QUALITA'
Etichette: l’Italia più trasparente dell’Ue

Si va verso una normativa che obblighi le aziende a specificare la sede di produzione. Ma l'Europa sembra andare in un'altra direzione, così come le imprese che puntano sulla delocalizzazione

La notizia è nota: lo scorso settembre il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera a un disegno di legge che reintroduce l'obbligo di indicare lo stabilimento di produzione o confezionamento sulle etichette dei prodotti alimentari, abolito nel 2011 da un discusso regolamento europeo. Secondo i più, si tratterebbe di un decisivo passo in avanti nella lotta al falso Made in Italy e un'ulteriore garanzia di qualità dei prodotti. Eppure, quello che sembra un principio universalmente condiviso a parole, forse nei fatti non lo è completamente: vediamo perché.

Controtendenza italiana

Si tratta di un raro caso di proposta di legge invocata trasversalmente tanto dalle forze politiche di ogni colore quanto dall'opinione pubblica: secondo una consultazione a cura del Ministero delle Politiche Agricole, il 90% dei 26mila italiani che hanno risposto si sono pronunciati a favore del ddl. Una normativa che, tuttavia, già in questa prima fase del suo iter sembra stridere con le intenzioni dell’Unione europea, assai meno stringenti (l'obbligo riguarderà infatti solo gli alimenti prodotti in Italia e destinati al mercato italiano). Proprio per questo il ministro Maurizio Martina ha promesso un impegno diplomatico parallelo per convincere l'Ue ad abbracciare il principio della trasparenza che sta alla base del ddl: «Per noi si tratta di un punto cruciale – ha dichiarato – perché anche da qui passa la valorizzazione della distintività del modello agroalimentare italiano».


Tante adesioni...

Quella per l'obbligo di indicazione della sede sull’etichetta è stata una battaglia che ha visto in prima linea molti degli attori coinvolti nel ciclo di vita dei prodotti agroalimentari. Tra i tanti marchi che si sono spesi pubblicamente a favore della normativa c'è il gruppo Granarolo: «È un principio in linea con la nostra filosofia – ha sottolineato il presidente Gianpiero Calzolari – non soltanto perché a essere privilegiate sono la qualità e l'affidabilità dei prodotti, ma perché in questo modo si cerca di creare dei consumatori che siano sempre più consapevoli di quello che acquistano; dopodiché, starà tutto alla loro libera scelta». Tuttavia, aggiunge Calzolari, l'indicazione dello stabilimento di produzione, per quanto importante, non basta: «Il passo successivo deve essere l'indicazione dell'origine della materia prima; oggi infatti possono ancora essere venduti come italiani alimenti effettivamente prodotti in Italia, ma con materie prime provenienti dall'estero. E spesso dalla semplice etichetta i consumatori non percepiscono la differenza».

...e qualche distinguo

A raffreddare gli entusiasmi ci ha pensato anche Raffaele Brogna, fondatore del sito ioleggoletichetta.it, che nei mesi scorsi si è fatto carico di promuovere una petizione pubblica sul tema. Secondo Brogna, mentre la risposta di politica e società civile è stata pressoché unanime, dal mondo dell'industria qualche rumoroso silenzio c'è stato. Così, se da una parte le principali catene della grande distribuzione organizzata hanno mantenuto volontariamente l'indicazione sulle etichette dei prodotti a loro marchio (Coop, Esselunga, Carrefour, Conad), dall'altra qualche defezione tra le aziende ha dimostrato come ci sia un non trascurabile – per quanto sicuramente minoritario – giro d'affari che si basa sulla delocalizzazione e sui subappalti delle sedi produttive: una pratica perfettamente legale, che però gioca sull'ambiguità della norma vigente. (The Van - www.borsaitaliana.it)

 



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