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PERCORRENDO
LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com
]
Sommario
TENDENZE
LA TAVOLA E’ SEMPRE PIÙ
EXTRADOMESTICA
DISTRIBUZIONE
OUTLET ENOICI SULLA PISTA DI LANCIO
CONSUMATORI
CHI SONO GLI ACQUIRENTI DELL’EXTRAVERGINE
DOP
LEGISLAZIONE
LA GRAPPA RESTA IN STAND BAY
PACKAGING
SHOPPER AL POMODORO
BUROCRAZIA
FORNI A LEGNA A RISCHIO DI SPEGNIMENTO
DIATRIBA ENOICA
TOKAJI & TOCAI HANNO VINTO GLI
UNGHERESI
PROSCIUTTI CRUDI
A SAN DANIELE DEL FRIULI LE 7 DOP IN VETRINA
EVVIVA GLI SPOSI
DI MODA IL SI’ IN CANTINA
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TENDENZE
LA TAVOLA E’ SEMPRE PIÙ EXTRADOMESTICA
Tra effettive necessità pratiche, imitazioni di
usanze di altri Paesi e forti sollecitazioni di un’offerta sempre
più ampia e articolata stanno cambiando rapidamente momenti, luoghi
e modalità di consumo di cibo e bevande.
Per gli amanti della buona tavola e della convivialità, come per
coloro che idillicamente amerebbero vedere radunati attorno al tavolo
da pranzo in orari cadenzati le proprie famiglie, così come per
i saggi nutrizionisti che predicano una alimentazione corretta e bilanciata,
per i cantori della sana cucina casalinga, per i divulgatori di ricette,
insomma per chi crede ancora che i “momenti” e i “luoghi”
per consumare cibo e bevande siano precisi punti fermi, ebbene, se non
è ancora débacle poco ci manca.
Perché la realtà sui comportamenti alimentari degli italiani
è assai diversa dalle convinzioni sostenute sino all’altrieri.
Basta guardarsi attorno nelle aree urbane come in quelle rurali per osservare
cos’è in atto e cosa succederà nei prossimi anni.
Mangiamo, mordicchiamo, pilucchiamo, sorseggiamo e tracanniamo di tutto,
ovunque e ad ogni ora del giorno. I luoghi delegati alla consumazione
di cibo e bevande stanno perdendo giorno dopo giorno la loro precisa identità
incalzati da “non luoghi” che assolvono più o meno
le stesse funzioni. Duole ammetterlo, ma per gli italiani il cibo rimane
nella sua concettualità un fattore, anzi, un valore importante,
tuttavia, come si può osservare, appunto meramente concettuale.
La società e gli stili di vita sono in continua evoluzione e consequenzialmente
anche i “momenti” per mangiare li adattiamo giocoforza alle
tempistiche dettate dalle nuove composizioni famigliari, dalle modalità
dei diversi tipi di lavoro, dal moltiplicarsi degli impegni extralavorativi
per soddisfare hobby e appagamento di fitness e quindi il “mangiare”
diventa fattore marginale. E’ destrutturato, banalizzato e assume,
a volte, persino una fastidiosa obbligatorietà.
Eppure cibo e bevande rivestono una bella fetta dei nostri budget. Vediamo
qualche cifra per rendercene conto. Nel 2004 gli italiani hanno speso
per i consumi alimentari domestici 113 miliardi di euro con una proiezione
di crescita sino al 2007 del 4,1%, percentuale stimata vicinissima alla
soglia della saturazione. Non si arresta invece la spesa per i consumi
delle stesse merci assunte fuori casa che attualmente valgono circa 57
miliardi di euro ma con una proiezione di crescita del 15,8%.
Sono all’incirca 18 milioni gli italiani che dichiarano di consumare
settimanalmente alimenti fuori delle mura domestiche per un totale di
otto miliardi di atti d’acquisto (bar soprattutto, ma anche autogrill,
quickly corner, ecc) cui aggiungere altri tre miliardi di atti per pranzi
e cene private o di lavoro in ristoranti, trattorie, pizzerie, tavole
calde, wine bar, birrerie, ecc.
