Apripista l’azienda Tendergrass Farms che non usa ractopamina
Una decisione appena presa dal Dipartimento dell’Agricoltura statunitense potrebbe costituire un punto di svolta per l’allevamento delle carni vendute al dettaglio. Per la prima volta l’ente ha autorizzato una dicitura in etichetta che evidenza l’assenza di promotori della crescita e antibiotici, e in particolare di ractopamina, aprendo così la strada a nuove, presumibilmente numerose, produzioni di carne non trattata.
La vicenda, secondo quanto riferito dal New York Times, nasce dalla richiesta di un’azienda che vende carni e lavorati provenienti da animali allevati senza farmaci, la Tendergrass Farms, che desiderava apporre l’indicazione sul bacon. La ractopamina è un beta agonista (già bocciato dall’EFSA), che agisce sul sistema del neurotrasmettitore noradrenalina. Viene somministrato agli animali pochi giorni prima della macellazione perché conferisce aumento di peso. Secondo alcune stime, tra il 60 e l’80% dei maiali allevati negli Stati Uniti, e percentuali simili di bovini, viene trattato con questo farmaco, approvato nel 1999.
Da diversi anni, tuttavia, la ractopamina è vietata nell’Unione Europea, in Cina, in Russia e in molti altri paesi, e ciò limita molto la possibilità di esportare le carni americane. Per questo dal 2013 esiste uno specifico programma chiamato Never Fed Beta-Agonists, in base al quale gli allevatori possono ottenere una certificazione di non utilizzo dei promotori, e il via libero all’export. Ma tale programma vale solo per le vendite all’estero. Per questo alcuni produttori, nel desiderio di aumentare le vendite domestiche, soprattutto ora che il mercato è sempre più esigente e orientato verso carni e prodotti il più possibile esenti da trattamenti chimici di non comprovata sicurezza per la salute umana, hanno iniziato a chiedere una normativa ad hoc, ottenendo, finora, solo rifiuti. Fino alla svolta delle settimane scorse, in parte inaspettata.
Le nuove etichette del bacon della Tendergrass Farms, e di chi vorrà seguirne le tracce, potrebbero recitare quindi più o meno così: “Carne ottenuta da animali allevati in fattoria con una dieta vegetale, senza ractopamina né altri promotori della crescita né antibiotici”.
Secondo i responsabili dello USDA, la dicitura è stata concordata in modo da risultare facilmente comprensibile dal consumatore. Alcune versioni sono state respinte perché non contenevano la parola ractopamina, e sono state giudicate troppo generiche. Sicuramente, la mutata attenzione del dipartimento deriva anche da dati come quello di cui parla l’articolo del New York Times, ossia un’indagine dell’Hartman Group su oltre 1.500 persone di età compresa tra i 18 e i 79 anni, che conferma l’aumento dell’interesse dei consumatori verso le etichette, e la richiesta di alimenti sempre più “freschi”, “naturali”, “non trattati”. Secondo la coordinatrice dell’indagine, anche se la maggior parte delle persone non ha idea di che cosa sia la ractopamina, tutti o quasi accolgono con favore la sua assenza, perché percepiscono il nome come indicazione di un prodotto chimico non necessario, e che pertanto non dovrebbe esserci.
Ma la svolta potrebbe avere motivazioni anche meno nobili della maggiore consapevolezza e facoltà di scelta dei consumatori. La Cina infatti ha più volte respinto lotti di carne di maiale statunitense, di cui è grande importatrice, proprio a causa dei residui di ractopamina rilevati, incompatibili con i limiti nazionali, e questo ha allarmato i produttori, anche perché il paese asiatico compra e consuma parti quali le orecchie e gli stomaci, invendibili negli Stati Uniti e in molti altri mercati: nel 2014, le esportazioni verso la Cina sono diminuite del 20%, passando dai 903 milioni di dollari del 2013 a 775 milioni. Più tranquilla si mostra l’associazione di categoria delle carni suine, la National Pork Producers Council, che ha ricordato che i soci esportano in 120 paesi, 100 dei quali ammettono le carni trattate con ractopamina.
Secondo molti il via libera alla segnalazione di carne senza promotori innescherà un processo tanto virtuoso quanto commerciale, che accelererà inesorabilmente l’addio a queste pratiche, anche in previsione di possibili evoluzioni nei trattati internazionali al momento in discussione.
(Agnese Codignola - www.ilfattoalimentare.it)
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