Prodotti
biologici
Se viene da lontano il bio inquina più del
convenzionale
Produrre con metodi biologici non è più
sufficiente. L'ecocompatibilità di un alimento ora si misura anche
in chilometri, o per dirla nella lingua di Albione, in miglia. Infatti,
i primi a sostenerlo sono stati gli inglesi che hanno introdotto il "food
miles", ossia il concetto di distanza percorsa da un alimento per
arrivare dal produttore al consumatore. In termini partici, se un prodotto
biologico, ad esempio un grappolo d’uva, una mela piuttosto che
una insalatina fors’anche di IV gamma, fanno centinaia se non migliaia
di chilometri prima di arrivare al punto di vendita, finiscono per inquinare
e consumare risorse energetiche in misura anche maggiore rispetto ai prodotti
convenzionali ma distribuiti nei pressi del luogo di produzione. Questo
concetto, tutt’altro che vieto, sta affermandosi anche dalle nostre
parti poiché la coscienza ambientalista dei consumatori, non solo
di quelli innamorati del biologico, sta crescendo unitamente all'amplificazione
dell'inquinamento e alla diminuzione delle risorse naturali. Per rendersene
conto, basti sapere che l'agricoltura è responsabile solo del 20%
dei consumi energetici necessari a produrre e portare un alimento sui
banchi di vendita, mentre trasporti e logistica incidono per oltre il
30% sui costi sostenuti dalle imprese agroalimentare. Per citare solamente
quelle italiane. La nuova tendenza è pertanto di prestare maggiore
attenzione al luogo d’origine dei prodotti, con un risveglio degli
acquisti direttamente in azienda o nei market farmers (vedi notizia postata
recentemente). Oltre al vantaggio ambientale si ottiene un ulteriore doppio
vantaggio economico: prezzi più bassi al consumo, maggiore remunerazione
per i produttori.
Ristorazione
Chefs for peace
Che una tavola imbandita, anche la più modesta ed essenziale
fosse fonte di aggregazione quando non di calda amicalità non
stupisce. E’ cosa risaputa sin dalla notte dei tempi. Tale realtà
è stata recentemente riconfermata in occasione del Cous Cous
Fest di San Vito lo Capo giunto alla decima edizione. Ma con qualcosa
in più. Nei vicoli e sulla bella spiaggia della deliziosa cittadina
siciliana è successo, per dirla con un termine da corpo diplomatico,
che la “road map” disegnata con fatica per il raggiungimento
della pace tra due nazioni nemiche, ha fatto qui un gigantesco balzo
in avanti. Per tutti i tre giorni della competizione cuochi israeliani
e palestinesi hanno trascorso insieme non solo i momenti di lavoro nelle
cucine, ma anche gran parte del tempo libero in hotel, e nel dopo gara,
nella la tenda berbera Al Waha, allestita sulla spiaggia dagli organizzatori.
«Non sono un politico - ha spiegato lo chef israeliano Eyal Levy
- ma di un fatto sono certo: scontri e guerre sono questioni che riguardano
i politici. La gente comune, che si tratti di israeliani o palestinesi,
arabi o ebrei, vuole una cosa sola: la pace». Esiste un’associazione
israeliana, 'Chefs for peace', che si propone di organizzare eventi
per cercare di unire le persone. “Lo facciamo sia soprattutto
con il cibo - chiarisce Levy - una lingua che tutti sono in grado di
comprendere, nonché con i messaggi che cerchiamo di lanciare».
In questa occasione ha presentato il cous cous di re Salomone (vincitore
della gara) che si rifà alla tradizione biblica, ma con l’aggiunta
di un ingrediente proveniente da ciascuno dei Paesi in gara. I palestinesi,
dal canto loro, hanno presentato un piatto basato su una varietà
particolare di cous cous, il maftul. Quello servito per la gara ha una
storia ancora più avvincente: la sua ricetta è infatti
stata creata da una cooperativa di 400 donne della Striscia di Gaza,
vedove o figlie di vittime del conflitto israelo-palestinese. Lanciato
in una delle precedenti edizioni del festival, questo maftul è
ora commercializzato anche in Italia grazie al circuito del commercio
equo e solidale. Pertanto le donne di questa cooperativa sono così
in grado, da sole, di sostenere economicamente tutta la comunità
del loro piccolo villaggio.
Ristorazione
La filosofia buddista ama la cucina italiana
La notizia è stata battuta dall’agenzia Ansa e credo valga
la pena riprenderla. Nel tempio “Tsukiji Hongan-ji” di Tokio
c’è un ristorante di cucina italiana battezzato “Cafe
de Shinran”, in riferimento al monaco giapponese fondatore di
una delle scuole buddiste più antiche dove vige l’antico
motto “Slow Spiritual Life”. Il legame con la nostra cucina
va oltre il semplice business, l’insegnamento di Buddha è
slow, che riconduce in qualche modo direttamente alla filosofia portata
avanti da Slow Food, noto in Giappone anche grazie alla frequente collaborazione
con la rivista salutista “Sotokoto”, principale sponsor
di questo ristorante italo-buddista. In questa particolare esperienza
mistico-culinaria, niente è lasciato al caso, soprattutto per
il menù: con un prezzo medio di 1.500/2.000 yen a portata (9-12
euro), è possibile gustare i nostri piatti tipici come vari tipi
di pasta fresca fatta a mano, trippa al sugo, tagliata di manzo e insalatone
con rucola e formaggi lodigiani. Il tutto è preparato seguendo
i dettami delle ricette tradizionali, utilizzando esclusivamente materie
prime (sia giapponesi che italiane) di alta qualità assolutamente
senza alcun additivo chimico.
“La cucina italiana - spiega il responsabile del Café de
Shinran - è quella che più si adatta a uno stile di vita
salutare e in sintonia con la natura, filosofia insita nell’insegnamento
buddista: semplicità e benessere per corpo e mente”.