ATTORNO ALLA TAVOLA
A cura di CARLO PASSERA [ passera.web@asa-press.com ]


BUON VITIGNO (AUTOCTONO) DOVE SERVE

Un leggero e fruttato Pelaverga tipico della Val Bronda, un Quagliano dai lievi sentori aromatici, un denso e corposo Chatus, sinonimo francese del locale Nebbiolo di Dronero o Bolognino, diffuso nella fascia pedemontana da Cuneo a Pinerolo, una profumata Nascetta, rarità dei dintorni di Novello, uno speziato Verduno Pelaverga, un Rossese bianco dai riflessi verdolini… Andava così elencando qualche giorno fa la dottoressa Anna Schneider, ricercatrice del Cnr in forza all’Istituto di Virologia Vegetale-Unità di Grugliasco (Torino), chiamata a discutere di vitigni autoctoni nell’ambito del convegno dedicato alle radici da recuperare nella viticoltura del Saluzzese e della provincia di Cuneo. E concludeva la Schneider: «Altri vitigni aspettano ancora di essere provati, sperimentati, capiti, riservandoci forse altre singolari sorprese».
La tendenza è infatti ormai ben nota a chi si interessa anche superficialmente di enologia: accanto a una marcata specializzazione sui vini da vitigni internazionali – sempre più perfetti, sempre più qualitativi – si assiste nel nostro Paese a un tentativo di “recuperare il territorio”, di rilanciare l’autenticità, in una sintesi che è nello stesso tempo generosa e doverosa, illuminata e inevitabile, dettata cioè sia dalla giusta volontà di preservare vitigni storici, in virtù di un mutato atteggiamento culturale, sia dalla semplice e dirimente necessità di proporre sul mercato qualcosa di distinguibile, diverso, anzi unico (e per giunta spesso di alto pregio). Dunque non è casuale che il Centro per le Rarità Ampelografiche Cuneesi “Giuseppe di Rovasenda” – durante l’inaugurazione del quale illustri studiosi si sono soffermati sul tema che stiamo esponendovi nel corso dell’affollato convegno di cui sopra - nasca in quel di Saluzzo proprio nell’anno di grazia 2007. Oggi infatti «il consumatore è stufo di bere vini sempre uguali e i vitigni rari meritevoli rappresentano il futuro della viticoltura europea, che si contrappone a quella omogenea e ripetitiva del Nuovo Mondo», ha spiegato un’autorità in materia come il professor Mario Fregoni, ordinario di Viticoltura all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e una delle voci più autorevoli della viticoltura mondiale. Eppure non sempre, anche nel recente passato, tale evidenza è stata ben compresa… O perlomeno non ha portato a comportamenti conseguenti, le buone intenzioni non sono spesso state seguite dai fatti e si contraddicono tuttora ove vengono piantati vitigni internazionali anche in aree provviste di “rarità” vitivinicole. D’altra parte, ha aggiunto Fregoni, «sul piano nazionale lo studio e la valorizzazione dei vitigni autoctoni rari sono stati relativamente “rari”, salvo lodevoli eccezioni, se si considera che in Italia esiste un patrimonio di variabilità genetica introvabile in altri Paesi, costituito forse da 3.000 vitigni (sui 10mila circa catalogabili a livello mondiale, ndr), di cui la maggior parte da considerare rari e a rischio di erosione genetica definitiva». Un patrimonio che se ne va per sempre composto di vitigni coltivati su superfici limitate o presenti solo in pochi ceppi, o solo nelle collezioni ampelografiche.
E’ dunque una novità al passo coi tempi ma con straordinari, quasi commoventi legami col passato, quella che si sta vivendo nella viticoltura cuneese. I tecnici del nuovo Centro hanno passato in rassegna le varie aree della provincia, riscontrando nelle Langhe una specializzazione nella produzione che ha portato a uniformare i vigneti (Nebbiolo, Dolcetto e Barbera), invece nel Roero (orgoglioso per il successo di un ritrovato Arneis) una certa biodiversità residua, così come sulle colline saluzzesi, zona da “piccole Doc” ben caratterizzate con il loro vitigni particolari. Vecchi, antichi vitigni ormai dimenticati anche nei dintorni di Mondovì, di Cuneo, in Valle Stura, in Val Maira, dove i vigneti sono ormai praticamente scomparsi. Insomma, come ha sintetizzato Maurizio Gily, agronomo e direttore del mensile “Millevigne”, «la sopravvivenza di una grande biodiversità, con un gran numero di vitigni autoctoni e poco conosciuti» va a caratterizzare proprio quelle «aree che sono rimaste, in qualche modo, ai margini dello sviluppo (vitivinicolo, ndr), ed oggi si trasforma in una straordinaria arma di riscatto». Insomma, per una volta non piove sul bagnato, anzi ad avere più chances in questa tendenza alla tipicità sono proprio quelle aree rimaste tagliate fuori dal progredire della nostra viticoltura. Un trend due volte interessante, dunque, che caratterizza il Cuneese ma in realtà tutta la Penisola; ed è giusto che nel caso specifico ad accompagnare tale sviluppo sia un Centro dedicato al nome di chi, come Giuseppe di Rovasenda, già sul finire del secolo XIX, si preoccupò di recuperare e catalogare ben 3350 vitigni diversi, con lavoro di alto pregio scientifico e offrendo un contributo al progresso dell’ampelografia che ora appare in tutta la sua enormità. Ancora una volta il nostro Paese trae la sua forza dal passato (o di quel che ne rimane).
