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PERCORRENDO
LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com
]
Polemiche casearie
Sul Bitto è Bagarre: 13 produttori (su 110) lasciano il consorzio.
La precisazione di Cheesetime
Lo scambio di esperienze tra giornalisti
è sempre fonte di arricchimento culturale reciproco.
A.S.A. quindi favorisce, con tutti i mezzi a sua disposizione, questo
scambio che potrebbe estendersi oltre gli educational tours, le tavole
rotonde, i convegni, la pubblicazione di testi sui nostri notiziari e
sul nostro sito.
Una modalità molto interessante potrebbe essere, per esempio, un
forum, sempre all'interno del sito A.S.A., aperto ai contributi di colleghi
A.S.A. e non, su argomenti che si prestano ad uno scambio di opinioni
- ovviamente, anzi necessariamente per loro natura, diverse tra loro.
Auspico che ci possa essere sempre più questa forma di dialogo,
e in forma urbana e collegiale: per conoscerci meglio tra noi e per conoscere
sempre meglio le mille sfumature del ricco e affascinante mondo agroalimentare.
Gudrun Dalla Via, Presidente A.S.A.
28 giugno 2006
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Spettabile
Asa Press
Milano
c.a Direttore Responsabile
c.a. Responsabile sito web Roma,
27 giugno 2006
Egregi Signori,
questa lettera scaturisce da una divergenza di opinioni tra il vostro
Giuseppe Cremonesi e il sottoscritto. Il suo intento è duplice;
al di là della mia richiesta di precisazione, mi augurerei che
essa possa offrire spunti di riflessione sul ruolo del giornalista (e
dell’editore) d’oggi in campo agro-alimentare.
Mi riferisco all’articolo “Polemiche casearie - Sul Bitto
è bagarre: 13 produttori (su 110) lasciano il consorzio”,
pubblicato sul Vostro sito internet, per far luce sui dubbi e le critiche
che l’autore del pezzo muove a me e alle altre parti da lui chiamate
in causa, Associazione Valli del Bitto e Paolo Ciapparelli, che dell’associazione
è fondatore e presidente.
Una premessa è d’obbligo, affinché questa mia replica
possa essere chiara anche a chi non ha seguito le recenti e complesse
vicende del Bitto. La premessa riguarda Cheese Time, il bimestrale da
me fondato nel 2004, anno in cui percepii chiaramente che la duplice natura
del mondo caseario (da una parte gli artigiani, i malghesi e i pastori
transumanti, dall’altra i produttori più “organizzati”
e le industrie, spesso allettati dai miraggi delle Dop e quasi mai in
grado di produrre le tipicità locali senza modificarne la natura
originaria, vale a dire senza
mangimi, senza fermenti e conservanti) avrebbe potuto mettere in grave
difficoltà le realtà più autentiche, spesso legate
a tradizioni produttive di centinaia e talvolta di migliaia d’anni.
Da subito l’obiettivo di Cheese Time fu quello di dare voce alle
realtà più vere, disarmate e “periferiche” dell’agro-alimentare
italiano, troppo in ombra per via del peso che i medi e grandi produttori
hanno sul mercato e per una legislazione comunitaria più dalla
loro parte che da quella dei piccoli “artigiani” (per fare
un esempio, vi sottolineo che all’interno delle assemblee dei consorzi
Dop e Igp, il potere decisionale non è di “un voto a testa”
bensì è legato ai livelli produttivi di ciascun socio; quindi,
più produci e più hai voce in capitolo, ad esempio, nel
far modificare un disciplinare).
Ma veniamo al dunque. Il vostro articolista contesta alla nostra testata
(per la precisione al
nostro sito web settimanale) di aver raccontato della fuoriuscita dei
produttori storici (lidefinisco io così, come meritano, essendo
loro i depositari di duemila anni di tradizione e tipicità) senza
rispettare “la prima legge che governa la professione giornalistica”.
“In caso di opinioni contrastanti”, insiste l’autore
del pezzo, “è corretto riferire il punto di vista dientrambe
le parti”.
Ma qui non si tratta di opinioni contrastanti bensì di una realtà
– il consorzio di tutela - che, nato relativamente di recente (cosa
sono dieci anni in confronto a duemila?) si sta distaccando sempre più
dall’altra realtà, storica e straordinaria gemma del panorama
alpino internazionale, modificandone le metodologie di pascolo, le pratiche
zootecniche, l’alimentazione animale e la tecnica casearia. Scusate
se è poco.
Il mio scrivere per i 13 produttori ancora attivi (che poi in realtà
son 15, e che erano 30 in origine, quando il Bitto non era stato “esportato”
a tutta la provincia di Sondrio e si sono ridotti di così tanto
anche per via delle molte difficoltà indotte da fattori esterni),
il mio schierarmi dalla loro parte, scaturisce dalla necessità
di rendere giustizia ai fatti sin qui accaduti, dalla volontà di
offrire degli stimoli ai colleghi e per indurre loro ad approfondire,
a
scavare, a guardare oltre le “verità” delle cartelle
stampa (cito Marcello Sorgi, editorialista del quotidiano La Stampa di
Torino: “il compito dei giornalisti è quello di rendere trasparente
quello che trasparente non è. È fare delle denunce”).