Tuttavia, ciò che è più rimarchevole sono gli sconvolgimenti
dei luoghi deputati per consumare colazioni, pranzi e cene: ci sono in
atto vere e proprie “invasioni di campo”. Stiamo insomma assistendo
ad un confronto-scontro tra la ristorazione propriamente detta e bar,
catering, banqueting e moderna distribuzione per accaparrarsi la spesa
del food & beverage.
Passiamone in rassegna alcuni tra i più vivaci iniziando dalla
moderna distribuzione:
- i piccoli supermercati situati nelle aree urbane ed extraurbane, detti
punti di vendita “di prossimità” si stanno specializzando
nel preparare, al momento, panini, piattini, insalatone e snack attaccando
direttamente con i loro prezzi assai più economici i normali bar;
- nei market delle grandi superfici situati generalmente vicino a complessi
direzionali o in ogni caso luoghi dove si va a fare la spesa alimentare
più consistente, si stanno affermano i “salad bar”
e i banchi gastronomici assistiti con cibi caldi e freddi erodendo clientela
alle tavole calde o locali simili offrendo anzitutto prezzi più
bassi nonché un ventaglio di proposte assai più ampio e
articolato;
- le vending machine, ossia i distributori automatici piazzati in punti
di buon affollamento (uffici, ospedali, stazioni di servizio, mezzanini
delle metropolitane, hall di sale cinematografiche e teatri) dalle quali
oltre agli scontati snack, soft drinks e beveroni vari caldi e freddi,
escono anche prodotti freschi come yogurt, latte appena munto, frutta
tal quale o in macedonia, insalate, patatine fritte e persino, udite,
udite, spaghetti e maccheroni fumanti.
Si può aggiungere che il 29% degli intervistati da un’indagine
Nielsen afferma di acquistare regolarmente qualcosa da queste macchinette
reputate “infernali” dalle generazioni passate.
Tra gli altri “non luoghi”, in questo caso davvero estemporanei,
dove vengono somministrati cibi e bevande, vanno annoverati le sedi di
party, conferenze stampa, congressi, seminari e dei cosiddetti special
event organizzati in siti inusuali: garage, capannoni industriali dimessi,
grandi scantinati, gallerie d’arte, musei, palestre, librerie, negozi
d’abbigliamento, ecc. In questi casi il fornitore della materia
prima è prevalentemente il catering che spesso propone un pacchetto
di servizi che comprende l’animazione, le luci, la musica e quant’altro
possa essere indicato dal target dei partecipanti.
In fase di sperimentazione avanzata (MacDonald’s docet) occorre
considerare, inoltre, la ristorazione drive in che si pensava superata
ma che pare sia riconsiderata soprattutto dai giovani disposti a mangiare
i loro sandwich e sorseggiare la loro bevanda comodamente seduti in macchina;
ciò alla luce dei prezzi sempre più elevati dei pubblici
esercizi.
Esiste un altro “non luogo” che sfugge ad ogni statistica:
la strada. Mi spiego: poiché è pressoché impossibile
registrare con un minimo di scientificità statistica la presenza
e il numero di bancarelle e auto-negozi che vendono cibo e bevande da
consumare sul posto (quindi in strada) ecco perché generalmente
non sono registrati. Eppure noi tutti sappiamo che nei pressi di un impianto
sportivo, di una fiera, di un luogo deputato ai concerti rock piuttosto
che lungo il percorso di una corsa ciclistica (tanto per fare degli esempi)
troviamo bancarelle e baracchini che vendono porchette, focacce, piadine,
toast, panini, bevande, gelati, caffè e (pur senza licenza) anche
superalcolici. Punti di vendita mordi-e-fuggi che tuttavia sviluppano
un considerevole business. Nella maggior parte dei casi esente da scontrini
fiscali.
Questa panoramica che illustra con buona efficacia gli insediamenti dei
“non luoghi” di consumo di cibo e bevande dovrebbe essere
completata da una analisi delle nuove filosofie gastronomiche che appunto
le “invasioni di campo” menzionate comportano e sempre più
comporteranno. Ossia i notevoli cambiamenti sul piano del gusto.