BUON VITIGNO (AUTOCTONO) DOVE SERVE
Un leggero e fruttato Pelaverga tipico della Val Bronda, un Quagliano dai lievi sentori aromatici, un denso e corposo Chatus, sinonimo francese del locale Nebbiolo di Dronero o Bolognino, diffuso nella fascia pedemontana da Cuneo a Pinerolo, una profumata Nascetta, rarità dei dintorni di Novello, uno speziato Verduno Pelaverga, un Rossese bianco dai riflessi verdolini… Andava così elencando qualche giorno fa la dottoressa Anna Schneider, ricercatrice del Cnr in forza all’Istituto di Virologia Vegetale-Unità di Grugliasco (Torino), chiamata a discutere di vitigni autoctoni nell’ambito del convegno dedicato alle radici da recuperare nella viticoltura del Saluzzese e della provincia di Cuneo. E concludeva la Schneider: «Altri vitigni aspettano ancora di essere provati, sperimentati, capiti, riservandoci forse altre singolari sorprese».
La tendenza è infatti ormai ben nota a chi si interessa anche superficialmente di enologia: accanto a una marcata specializzazione sui vini da vitigni internazionali – sempre più perfetti, sempre più qualitativi – si assiste nel nostro Paese a un tentativo di “recuperare il territorio”, di rilanciare l’autenticità, in una sintesi che è nello stesso tempo generosa e doverosa, illuminata e inevitabile, dettata cioè sia dalla giusta volontà di preservare vitigni storici, in virtù di un mutato atteggiamento culturale, sia dalla semplice e dirimente necessità di proporre sul mercato qualcosa di distinguibile, diverso, anzi unico (e per giunta spesso di alto pregio). Dunque non è casuale che il Centro per le Rarità Ampelografiche Cuneesi “Giuseppe di Rovasenda” – durante l’inaugurazione del quale illustri studiosi si sono soffermati sul tema che stiamo esponendovi nel corso dell’affollato convegno di cui sopra - nasca in quel di Saluzzo proprio nell’anno di grazia 2007. Oggi infatti «il consumatore è stufo di bere vini sempre uguali e i vitigni rari meritevoli rappresentano il futuro della viticoltura europea, che si contrappone a quella omogenea e ripetitiva del Nuovo Mondo», ha spiegato un’autorità in materia come il professor Mario Fregoni, ordinario di Viticoltura all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e una delle voci più autorevoli della viticoltura mondiale. Eppure non sempre, anche nel recente passato, tale evidenza è stata ben compresa… O perlomeno non ha portato a comportamenti conseguenti, le buone intenzioni non sono spesso state seguite dai fatti e si contraddicono tuttora ove vengono piantati vitigni internazionali anche in aree provviste di “rarità” vitivinicole. D’altra parte, ha aggiunto Fregoni, «sul piano nazionale lo studio e la valorizzazione dei vitigni autoctoni rari sono stati relativamente “rari”, salvo lodevoli eccezioni, se si considera che in Italia esiste un patrimonio di variabilità genetica introvabile in altri Paesi, costituito forse da 3.000 vitigni (sui 10mila circa catalogabili a livello mondiale, ndr), di cui la maggior parte da considerare rari e a rischio di erosione genetica definitiva». Un patrimonio che se ne va per sempre composto di vitigni coltivati su superfici limitate o presenti solo in pochi ceppi, o solo nelle collezioni ampelografiche.
E’ dunque una novità al passo coi tempi ma con straordinari, quasi commoventi legami col passato, quella che si sta vivendo nella viticoltura cuneese. I tecnici del nuovo Centro hanno passato in rassegna le varie aree della provincia, riscontrando nelle Langhe una specializzazione nella produzione che ha portato a uniformare i vigneti (Nebbiolo, Dolcetto e Barbera), invece nel Roero (orgoglioso per il successo di un ritrovato Arneis) una certa biodiversità residua, così come sulle colline saluzzesi, zona da “piccole Doc” ben caratterizzate con il loro vitigni particolari. Vecchi, antichi vitigni ormai dimenticati anche nei dintorni di Mondovì, di Cuneo, in Valle Stura, in Val Maira, dove i vigneti sono ormai praticamente scomparsi. Insomma, come ha sintetizzato Maurizio Gily, agronomo e direttore del mensile “Millevigne”, «la sopravvivenza di una grande biodiversità, con un gran numero di vitigni autoctoni e poco conosciuti» va a caratterizzare proprio quelle «aree che sono rimaste, in qualche modo, ai margini dello sviluppo (vitivinicolo, ndr), ed oggi si trasforma in una straordinaria arma di riscatto». Insomma, per una volta non piove sul bagnato, anzi ad avere più chances in questa tendenza alla tipicità sono proprio quelle aree rimaste tagliate fuori dal progredire della nostra viticoltura. Un trend due volte interessante, dunque, che caratterizza il Cuneese ma in realtà tutta la Penisola; ed è giusto che nel caso specifico ad accompagnare tale sviluppo sia un Centro dedicato al nome di chi, come Giuseppe di Rovasenda, già sul finire del secolo XIX, si preoccupò di recuperare e catalogare ben 3350 vitigni diversi, con lavoro di alto pregio scientifico e offrendo un contributo al progresso dell’ampelografia che ora appare in tutta la sua enormità. Ancora una volta il nostro Paese trae la sua forza dal passato (o di quel che ne rimane).

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