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PERCORRENDO
LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com
]
Sommario
DISTRIBUZIONE
ALLEANZA FIPE E CASH & CARRY
PACKAGING PER ALIMENTI
DA CONTENITORE A COMUNICATORE. E MOLTO
ALTRO
ACQUE MINERALI
COCA COLA CI SI TUFFA CON UNA NUOVA
ACQUISIZIONE
BEVANDE
“TAZZULELLA” O CUP OF TEA?
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DISTRIBUZIONE
ALLEANZA FIPE E CASH & CARRY
13 giugno 2006. Recentemente mi sono cimentato nel condurre una
personalissima piccola inchiesta presso alcuni pubblici esercizi per misurare
percentualmente il peso delle materie prime in ordine ai ricavi. Confesso
di aver gettato la spugna: gestori di bar e ristoranti hanno dato numeri
a dir poco cervellotici. Chissà perché? Manco avessi chiesto
di mostrare la dichiarazione dei redditi. Sessantacinque per cento, 50,
70, 48, e via sciorinando cifre a capocchia. A far ordine un serio studio
commissionato della Federazione Italiana Pubblici Esercizi (Fipe) e dall’Associazione
Distribuzione Ingrosso a Self-Service (Adis) affidato al Cermes-Bocconi
che precisa che: il 27% dei ricavi di un bar o di un ristorante è
rappresentato dai costi per l’approvvigionamento delle materie prime,
pari in valore ad oltre 11 miliardi di euro. Tra i diversi canali d’acquisto
a cui si rivolgono i 200.000 bar e ristoranti italiani si rilevano significative
differenze di prezzo e il vantaggio economico tra la scelta di un grossista
tradizionale e il cash & carry può essere quantificato in circa
7-8 punti percentuali dei costi totali di approvvigionamento. Cioè
a dire che sull’aggregato degli acquisti si potrebbe generare un
risparmio di circa un miliardo di euro. «Crediamo che questa ricerca
sia un passo importante per consolidare e migliorare la collaborazione
tra i pubblici esercizi e il canale dei cash & carry - ha commentato
Riccardo Francioni, presidente dell’Adis». Ora c’è
a disposizione un patrimonio di informazioni affidabili attraverso il
quale le parti possano condividere una nuova strategia di approvvigionamenti.
«I cash & carry - ha proseguito Francioni – hanno, negli
ultimi anni, ampliato notevolmente l’assortimento d’offerta
completando la gamma nel settore food e beverage con prodotti confezionati
e freschi ed ora rappresentano quindi un partner che può soddisfare
ogni esigenza anche per il canale horeca». Circa la completezza
e ricchezza di informazioni fornite dallo studio, è d’accordo
anche il vice presidente delegato di Fipe-Confcommercio sui quali reputa
sia importante seriamente riflettere. Il contenimento delle spinte inflazionistiche
all’interno del pubblico esercizio passa anche per una scelta più
attenta delle fonti di approvvigionamento. Tornando al lavoro della Cermes
Bocconi è ora possibile, per la prima volta in Italia, riuscire
a delineare un quadro di informazioni articolate su un mercato, quello
dei pubblici esercizi, nel quale l’offerta continua a crescere a
fronte di una preoccupante stagnazione della domanda. La ricerca, infatti,
consente di mettere a fuoco una mole di informazioni preziose relative
alle caratteristiche strutturali ed economiche dei diversi cluster di
pubblici esercizi, al mix delle vendite e degli acquisti, alla struttura
dei costi, ai canali di approvvigionamento delle diverse tipologie di
prodotti e dei rispettivi criteri di selezione.
In un panorama caratterizzato dalla forte presenza dei grossisti tradizionali
(ma tendenzialmente sono in diminuzione), ma anche da forme di multicanalità
nelle politiche di approvvigionamento il cash & carry può vantare
una maggiore convenienza dei prezzi, anche grazie a ripetute offerte promozionali.
Ma non è questo l’unico vantaggio: va considerata inoltre
la grande flessibilità negli acquisti con la possibilità
di calibrarli in base alle necessità giornaliere, riducono l’esigenza
del magazzino, e, fattore non meno importante, hanno un’ampia estensione
degli orari di apertura.
Per queste ragioni la collaborazione tra cash & carry e pubblici esercizi
deve essere incentivata e attuata grazie ad una rete distributiva di cash
& carry capillare e in crescita, costituita da 365 impianti equamente
distribuiti al Nord, al Centro e al Sud, che possono adeguatamente interfacciarsi
con gli oltre 200mila pubblici esercizi in attività.
