A livello mondiale si parla di circa 60 milioni di tonnellate, circa 160 miliardi di dollari. Uno schiaffo alla povertà e un danno all'ambiente conseguenza degli "irrealistici standard estetici" richiesti dai rivenditori
Negli Stati Uniti finisce in spreco quasi il 50% del cibo prodotto ogni anno. Il problema scrive il Guardian in un lungo articolo è legato alla "cultura della perfezione", che obbliga i contadini e i distributori a gettare i frutti o le verdure che hanno forme o grandezze differenti dalla normalità. Uno schiaffo alla povertà e un danno all'ambiente conseguenza di "irrealistici standard estetici", secondo quanto si deduce dai dati ufficiali e da quanto rilevato dai colloqui con decine di fattori, imballatori, trasportatori, ricercatori, attivisti e funzionari del governo. Dai frutteti della California alle popolazioni della Costa Orientale, i contadini e gli altri anelli della catena di distribuzione del cibo denunciano il sacrificio di cibo di qualità e di alto valore nutrizionale sull'altare della domanda di "perfezione" che parte dalla categoria dei venditori. "Tutto ruota intorno a una produzione priva di macchie", dichiara al Guardian Jay Johnson, fornitore di frutta fresca e e verdure dalla North Carolina e dalla Florida centrale, "quanto accade oggi nel nostro business è che o il prodotto è perfetto o viene respinto. Perfetto per loro (i venditori, ndr)".
Lo spreco, spiega ancora il Guardian, si consuma lungo il percorso "dalla fattoria alla forchetta". Con quantità enormi di prodotti perdute già nei campi, poi nei magazzini, durante nel processo di confezionamento, lungo la distribuzione, quindi nei supermercati, nei ristoranti e nei frigoriferi. Secondo un calcolo governativo, circa 60 milioni di tonnellate di prodotto, per un valore di circa 160 miliardi di dollari, finiscono al macero per colpa dei rivenditori e dei consumatori ogni anno. Ovvero, un terzo dell'intera produzione. Una stima addirittura al ribasso, perché secondo altri esperti lo spreco rasenta in realtà la metà della produzione.
"A volte finisce con lo sfamare il bestiame il 25% del raccolto, ma spesso va anche molto peggio" rincara al Guardian Wayde Kirschenman, la cui famiglia coltiva patate e altri vegetali dagli anni Trenta del secolo scorso a Bakersfield, California. Ma molti coltivatori e i trasportatori intervistati hanno anche detto al Guardian di aver scelto di non presentare reclami a livello federale al Dipartimento dell'agricoltura per timore di finire oggetto di boicottaggio da parte dei giganti della grande distribuzione, chiedendo di non essere citati nell'articolo.
A livello globale, lo spreco investe un terzo del cibo: 1,6 miliardi di tonnellate all'anno. Agire contro lo spreco è possibile, come hanno dimostrato le politiche di Paesi come la Danimarca. L'amministrazione Obama e le Nazioni Unite, da parte loro, si sono impegnate a dimezzare lo spreco di cibo entro il 2030. Produttori, catene di vendita e gruppi di attivisti, come il Natural Resources Defense Council, hanno inoltre promesso di arrivare alla riduzione dello spreco di cibo adottando campagne a tema.
Ma gli esperti gelano gli entusiasmi, perché cresce la consapevolezza che l'azione dei governi non riuscirà a sconfiggere la fame nel mondo o la sfida del cambiamento climatico senza ridurre lo spreco di cibo. Pratica che, da sola, è responsabile per l'8% dell'inquinamento mondiale, più di quanto lo siano India o Russia. Senza contare il complementare spreco di acqua, terra e altre risorse. Oppure, il conto che il clima paga in conseguenza di una produzione di cibo che finisce direttamente nelle discariche. Secondo la Environmental Protection Agency, negli Stati Uniti il cibo scartato costituisce il principale singolo componente presente nelle discariche e negli
inceneritori. Certo, gli scarti alimentari sono sempre più fonte di gas metano, decisamente più "verde" del diossido di carbonio. Ma ancora gli esperti, conclude il Guardian, riconoscono come si sia appena iniziato a prendere coscienza della scala del problema.
(www.repubblica.it)
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