PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]

L’agricoltura italiana di fronte ai nuovi scenari evolutivi
Non si riesce a superare l’atavico ritardo strutturale del settore che paga in scarsa competitività

Sia in questa rubrica sia su altre testate segnalo ripetutamente sia le non numerose performance positive del comparto sia quelle negative, ribadendo in pari tempo il buon lavoro che il Ministro Zaia in pochi mesi è riuscito a compiere risvegliando, anche se non ancora completamente, il suo Dicastero ancora permeato da incrostazioni burocratiche e pesantezze intollerabili. Commentando l’ultimo rapporto Nomisma sull’agricoltura italiana, promosso da Confagricoltura, recentemente presentato, perdurano antiche preoccupazioni sul futuro del settore lungo tutta la sua filiera. In uno scenario di muscolosi e rapidissimi cambiamenti (riforma della PAC, verifica del bilancio comunitario in corso, prezzi agricoli in altalena, crisi finanziaria ed economica in atto a livello mondiale), il tema della competitività delle aziende agricole rappresenta un fattore con il quale fare i conti per lo sviluppo futuro dell’intero sistema agroalimentare nazionale e quindi della centralità dell’impresa agricola nel sistema economico.
La nota più dolente è l’annoso ritardo strutturale dell’italica agricoltura che contraddistingue questo settore rispetto ai principali competitori europei. Qualche esempio con relativi “noiosi” numeri? Su una media comunitaria di circa 12 ettari di superficie agricola utilizzata (Sau ) per azienda, l’Italia ne conta poco più di 7 contro i 49 della Francia e i 44 della Germania. Le imprese del nostro Paese di ampiezza superiore ai 50 ettari pesano per solo il 2% mentre incidono per il 35% in Francia e il 22% in Germania. E’ fuor di dubbio che questo ‘minimalismo’ dato dall’elevata frammentazione aziendale e dei poderi non consente di sfruttare al meglio tecnologie e innovazioni (che invece marciano a grande velocità), portando la produttività a valori inferiori a tutti i nostri principali concorrenti: 18.200 euro di valore aggiunto per addetto contro i 30mila della Francia, i 22.300 della Spagna e i 20mila della Germania. Un gravame che vanifica, o quantomeno sminuisce gli sforzi di parecchie nostre imprese che non possono sfruttare i vantaggi derivanti dal buon posizionamento competitivo detenuto dai prodotti agroalimentari italiani sui mercati internazionali. L’export, malgrado tutto va benino, ma assai meglio potrebbe rendere. Nel decennio (‘97/2007), la quota dell’Italia nel commercio agroalimentare mondiale è passata dal 2,8% al 3,1%, collocandosi al 10° posto nella hit parade internazionale tra Paesi esportatori. Il dato sottende una crescita nei valori del nostro export agroalimentare (+104%), contro una media mondiale ferma all’89% ma che ha visto contestualmente crescere quelli di Brasile, Cina, Germania e Spagna a ritmi superiori e, al contrario, diminuire quelli di Stati Uniti, Francia, Canada, Regno Unito e Australia. Vino, ortofrutta fresca e trasformata rappresentano i primi tre comparti delle esportazioni agroalimentari italiane che, congiuntamente, rappresentano il 35% dell’intero valore delle vendite oltre frontiera per un valore di 23,7 miliardi di euro.
Secondo quanto emerge dal Rapporto, altra strozzatura che soffoca lo sviluppo è la difficoltà del ricambio generazionale dei capi azienda la maggior parte di essi ultra 65enni, anche se oggettivamente alcuni segnali di rinnovamento si notano.
Ma osserviamo quali sono i più sentiti punti di criticità alla luce dell’indagine Nomisma effettuata su 500 imprese ripartite sull’intero territorio nazionale.

IL MACIGNO DELLA BUROCRAZIA. Noi divulgatori ne parliamo, ne scriviamo, puntiamo l’indice, polemizziamo: figurarsi l’imprenditore agricolo. “Vox clamantis in deserto” che tradotto da gente imbufalita ha un significato non precisamente dotto né elegante. Quello della semplificazione burocratica rappresenta un’annosa questione irrisolta.
Basti infatti pensare che oltre il 65% delle imprese concorda sul fatto che gli adempimenti burocratici rappresentano un problema da risolvere, e una percentuale superiore ritiene che negli ultimi dieci anni le problematiche aziendali collegate alla burocrazia siano addirittura peggiorate tanto che questi adempimenti fanno perdere ogni anno più di 60 giornate.
L’accesso al mercato finale viene considerato un altro serio problema da risolvere; per oltre il 60% degli intervistati l’incapacità di andare oltre il localismo e la delega a terzi delle proprie produzioni rappresentano i motivi principali che non permettono alle imprese di collocare in maniera ottimale e redditizia i propri prodotti. Evitare la filiera lunga si può eccome, ma in verità esistono angoli oscuri e troppi “manovratori” che lo impediscono.
Sul fronte della manodopera sono i costi elevati, la formazione professionale non adeguata e l’incapacità di reperire forza lavoro con tempestività i vincoli maggiori.

ABBASSO LA CHIMICA SUI CAMPI? “MA MI FACCIA IL PIACERE”, DICEVA TOTÒ. Infatti le imprese concordano che agrofarmaci e fertilizzanti chimici presentano un’utilità elevata per la produttività. Dall’indagine è emerso chiaramente che in caso di “non” utilizzo degli agrofarmaci il 39% delle imprese rischierebbe di perdere dal 25% al 50% della propria produzione annuale; un altro 22% rischierebbe un calo dal 50% al 75% mentre un altro 13% potrebbe vedere andato perduto l’intero raccolto.
Le considerazioni conclusive che il Rapporto di Nomisma ha messo in luce focalizzano i punti di forza e le criticità del sistema agroalimentare nazionale ed evidenziano limpidamente la necessità per le imprese agricole di migliorare la propria competitività. Un obiettivo da raggiungere attraverso l’intervento su alcune leve come quella dell’organizzazione produttiva (mediante processi di aggregazione, concentrazione dell’offerta e ulteriore qualificazione delle produzioni) e della commercializzazione attraverso uno sviluppo dell’internazionalizzazione e delle relazioni con la GDO, ai quali devono essere affiancati nuovi strumenti in grado di migliorare la gestione del rischio e politiche specifiche più efficaci sui singoli fattori di competitività delle imprese per il lavoro, per la semplificazione burocratica, per l’accesso al mercato e al credito.

Cookie & Privacy Policy