Riguardo la “Bitto-querelle”, credo sia giunta l’ora
che qualcuno ci dica, con l’evidenza dei fatti più attuali,
se fu buona l’idea di offrire a tutta la Valtellina l’”opportunità”
di produrre quella Dop, prospettando (dieci anni fa) a produttori allora
estranei al Bitto la possibilità di guadagnare di più. Con
quella iniziativa, a mio avviso sconsiderata, molti formaggi tipici di
altre piccole vallate della provincia si sono perduti, e a guardar oggi
il borsino del Bitto Dop, è facile capire la delusione di molti
produttori “moderni”, che hanno visto penosamente sfumare
le illusioni d’un tempo. Tanto per intenderci, nel 2005 il prezzo
d’acquisto del “Bitto generico”, alla fine della stagione
d’alpeggio, si è attestato attorno agli 8,00 Euro al chilo,
mentre nello stesso anno i produttori storici - che da dieci anni rinunciano
all’etichetta Dop (per distinguersi) e puntano al rispetto della
naturalità del processo tradizionale - hanno incassato 15-16,00
Euro al chilo. Questo per intenderci su quale sia la forbice tra i due
prodotti e su cosa paghi di più tra lo stare sotto l’ombrello
di un consorzio di tutela e il puntare alla qualità
assoluta attraverso il mantenimento delle antiche pratiche produttive.
Tornando al vostro testo in oggetto, va inoltre sottolineato come il suo
autore non consideri (forse non li conosce) molti aspetti tecnici e storici
fondamentali di questa vicenda, che ho il piacere di trattare qui brevemente,
per completare un racconto altrimenti fallace:
a. il Bitto nacque circa duemila anni fa nelle due piccole vallate di
Gerola e di San Marco d’Albaredo, uniche a possedere nei propri
pascoli i calècc, ricoveri arcaici in muratura che permettono l’immediata
caseificazione del latte appena munto. I calècc non esistono nelle
altre vallate della provincia dove per caseificare, il latte deve essere
trasportato in malghe o
in caseifici non sempre prossimi al pascolo, scuotendo così la
materia prima (le vibrazioni non giovano alla sua qualità) e lasciando
che essa si raffreddi – e che la carica batterica salga –
cosa assai grave se si pensa che si tratta di uno dei pochissimi formaggi
che da sempre si caratterizzano per la caseificazione “a caldo”.
b. la capra di razza Orobica o della Val Gerola, il cui latte è
elemento fondante del Bitto della vera tradizione, esisteva solo in Val
Gerola e in Valle d’Albaredo. Con l’allargamento della zona
di produzione è venuto a mancare quel legame con la tipicità
(il latte di capra che tanto concorre al gusto e alla straordinaria longevità
di questo formaggio) per cui nel resto della Valtellina si fanno sì
in alcuni casi dei grandi Bitto, ma in cui il terroir (grande concetto
coniato nel mondo del vino per esprimere il mix di territorio, vigna,
cantina e saperi umani tramandati che caratterizza ogni singola realtà
con una propria “impronta” irriproducibile) non potrà
mai essere quello delle vallate d’origine.
c. il consorzio di tutela ha voluto inserire alcune modifiche al disciplinare
che vanno in direzione opposta ai concetti di tipicità e tradizione
e che contrastano con l’intenzione prima e sacrosanta dei produttori
storici, che è quella di rispettare la metodologia originaria.
Il consorzio ha così introdotto nella dieta delle bovine la somministrazione
di mangimi in alpeggio (criticatissima dal prof. Michele Corti, docente
di Zootecnia all’Università di Milano ed esponente del Rare,
associazione Razze Autoctone a Rischio d’Estinzione, perché
induce gli animali alla sedentarietà, ovvero a rimanere prossimi
alla zona di mungitura e a non mangiare la necessaria erba del pascolo)
e l’uso di fermenti lattici che se da una parte facilitano il lavoro
del casaro, dall’altra comportano un’inevitabile standardizzazione
del gusto.
Sulla figura del Signor Paolo Ciapparelli, che il vostro articolista definisce
“imprenditore di piastrelle e laterizi” che “nulla ha
a che fare col formaggio”, va precisato che nel 1996, anno dell’estensione
della zona di produzione a tutta la Valtellina, esso ebbe il merito di
convincere i casari storici a riunirsi in un’associazione tra produttori
(l’Associazione Valli del Bitto) e che nel 2003, assieme ad altri
nove imprenditori locali apparentemente “estranei” al mondo
del formaggio, creò la Valli del Bitto Trading, per garantire ai
produttori “storici” il ritiro delle forme. Cosa mosse quegli
“estranei” a prendere tale decisione? La passione sincera
per un prodotto simbolo della loro terra, che stava per rischiare di essere
schiacciato dall’incombente “sistema Dop” (un’intuizione
questa di cui noi tutti dovremmo loro rendere merito).
Chiudo con una domanda, che vale tanto per il Bitto quanto per altre Dop
che stanno patendo per l’attività di sistemi “estesi”
e industriali che si sono sovrapposti alle produzioni originarie tipiche
e locali, su piccola scala: anziché rischiare di vederli scomparire,
i produttori “storici”, così ostinati e irriducibili,
non dovrebbero essere tutelati dal consorzio come “punta di diamante”
di un intero sistema, come esempio da seguire per elevare il livello delle
produzioni più “organizzate” o, in una visione più
opportunistica della cosa, semplicemente come “fiore all’occhiello”
da utilizzare – che so? - nelle strategie di marketing?
Cordiali saluti,
Stefano Mariotti
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