DISTRIBUZIONE
OUTLET ENOICI SULLA PISTA DI LANCIO
Alla recente edizione di Vinitaly circolava la notizia
che ora ha avuto piena conferma. Entro il mese di giugno la società
Web Opportunities aprirà sull’autostrada del Brennero, uscita
casello di Rovereto, una grande market disposto su due piani a insegna
“WineOutlet”. L’idea di una sorta di spaccio aziendale,
usuale per capi d’abbigliamento e accessori griffati, è tuttavia
inedita per bottiglie di pregio che potranno essere acquistate a prezzi
accessibili grazie all’ampiezza dell’assortimento. Infatti,
a questa nuova iniziativa hanno già dato credito ben 100 aziende
vitivinicole con spiccata presenza di note imprese franciacortine.
La scelta d’insediamento in quest’area ne rileva la strategicità,
passaggio obbligato di gran parte del turismo Nordeuropeo peraltro già
abituato a sostare in quelle zone effettuando cospicui acquisti, ad esempio,
di prodotti caseari, ortofrutticoli e calzature. Le aziende vinicole che
hanno aderito a questo nuovo progetto hanno pertanto parametri confortanti
per valutare l’iniziativa che, salvo intoppi, può essere
coronata da successo. Ad integrazione del market vero e proprio che ospiterà,
secondo gli auspici di Massimo Meneghello, amministratore della società,
bottiglie di alta qualità rappresentative di gran parte dell’enologia
nazionale, ci sarà un banco mescita cosicché i clienti possano
effettuare meditati assaggi per scegliere poi i propri acquisti. Inoltre,
è previsto uno spazio dedicato per degustazioni e organizzazione
di eventi riguardanti la promozione dei vini. Prevista altresì
una zona destinata a libreria con numerosi titoli sul vino sia in libera
consultazione sia in vendita, nonché un corner shop riservato agli
accessori: bicchieri, cavatappi e altra oggettistica inerente al mondo
di Bacco. Fatturato iniziale previsto, 3 milioni di euro per assestarsi
a pieno regime attorno ai 5 milioni.
Analoga iniziativa, promossa dalla società “Italia S”
che unitamente ad un partner tedesco aprirà prossimamente nel centro
di Francoforte (altri ne sono previsti a Londra, Bruxelles, Berlino, Colonia
e Zurigo) un ampio mall denominato Italia's. Oltre ai vini, rigorosamente
italiani, verranno venduti prodotti tipici del made in Italy come salumi,
pasta, formaggi, conserve, e specialità varie. La fornitura di
questo outlet, che prevede un giro d’affari di 200mila euro mensili,
è assicurata da un certo numero di selezionate imprese italiane
medio-piccole che producono alimenti di nicchia di alta qualità.
Per ora non si parla di prezzi; è auspicabile che siano veramente
competitivi rispetto al dettaglio tradizionale altrimenti non avrebbero
senso né il termine usato né il ruolo che queste iniziative
si propongono.
CONSUMATORI
CHI SONO GLI ACQUIRENTI DELL’EXTRAVERGINE
DOP
Sono perlopiù maschi, laureati o comunque di istruzione
medio-superiore con buona capacità d’acquisto e gli ultra
55enni. Questi dati emergono da un sondaggio finanziato dal Mifap realizzato
da Federdop che riunisce i consorzi di tutela appunto delle Dop. Va precisato
che tale sondaggio era circoscritto all’olio d’oliva, tuttavia
si può azzardare l’estensione a tutti, o quasi, gli altri
prodotti alimentari di casa nostra contrassegnati col sigillo europeo
di protezione. Tornando all’olio, emerge che ad orientare le scelte
di acquisto degli oli Dop è la qualità seguita dall’area
di provenienza, dalla certificazione a pari merito con il prezzo. Da sottolineare
che rispetto, ad esempio, di altri prodotti, per l’olio la fedeltà
alla marca è confermata almeno dal 50% degli intervistati. Notevole,
infine, l’autocoscienza sulle proprietà salutistiche dell’extravergine
anche se solo il 60% dei consumatori conosce effettivamente le caratteristiche
intrinseche dell’olio Dop, ossia: significato del marchio, tracciabilità,
disciplinari di produzione, caratteristiche territoriali, ecc. Dal che,
come sottolinea Mauro Candeloro, presidente di Federdop, occorre che si
investa in termini di informazione e comunicazione.
