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PERCORRENDO
LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com
]
Certificazioni
Overdose di Dop e Igp
La prima nitida immagine del comparto dei prodotti agroalimentari di qualità
contrassegnati con le sigle europee Dop (Denominazione Origine Protetta)
e Igp (Indicazione Geografica Protetta) l’ha scatta l’Istat.
La prima considerazione è che questa filiera è estremamente
dinamica. Sono 54.678 le aziende agricole coinvolte alle quali aggiungere
5.718 trasformatori. I settori principali sono rappresentati da ortofrutta
e cereali, oli extravergine, formaggi e preparazioni di carni. Minori,
ma pur sempre peculiari di una tradizione territoriale che può
dare valore all’impresa, sono appunto le carni e altri prodotti
d’origine animale, gli aceti diversi dagli aceti di vino, i prodotti
dell’arte bianca, spezie e oli essenziali. Un patrimonio diversificato
e unico, che rappresenta una parte economicamente importante della produzione
nazionale. Basti pensare che i prodotti con origine territoriale certificata
rappresentano il 20,2% dell’export del settore. Il giro d’affari
di Dop e Igp ha reso nel 2005 oltre 9 miliardi di euro al consumo e 4,3
miliardi alla produzione (fonte Confagricoltura) sul totale del comparto
alimentare che vale 107 miliardi, e le esportazioni hanno realizzato circa
900 milioni di euro. L’enorme polverizzazione dell’offerta,
però, rileva Confagricoltura, penalizza la loro competitività
rispetto alle label private: servono strategie di filiera strutturata
che coinvolgano tutti i protagonisti del settore. Qualcosa si sta muovendo
con alcuni consorzi di tutela che hanno attivato partnership e azioni
promozionali e di marketing assieme a Gdo e Horeca.
Seconda personalissima riflessione. Fermo restando che l’ottenere
la certificazione europea può (ma non sempre) dare valore al prodotto
e a chi lo produce, è legittimo tuttavia chiedersi quale ulteriore
valore, in questo caso economico, potrebbero ricavare e quali attacchi
dalla concorrenza, nazionale e internazionale devono paventare i produttori
del Fico Bianco del Cilento (Dop) considerato che se ne ricavano poche
centinaia di chili e che neppure in zona è conosciuto. Stesso discorso
vale per il Fagiolo di Sarconi (Igp), per la Farina di Neccio della Garfagnana
(Dop) piuttosto che per il Pane casereccio di Genzano (Igp) introvabile
al di fuori del Lazio, per l’olio d’oliva Bruzio o il Marrone
di San Zeno (Igp), tanto per citarne alcuni. E’ vero che oltre il
20% in valore del nostro export riguarda prodotti certificati, ma esaminando
i dati si evince che questo 20 % è costituito perlopiù dalle
vendite di Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Prosciutto di Parma (e
chissà quale percentuale maggiore se non fossero i più taroccati).
Ma tant’è; la corsa alle certificazioni prosegue senza soste
sfidando l’enorme mole burocratica necessaria per percorrere l’iter
sino a giungere a Bruxelles dove si verificano feroci bagarre, compromessi
e baratti tra i 27 Paesi della Ue. Il ritornello dei veti pro e contro
è noto: “io concedo un prodotto a te e tu ne concedi uno
a me”. La controprova? Come mai malgrado l’infinità
di polle sorgive e di marche di acque minerali sulle quali si investono
decine di miliardi in pubblicità per farsi preferire, non c’è
neppure una bottiglietta delle nostre acque minerali certificate?
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