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LA
VITA DELLA VITE
A cura di Marco
Tonni [tonni@asa-press.com]
Il dramma vitivinicolo
Se…
Se da una scuola di Agraria o di Enologia vengono sfornate giovani leve
per il settore vitivinicolo, una piccola percentuale di esse raggiunge
livelli di massima eccellenza, un buon numero si distingue per competenza
qualità, e il resto delle persone trova impieghi rispettosi e quasi
sempre, comunque, si impegna nel proprio lavoro, ottenendo risultati più
che dignitosi.
Insomma, la grande maggioranza dei ragazzi che concludono un percorso
formativo dedicato alla vigna o al vino garantiscono alle Aziende, se
non il massimo auspicabile, almeno una buona dose di dedizione, o addirittura
mettono “in campo” una vera passione per il proprio lavoro.
Quale potrebbe essere il vero problema, diffuso pressoché ovunque
nella filiera vitivinicola, il punto debole anche se spesso il più
riverito, il più remunerato, il più coccolato? Quale settore
“fa acqua” quasi sempre, quando tutto il resto della filiera
“fa vino”? Quale il settore dove troppi si inventano esperti,
fanno proclami prima di ottenere risultati e chiedono o esigono cambiamenti
ed impegno da parte degli altri prima di dimostrare altrettanto impegno
e passione?
Che sia il commerciale?
Mi chiedo sempre più spesso, anche dialogando con amici e colleghi
agronomi ed enologi: perché dobbiamo impegnarci allo spasimo dall’impianto
del vigneto fino all’ultimo gradino che porta fuori la nostra bottiglia
dalla cantina, mettendo in gioco le nostre esperienze, competenze, tempo
e passione (scusate se ritorno spesso su questa parola, poiché
secondo me, in tutti i suoi significati, ben rappresenta lo spirito di
chi produce uva e vino), quando poi chi deve far fruttare i nostri sforzi
non dedica nemmeno l’ombra dello stesso impegno per un “progetto”,
non conosce il prodotto che vende (magari fino al giorno prima vendeva
scarpe), spesso non sa nemmeno degustare, vende ciò che è
“comodo” perché il nome famoso “si vende da solo”,
chiede di cambiare l’etichetta o la forma della bottiglia spacciando
l’idea come risolutiva della stagnazione delle vendite, senza chiedersi
se sta proponendo un certo stile di vino alla giusta fascia di clientela?
Perché chi vende vino impone come vincolo all’Azienda vitivinicola
la guerra del prezzo, senza comprendere e condividere invece l’idea
che il prezzo deve essere determinato per il suo livello minimo dal costo
di produzione aziendale? Vi sembra normale chiedere “a quanto viene
proposto in listino” senza nemmeno assaggiare il vino? Se davvero
l’acquirente non ritiene adeguato il prezzo, mi sembrerebbe ovvio
che si debba cambiare la qualità del vino o la qualità dell’acquirente,
non il prezzo - se quest’ultimo è ragionevolmente determinato
sulla base dei costi di produzione.
È evidente che, se si costringe l’Azienda ad abbassare il
prezzo sotto il livello di remuneravità, la produzione non sia
più sostenibile e l’Azienda sia destinata a chiudere.
Ed ancora, perché la percentuale sulle vendite viene concessa anche
a chi vende il vino a 1 (uno) Euro la bottiglia (intendo sullo scaffale,
per la precisione, pari a circa 0,70 –zerovirgolasettanta- centesimi
all’ingrosso), mentre per le uve che hanno prodotto quel vino ai
soci conferenti non viene pagata l’uva (facciamo finta che ciò
sia capitato, almeno una volta nell’ultimo secolo, in Italia).
È più impegnativo e rischioso produrre uva e non sapere
se te la pagano, oppure avere “l’abilità” di
vendere vino a meno di un Euro?
Perché chi vende, almeno una volta nella carriera, non dedica impegno
alla propria formazione e non si sforza ad esempio di spiegare a chi gli
compra il vino per proporlo ai clienti, come conservare il vino correttamente?
Queste cose mi pare che un certo Signor Illy, con determinazione e lungimiranza,
le abbia imposte da tempo alla propria rete commerciale, e qualche risultato
l’abbia ottenuto…
Se…
Se tutto questo fosse vero, non sarebbe il caso di pensare anche a qualche
genere di formazione per le nuove leve del commercio?
Attenzione, però: non parlatemi di marketing: di quello può
parlare solo chi ha già la cantina vuota ed i soldi in tasca.
Io sto parlando di vendita, non di marketing.
Sto parlando di formare persone che abbiano in testa un progetto, un’idea,
la voglia di impegnarsi, consapevoli degli sforzi che stanno a monte di
una bottiglia, e che mettano “in campo” almeno la metà
della passione che mettono altri soggetti della filiera.
Formare persone che rispettano il vino.
Formare persone che conoscono il vino.
Formare persone che sanno valorizzare il vino come essenza della campagna
e del lavoro di cantina e che sanno presentare il vino.
Formare persone che sanno interpretare il vino ed il mercato e che sanno
proporre il giusto vino al giusto prezzo nel giusto mercato di riferimento.
C’è qualcuno in grado di farlo?
D’altronde, se, come molto spesso accade, le piccole Aziende famigliari
riescono commercialmente ad avere più efficienza nelle vendite
di Aziende medio-grandi affidate a reti vendita di varia dimensione e
articolazione, il motivo non potrebbe essere semplicemente la passione
che viene messa nella vendita e nel rapporto con il cliente?
Infine, lasciatemi dire che, se per un consulente agronomico, enologico,
o per un dipendente coscienzioso, è frustrante vedere progetti
ben costruiti e idee ben congegnate spegnersi perché le vendite
non girano, potete immaginare come per il proprietario sia addirittura
drammatico.
Sia ben chiaro, venditori così squinternati non esistono, tutto
quanto sopra riportato è una mera, assurda ipotesi, un semplice
esercizio di fantasia. E per fortuna!, altrimenti sarebbe davvero un dramma
per il settore vitivinicolo.
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