LEGISLAZIONE
LA GRAPPA RESTA IN STAND BAY
La proposta di normativa in discussione a Bruxelles
per l’ottenimento della registrazione della denominazione “grappa”
nel registro delle indicazioni geografiche protette (Igp) è stata
bloccata per l’ennesima volta. In questo caso le mozioni contro
vengono dai commissari all’agricoltura estoni, polacchi, finlandesi
e svedesi che temono la concorrenza all’interno delle comunità
europea di un distillato che, a torto, è reputato simile alla vodka
di cui questi Paesi ne sono forti produttori.
Nella attesa di un compromesso, che verosimilmente sarà trovato,
la battaglia continua poiché oltre che un nostro prodotto-bandiera
è anche un business di circa 40 milioni di bottiglie che generano
un giro d’affari di 500 milioni di euro di cui il 12% proveniente
dalle esportazioni prevalentemente verso i mercati tedeschi, austriaci
e inglesi, ma con interessanti (già testate) aperture in Cina e
Giappone.
Ricordare qui cos’è, come viene prodotta e quali sfumature
di aromi e di gusto possiede la grappa è operazione laboriosa;
giusto però sottolineare che questo distillato ha origini che risalgono
al 200 a.C, che nelle diverse regioni italiane assume nomi differenti
(Branda, Fumetto, Acquavite, Raspa, Sgnapa, ecc) e che in passato oltre
a essere presente praticamente in ogni casa come unico superalcolico ancorché
“povero”, negli ultimi anni, grazie all’applicazione
di illuminati e appassionati distillatori, è assurta all’Olimpo
della liquoristica mondiale.
PACKAGING
SHOPPER AL POMODORO
La rivista Food Packaging, specializzata appunto su tutto ciò che
riguarda il confezionamento di prodotti alimentari, informa che l’Istituto
di chimica biomolecolare del CNR di Pozzuoli ha messo a punto un nuovo
progetto che permette di ottenere shopper bag (meglio conosciuti come
sacchetti della spesa) biodegradabili a partire dagli scarti della lavorazione
del pomodoro. Il programma di ricerca, spiegano i ricercatori campani,
ha avuto per obiettivo l'estrazione e la purificazione di polissacaridi
ottenuti dagli scarti della lavorazione del pomodoro e la riconversione
di quest'ultimi in buste di plastica biodegradabili.
Le caratteristiche chimico fisiche di questa estrazione dalle bucce del
pomodoro sono molto interessanti e consentono di sviluppare materiali
ecodegradabili di notevole importanza, come i teli impiegati in agricoltura
per la copertura delle serre e dei campi ed altri diversi pratici utilizzi
assolutamente non inquinanti tant’è che
il progetto pilota è già in corso di sperimentazione in
diverse aziende specializzate.
BUROCRAZIA
FORNI A LEGNA A RISCHIO DI SPEGNIMENTO
Nel mirino della cervellotica burocrazia ci sono i forni a legna delle
pizzerie colpevoli di emettere nell’ambiente sostanze inquinanti
manco fossero gli impianti dell’Italsider o le colonne di Tir sul
viadotto di Mestre. Siamo uno dei Paesi con la più alta dipendenza
da petrolio e dove l’impiego di energie alternative è praticamente
inesistente, ma qualcuno ha pensato di accanirsi sui piccoli forni a legna.
Capire esattamente da dove provenga questa vocazione di novelli spazzacamini
è cosa ardua; verosimilmente può essere scattata in qualche
funzionario del Ministero dell’ambiente. Comunque, prima che i pizzaioli
entrino in fibrillazione, Edi Sommariva, direttore generale della Fipe-Confcommercio
ha voluto precisare che «Proibire o impedire l’utilizzo dei
forni a legna per la cottura di pane e pizza, il cui riconoscimento deriva
proprio da questo tipo di cottura, significa andare verso un mondo di
prodotti industriali e standardizzati a tutto danno delle tradizioni agroalimentari
e delle tipicità. Ed è proprio a tutela di questa cultura
da offrire al consumatore che concordiamo con la richiesta di una deroga
per i forni a legna di ristoranti, pizzerie e panifici già così
rari». Utile a questo punto ricordare la differenza citata dalla
saggia parabola tra la “pagliuzza” e la “trave”
nell’occhio.
