altro paese al mondo, ad eccezione di USA e Cina. Per aiutare a capire la dimensione del problema, basta pensare a come il metano prodotto dalle risaie allagate o il protossido di azoto derivante dall’utilizzo dei fertilizzanti generino emissioni dannose per l’ambiente tanto quanto quelle prodotte dalla deforestazione.
Dall’altro lato, quello delle conseguenze che si abbattono direttamente sul settore, non si può non notare come, nel corso degli ultimi 30 anni, i cambiamenti climatici abbiano ridotto la produzione globale tra l’1 e il 5%. I paesi in via di sviluppo continueranno ad essere duramente colpiti dall’accelerazione dei mutamenti ambientali, proprio quegli stessi paesi in cui molte aziende del settore alimentare si approvvigionano di materie prime: ad esempio, in Vietnam, la produzione di riso è diminuita a causa dell’infiltrazione di sale nel suolo causato dai livelli crescenti del mare, mentre nei paesi dell’Africa Occidentale o nelle vicinanze del Sahel, è prevista una riduzione delle aree agricole per il 70% delle colture entro il 2050, di oltre il 50% nel caso di banane, granturco e fagioli.
Secondo l’appello lanciato da Oxfam, l’industria dell’agricoltura, per non cadere in questo circolo vizioso di danneggiamento reciproco, dovrebbe porsi in prima linea nella definizione di nuovi impegni per la salvaguardia del pianeta: il rischio è soprattutto quello di non raggiungere il conseguimento degli obiettivi definiti dall’accordo di Parigi del dicembre scorso, ovvero l’azzeramento delle emissioni entro la metà del secolo e il contenimento dell’aumento delle temperature entro 1,5 °C. Le aziende alimentari possono portare un forte contributo nella riduzione delle emissioni, per monitorare il surriscaldamento, definendo dei target di riduzione di CO2 fra i prodotti alimentari a più elevate emissioni nelle proprie catene di approvvigionamento, che siano tutelanti verso le comunità più povere e in linea con quanto stabilito dalla comunità scientifica.
“L’accordo di Parigi è stato un primo importante passo in avanti, ma non riusciremo a raggiungere gli obiettivi fissati senza un ulteriore sforzo. – afferma Elisa Bacciotti, direttrice delle Campagne di Oxfam Italia – Le grandi aziende riunite durante il “Business and Climate Summit” devono dar prova che Parigi è davvero un trampolino di lancio verso tagli più consistenti alle emissioni, assicurando un maggiore sostegno agli agricoltori di piccola scala nella lotta agli effetti del cambiamento climatico. Il settore alimentare, inoltre, è il primo ad essere chiamato in causa, e dovrebbe davvero aprire la strada per gli altri settori”. (Francesco Moroni
- www.lastampa.it)
ASA Press / Le notizie di oggi