Ok del Cdm all'avvio dell'iter normativo per il ripristino dell'indicazione obbligatoria in Italia, in base a una 'deroga' prevista dall'articolo 38 del regolamento europeo sull'etichettatura degli alimenti
Il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina ROMA - Il Consiglio dei ministri ha appena approvato il primo atto per la reintroduzione nel nostro ordinamento dell’indicazione obbligatoria della sede dello stabilimento di produzione o confezionamento per i prodotti alimentari, abolita dal regolamento europeo 1169/2011 in materia di etichettatura degli alimenti. Il Cdm, infatti con la forte richiesta dei ministri dell’Agricoltura Maurizio Martina e della Salute Beatrice Lorenzin, ha dato il via libera allo schema di disegno di legge di delegazione europea, che all’art.4 contiene la delega per il ripristino dell’obbligo di indicare lo stabilimento in etichetta e per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento Ue.
L’obbligo di indicazione della sede dello stabilimento riguarderà gli alimenti prodotti in Italia e destinati al mercato italiano. Allo stesso tempo partirà a breve la notifica della norma alle autorità europee per la preventiva autorizzazione. L’Italia insisterà sulla legittimità dell’intervento in applicazione di quanto previsto dall’articolo 38 del regolamento n. 1169/2011, motivandola in particolare con ragioni di più efficace tutela della salute dei consumatori. Dopo il lavoro preparatorio fatto dal ministero delle Politiche agricole e dello Sviluppo economico nei mesi scorsi, quindi, arrivano le prime risposte legislative verso la reintroduzione di un’indicazione chiara ed esaustiva al consumatore. Era stato il ministro Martina, infatti, a chiedere per primo di tornare all’obbligo di indicazione dello stabilimento e ad annunciare l’intenzione del governo di lavorare anche sul fronte europeo per quanto riguarda le norme comunitarie.
Si è giunti dunque oggi a una prima importante vittoria nella battaglia trasversale in difesa dello stabilimento in etichetta a sette mesi da quell'11 febbraio 2015, data del tavolo di lavoro fra i ministeri dello Svilluppo Economico e Agricoltura, Federalimentare, Federdistribuzione e Coldiretti in cui venne sottoscritto un impegno comune a lottare in Europa per il ripristino dell'indicazione almeno in Italia.
Gli ultimi aggiornamenti sul tema risalgono ad aprile. Martina, in occasione della presentazione del sondaggio del Mipaaf sulle etichette degli alimenti, si era fatto carico di condurre una delicata trattativa a Bruxelles per ristabilire l'obbligo sul piano normativo: "Siamo impegnati su due fronti - aveva spiegato il 3 aprile - da un lato portiamo avanti una battaglia in Europa per la modifica del regolamento 1169/2011 e l’inserimento di questa informazione come obbligatoria, dall’altro stiamo lavorando con i tecnici della Commissione Ue per poter introdurre una norma nazionale che valga in Italia".
La pressione dell'opinione pubblica e l'interessamento di diverse forze politiche- sia di maggioranza che di opposizione - per il ripristino dell'obbligo di indicare lo stabilimento di produzione in questi mesi ha già ottenuto qualche importante risultato. Alcuni colossi della distribuzione sia italiani (da Coop a Esselunga) che europei (come Carrefour e Lidl) si sono impegnati a mantenere volontariamente questa indicazione nei prodotti che riportano il loro marchio. Anche Conad si è messa in prima linea, adoperandosi a raccogliere 50.000 firme necessarie per una proposta di legge.
Certo, il cammino è ancora lungo e le questioni aperte sono tante. Alla base ci sono interessi economici, delocalizzazioni, subappalti. E' il mondo dell'industria ancora di più che quello della distribuzione ad essere spaccato sul tema della trasparenza dello stabilimento produttivo. "Su tante richieste per firmare la nostra petizione "Nessuno tocchi l'indicazione dello stabilimento di produzione sull'etichetta" - spiega Raffaele Brogna, fondatore del sito "Ioleggoletichetta.it" - il silenzio è stato prevalente da parte dell'industria".
"Sono tanti gli stratagemmi che trova l'industria pur di non dire dove viene fabbricato un prodotto - spiega ancora Brogna - e lo dimostra il fatto che, quando la Grande distribuzione organizzata obbliga a scrivere il sito produttivo, alcune marche registrano nuove ragioni sociali per non far sapere che sono loro a produrre un determinato prodotto "private label". Così sull'etichetta non ci sarà scritto il loro nome. Stratagemmi appunto per far sapere al consumatore sempre meno". (Monica Rubino - www.repubblica.it)
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