DIATRIBA ENOICA
TOKAJI & TOCAI HANNO VINTO GLI
UNGHERESI
L'Ungheria è molto soddisfatta del giudizio emesso
della Corte europea di Lussemburgo che vieta all'Italia dal 2007 l'uso
del nome del vino Tocai. Così ha precisato ad un collega della
nostra maggiore agenzia di stampa il signor Fazekas, sottosegretario al
ministero della Giustizia e rappresentante ungherese alle udienze per
questo caso. ''Il verdetto è favorevole all'Ungheria giacché
conferma un divieto già compreso nell'accordo del 1993 sul vino,
raggiunto fra Ungheria e Ue. Questo divieto entrerà in vigore il
31 marzo 2007. L'uso del marchio Tokaji per il vino spetta quindi soltanto
all'Ungheria, il Tocai friulano e Tocai italico non potranno più
essere commercializzati con quel nome oltre questa data”. Il Tokaji
è un nome geografico quello della regione dove si produce da secoli
un vino speciale, il passito di Tokaji, cui spetta pertanto una denominazione
di origine protetta nell'Ue, mentre il Tocai friulano prende il nome da
un tipo di vite. L'Ungheria è stata costretta a difendere il marchio
Tokaji non soltanto contro l'Italia ma anche contro la Francia e la Slovacchia,
e ultimamente anche contro l'Australia che commercializza il vino Canberra
Tokay.
“Prima di arrendersi alla scomparsa della denominazione Tocai dal
territorio italiano abbiamo ancora delle ultime carte da giocare”
replica comunque il Ministro delle Politiche agricole e forestali, Gianni
Alemanno.“La sentenza della Corte di giustizia europea - spiega
il Ministro - non esclude la possibilità di ottenere deroghe dalla
Commissione europea, a patto però che queste vengano concordate
con il governo ungherese. Ed è proprio per questo che entro l’estate
svolgerò una missione diplomatica in Ungheria per cercare di trovare
un’intesa con quel Paese, per consentire anche all’Italia
di continuare a produrre il Tocai senza ricorrere a un altro nome. Poiché
- prosegue Alemanno - i tempi stringono, parallelamente a questa azione
diplomatica, bisogna anche studiare il problema delle nuove denominazioni
in modo tale da prepararsi per tempo a tutte le varie eventualità”.
Queste le dichiarazioni ufficiali di entrambe le parti in causa tuttavia,
salvo ad un miracolo al quale nessuno peraltro crede, questa annosa diatriba
ci vede quantomeno giuridicamente perdenti. Giuridicamente, ma non certo
qualitativamente; vero è che il Tokaji e tutt’altra cosa,
ma il nostro Tocai col nome in scadenza (come la più banale delle
mozzarelle) è inarrivabile sotto il punto di vista della qualità
e della piacevolezza di gusto, olfattiva e organolettica. Ci obbligano
a cambiare nome ma l’impegno dei nostri vigneron furlani a conservare
queste peculiarità è cero e granitico come peraltro lo sono
le genti di quelle parti. Ora occorre fare solo attenzione a non farci
prendere la mano dalla nostra creatività irrefrenabile riguardo
alla scelta del futuro nome: le prime ipotesi ufficiose orecchiate segnalano
“Friulano”, ‘Toccai” e ‘Tai”. Salvo
il primo che sottende chiaramente un preciso riferimento al terroir (bene,
benissimo), gli altri due sono un poco cervellotici.
PROSCIUTTI
CRUDI
A SAN DANIELE DEL FRIULI LE 7 DOP IN VETRINA
Se negli intenti del Consorzio del prosciutto San Daniele
che ha organizzato un convegno coinvolgendo gli altri sei consorzi che
si fregiano della Denominazione di origine controllata (Dop) c’era
quello di confrontarsi, discutere di problematiche comuni, parlare di
mercati, prezzi, posizionamenti, comunicazione, consumi (in calo), insomma
di marketing e di strategie, ebbene, quantomeno pubblicamente ciò
non è avvenuto. Chiaramente è impensabile ipotizzare una
politica unitaria ,soprattutto commerciale, date le notevoli differenze
di volumi prodotti (e quindi del giro d’affari) tra i diversi consorzi.
