ATTORNO ALLA TAVOLA
A cura di CARLO PASSERA [ passera.web@asa-press.com ]


QUI GIACE IL BUON GUSTO, UCCISO DALLE MULTINAZIONALI

C’è qualcuno convinto che il nostro palato sia sempre più fine; che, cioè, una imperante moda “slow food”, la riscoperta della tradizione culinaria, la ricerca di prodotti tipici di nicchia testimonino una generalizzata maggiore educazione al gusto, una più spiccata capacità a capire dove sta davvero il Buono. Non è così, o almeno non lo è del tutto. Certo, vi è ormai una fetta di popolazione abbastanza larga (in campo editoriale l’avrebbero chiamata la “massa antimassa”) che ricerca rarità alimentari che, anche solo per questo, non lo sono ormai più. Ma già in questo segmento, e soprattutto in quello assai più vasto del “consumatore inconsapevole”, si sta invece facendo largo un crescente cattivo gusto indotto innanzi tutto da banali regole di mercato. Prendiamo, per capirci, il caso della ricotta: in passato era composta dal 5% di grassi e dal 18% di proteine, oggi dal 10% di grassi (il doppio) e dal 9% di proteine (la metà). Motivo? Una consapevole scelta delle industrie multinazionali, che attraverso un più largo uso dei grassi abbattono i prezzi (costano meno) e trasmettono messaggi sensoriali semplici (o ancor meglio semplificati). Ci abituano scientemente all’appiattimento del palato, e incidentalmente all’intasamento delle coronarie. «E la gente pensa, sbagliandosi, che la ricotta sia un prodotto magro», commentava qualche giorno or sono Roberto Zironi, ordinario di Industrie Alimentari all’Università di Udine nonché vicepresidente Iasa (International Academy of Sensory Analysis), chiamato nell’ambito di Vinitaly a discutere proprio di questo tema: “Il mercato dei sensi”. Zironi concludeva sconsolato che l’educazione al gusto è in Italia ancora un obiettivo lontano; anzi, l’esempio della ricotta (ma vale lo stesso per lo yogurt e tanti altri prodotti industriali) indica un processo molto chiaro: se nei primi mesi di vita l’istinto ci porta ad affinare i nostri sensi, a partire dallo svezzamento le multinazionali dell’alimentazione ci fanno rapidamente dimenticare l’addestramento propinandoci pappine energetiche, in una continua educazione al non gusto che porta a diete ipercaloriche dominate da stimoli monosensoriali molto forti. Nell’adolescenza cresciamo così negli odori e nei gusti dei fast-food e nella maturità ci appassioniamo, in controtendenza, allo “slow” falso dei gusti preconfezionati da qualche movimento di opinione. Il gioco è fatto.
Non sorprende così che il povero consumatore ricerchi con sempre maggiore insistenza colori intensi, aromi sempre più floreali, amari un po’ meno amari, un caffè tostato un po’ meno tostato e la birra un po’ meno birra; in generale manifesti un appiattimento del gusto che va a favore del… tatto, come ha affermato Manuela Violoni, responsabile della ricerca e sviluppo del Centro Studi Assaggiatori. Un paradosso solo apparente, pur trattandosi di mercato alimentare: le sensazioni tattili, ad esempio la cremosità, la pastosità, la fluidità, sono infatti quelle che si trasmettono meglio attraverso i mezzi di comunicazione visivi (nella pubblicità ad esempio si pone l’accento sullo yogurt che scivola lentamente o la crema del caffè particolarmente voluminosa…); inoltre il tatto è il senso del contatto fisico, dell’affetto, della rassicurazione, quindi molto gradito ai consumatori, vere e proprie vittime inconsapevoli di un complotto contro la loro capacità di cibarsi bene.
Inevitabile che si sia dunque un po’ tutti schizofrenici, in preda – come ha brillantemente sintetizzato Luigi Odello, presidente del Centro Studi Assaggiatori – a un conflitto a volte sanato da una pubblicità sottile e convincente, altre da un marchio di garanzia tranquillizzante e retorico. Ma la grande domanda è: come faremo (faremo) a sperimentare sensazioni nuove se abbiamo perso (perderemo) la capacità di valutarle?

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