Tuttavia un risultato efficace il management del consorzio friulano l’ha
ottenuto, quello di fungere da locomotiva per rendere ancora più
visibile uno dei prodotti bandiera del nostro Paese qual è appunto
il prosciutto crudo, rimarcando in pari tempo le diversità tipicità,
gusti e sapori tra un prosciutto e l’altro.
Certo, qualche defezione al convegno, o più precisamente al talk
show condotto con mano sicura e con la giusta verve dal collega Edoardo
Raspelli che ben conosce questo salume c’è stata. Assente,
per esempio, il consorzio dello speck dell’Alto Adige che pur non
avendo il sigillo Dop ha in ogni caso, sin dal 1996, quello di Indicazione
geografica protetta (Igp) ed è comunque un prosciutto che riscuote
un alto gradimento in tutta la Penisola ed è posizionato nell’identico
comparto degli altri crudi. Altro prosciutto con la “sola”
l’Igp è quello di Norcia, anch’esso assente, così
come assente era il Consorzio del Culatello di Zibello Dop considerato
universalmente il Re dei salumi. Infine, assente seppure invitato ed evidenziato
nel programma, il consorzio francese dello Jambon di Bayonne. Poiché
verosimilmente incontri simili verranno replicati, per aggiungere maggiori
stimoli ai partecipanti non è azzardato suggerire di allargare
l’invito anche ai rappresentanti dei prosciutti iberici che sono
notoriamente i nostri concorrenti più rilevanti sui mercati internazionali.
Osservato ciò, parliamo dei presenti sottolineando anzitutto il
dato più rilevante, ossia il valore globale di mercato dei prosciutti
crudi che è stimato (Fonte Assica) in 2,100 miliardi di euro alla
produzione e 3,7 miliardi circa al consumo, così da avere le dimensione
del contesto.
Corretto sarebbe iniziare dal Consorzio “padrone di casa”
che da poche settimane ha insediato il nuovo presidente nella persona
di Alberto Morgante (al quale ASA porge i migliori auguri di buon lavoro)
che ha ospitato nel delizioso piccolo paese friulano il convegno “Prosciutti
d’Europa in tavola”. Momento squisitamente professionale inserito
nella kermesse gastronomica “Aria di Festa” per la quale è
stato blindato per quattro giorni il centro cittadino. Inizierò
invece le presentazioni con succinte schede produttive ed economiche dei
consorzi partendo da quello con minori volumi risalendo quindi ai maggiori.
L’aostano Jambon de Bosses pare venga prodotto dalle cosce dei “tybias”
(porci) presenti nel territorio di Saint Rhemy en Bosses sin dal 1397.
Attualmente la produzione è modesta, solo 2.500 prosciutti l’anno
ma con un potenziale, che si intende raggiungere entro breve, di seimila.
Il giro d’affari ottenuto da una distribuzione prevalentemente locale
si aggira sui 180.000 euro. La Regione Veneto si è mossa strategicamente
molto bene riuscendo a far conquistare nel 1996 la Dop ad un crudo che
è prodotto in tre delle sue province, precisamente Vicenza, Verona
e Padova. Ecco allora, opportunamente marchiato con il riconoscibilissimo
leone alato della Serenissima, il prosciutto crudo Veneto-Berico-Euganeo
Dop di cui i 12 produttori consorziati ne hanno reso disponibili nel 2004
80mila pezzi per un giro d’affari di 8 milioni di euro. Anche le
Marche hanno il loro crudo Dop, quello di Carpegna prodotto, in due versioni,
nella provincia di Pesaro Urbino nella zona del Montefeltro, precisamente
“San Leo”, dolce e profumato e “Ghianda” più
sapido aromatizzato con il ginepro. Produzione annua 92/95mila pezzi per
un giro d’affari di circa 9 milioni di euro.
In Emilia Romagna a contendere la leadership al colosso Parma dal 1970
anche Modena ha avuto la certificazione europea per il suo prosciutto
che viene prodotto in circa 190.000 pezzi per un valore di 10 milioni
di euro nella fascia collinare che sovrasta il bacino del fiume Panaro.
Rispetto a quasi tutti i prosciutti nazionali che vengono affettati sottilmente
a macchina, per tradizione il prosciutto Toscano si affetta “a coltello”
ed i puristi toscani sostengono che solo con questo tipo di taglio se
ne gusta appieno il sapore. La controprova è evidente nello slogan
del consorzio che senza perifrasi recita “Il piacere del Sapore”.
Oltre alla differenza del taglio questo prosciutto rispetto a quello dei
“colleghi” nazionali è anche assai più sapido,
anzi, diciamo pure, salato. Una delle ragioni più realistiche sta
nella tradizione; poiché notoriamente questo salume si accompagna
con il pane, ebbene, notoriamente il pane toscano è sciapo, ossia
senza sale, quindi…Produzione 2004, 240.000 pezzi per un business
di circa 13 milioni di euro.
Ed eccomi a presentare il San Daniele, cosa improba poiché di questo
prosciutto è già stato detto e scritto di tutto. I volumi
sono ragguardevoli, 2.508.058 prosciutti prodotti nel 2004 dalle 28 aziende
consorziate per un giro d’affari di 300 milioni di euro, spiccata
vocazione all’export sempre più allargato verso mercati sino
all’altrieri indisponibili come Cina e Nuova Zelanda. Sull’eccellenza
della qualità non c’è discussione. Posso dire, occupandomi
dei comportamenti dei consumatori, che il prosciutto San Daniele è
generalmente vissuto come un prodotto d’élite, una sorta
di Cartier dei salumi. E non è cosa da poco.
Nell’empireo del settore il Parma ha una posizione ormai acclarata;
difficilmente la sua leadership è scalfibile grazie, va da sé,
alla bontà costante del prodotto ma anche molto all’applicazione
di un marketing rigoroso e duttile nello stesso tempo, ad una comunicazione
attenta e trasversale che copre il target più eterogeneo nonché
ad una visibilità attiva (come marchio e come prodotto) in ogni
punto di vendita sia tradizionale sia della moderna distribuzione mentre,
a mio avviso, il management del consorzio dovrà fare ancora parecchi
sforzi per rendersi visibile nella ristorazione. Le cifre 2004: 5.386
allevamenti, 139 macelli, 189 aziende produttrici dedicare, 3000 addetti,
9.383.872 prosciutti marchiati per un giro d’affari di 5 miliardi
di euro ottenuti per l’83% dal mercato domestico.
EVVIVA GLI SPOSI
DI MODA IL SI’ IN CANTINA
Questo pezzullo in realtà c’entra poco o nulla con questa
rubrica ma poiché siamo in estate ed anche i quotidiani più
blasonati in questa stagione sono zeppi di articoli di costume perché
non approfittare? Dunque, succede che alla ricerca di nuove location per
le cerimonie matrimoniali sta prendendo piede tra le giovani coppie la
“moda” della cantina. Almeno così sostiene Francesco
Lambertini, presidente del Movimento Turismo del Vino che conta circa
un migliaio di aziende vitivinicole in tutta Italia. Il fatidico sì
fra tini e barriques dove nascono i migliori vini italiani, nelle fattorie
toscane, nelle masserie pugliesi o tra i filari dei vigneti furlani sta
diventando appunto una moda apprezzata da alcune giovani coppie che si
suppone amino Bacco…e i suoi derivati. Una location d’effetto
apliificata se a due passi (e in Italia non è affatto difficile)
ci sono antichi manieri o romantiche ville; panorami insomma che si coniugano
perfettamente a quello che viene reputano “il giorno più
importante della vita”. L'idea di sposarsi in cantina invero non
è nuova, negli States, precisamente in California dove già
alla fine degli anni '90 furoreggiava senza che le pellicole hollywoodiane
celebrassero i vigneti e le cantine di quelle parti. Sarò un sordido
nazionalista, tuttavia, moda a parte, vuoi mettere l’habitat eno-agreste
delle nostre parti
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