PACKAGING PER ALIMENTI
DA CONTENITORE A COMUNICATORE. E MOLTO ALTRO
10 giugno 2006. Alla 20a edizione di Ipack-Ima, la più importate
rassegna internazionale dell’imballaggio, si è tenuta una
tavola rotonda organizzata da un noto mensile di economia e marketing
della filiera dei beni di consumo, dove è stata affrontata un’interessante
tematica riguardo la tecnologia degli imballaggi, segnatamente per gli
alimenti, reputati un valore aggiunto per il consumatore. A ragionare
sulla composita problematica incentrata, ovviamente, anche sul ruolo che
il packaging assolve, si sono confrontati esperti del settore e operatori
che compongono appunto la filiera: produttori di beni di largo consumo
e di materiali per l’imballo, retailer, agenzie di comunicazione
e marketing, titolari d’azienda e direttori commerciali. Molti gli
spunti inerenti al pack ormai universalmente riconosciuto non più
come mero contenitore ma parte integrante del prodotto. Seguendo un filo
logico i partecipanti hanno iniziato a discutere sui mutamenti degli stili
di vita e consequenziali nuovi comportamenti d’acquisto, fornendo
risposte e illustrando case history circa l’adeguamento a queste
evoluzioni. Inoltre, approfondimenti riguardo ai nuovi materiali, il loro
impiego e relativo impatto ambientale. Non a caso il management della
grande distribuzione - dove viene venduta la maggior parte delle derrate
- è considerato tra gli interlocutori più attenti ed ascoltati
dalle imprese produttrici che, a loro volta, trasferiscono input e suggerimenti
a designer e creativi degli imballaggi. Questo argomento è stato
discusso dal responsabile tutela ambiente e qualità di Coop Italia
che ha spiegato come i retailer hanno recepito il ruolo del pack. «Riguardo
l’ecologia - è stato commentato - c’è la marcatura
del contenitore per sapere come smaltirlo correttamente. Circa la dinamica
della logistica la Coop ha apportato e fatto apportare importanti modifiche
ai contenitori per rendere più appropriate le operazioni di stoccaggio
e di presentazione dei prodotti su banchi e scaffali a libero servizio».
Sulle innovazioni di prodotto, il direttore della società Sealed
Air ha assicurato che i produttori di packaging, ed in particolare questa
azienda, è costantemente alla ricerca di materiali e prestazioni
in linea con i trend del consumo. Davvero indicativa infine la documentata
evidenziazione da parte degli esperti di marketing di come il packaging
sia da considerarsi a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione
efficace e immediato e spesso condizionante per le scelte del consumatore.
Due apprezzate testimonianze l’hanno fornita rispettivamente il
responsabile innovazione di Unilever e la titolare della società
Dal Colle (pandoro, panettoni e prodotti da forno), interlocutori che
hanno rispettivamente ricordato come la grande mole di comunicazione pubblicitaria
per i prodotti di largo consumo tende a non essere focalizzata al momento
dell’acquisto mentre un packaging brillante, pratico, e con una
buona dose di appeal è spesso più funzionale per l’atto
d’acquisto. La seconda interlocutrice si è soffermata invece
sulla creatività che una appropriata innovativa confezione ha apportato
grandi benefici. Nel caso della sua azienda il nuovo packaging scelto
per i due prodotti da ricorrenza ha guadagnato persino l’Oscar dell’Imballaggio,
inoltre ha prodotto lo svecchiamento dell’immagine aziendale grazie
al forte impatto comunicazionale dovuto ai colori e alla grafica riuscendo
a sollecitare acquisti immediati e convinti. Se questo convegno ha focalizzato
un aspetto non certo marginale delle varie filiere produttive sul ruolo
del packaging, ha anche ribadito la credibilità che le imprese
concedono al settore destinandogli budget sempre più cospicui poiché
reputato una tra le più importanti leve del marketing mix.
ACQUE MINERALI
COCA COLA CI SI TUFFA CON UNA NUOVA ACQUISIZIONE
10 giugno 2006. Non solo bollicine per il colosso di Atlanta. La nota
bibita rimane ovviamente il core business della società tant’é
che recentemente, dopo aver compiuto una serie di test in Belgio, ha lanciato
in Francia un’innovativa bottiglia chiamata “Club Cocke”
caratterizzata da una fluorescenza e riempita solo per 4/5 per consentire
ai barman dei locali notturni, in particolare le discoteche, di completarla
con il superalcolico preferito dal cliente. Tuttavia, ad affiancare la
classica Coca nelle versioni normale e light, da tempo la società
si propone sui mercati con una gamma di bevande piatte e salutistiche
(tra le quali sono incluse le acque minerali), oltre a Powerade, Nestea
e Minute Mind. A conferma di questa strategia è bene ricordare
che in Europa il gruppo The Coca Cola Company e Coca Cola Helleinc Bottling
Company ha in portafoglio circa venti marchi di acque minerali (Bonaqua,
NaturAqua, Valser, ecc) e risulta essere, dietro alla francese Danone
e alla multinazionale elvetica Nestlé, il terzo produttore nel
mondo di acque confezionate. Nei 26 mercati in cui il gruppo è
presente, il peso percentuale (anno 2004) in volume delle merceologie
è: Coca 43%, Acqua 16%, Fanta 15%, Coca light 6%, Succhi 4%, The
2%, altre bibite gassate 6%, altre non gassate 1%. La tendenza allo sviluppo
delle acque minerali è evidente e l’ultima acquisizione risalente
al febbraio scorso della Sorgente Traficante di Rionero in Volture (Pz),
che significa i marchi Lila, Lila Kiss e Sveva con un produzione di 325
milioni di litri, lo conferma.
BEVANDE
“TAZZULELLA” O CUP OF TEA?
10 giugno 2006. Entrambe è la risposta, anche se la “tazzulella”
rimane la bevanda calda più consumata dalle nostre parti. Tuttavia,
credo sia sorprendente anche per gli “addetti ai lavori” venire
a conoscenza che nel 2005 gli italiani hanno speso 93 milioni di euro
per tè in bustine-filtro, consumandone un miliardo e mezzo, con
un aumento del 4,2% rispetto al 2004. Non ci sono dati, invece, per gli
acquisti e i consumi di quello sfuso. A sensazione non dovrebbe essere
una cosa minima. Basti pensare soltanto agli ettolitri che se ne consumano
negli ospedali e nelle cliniche. La tipologia che sta godendo di un piccolo
boom è il tè verde con una crescita in volume del 20%. Ricerche
condotte dalla società Twinings spiegano come oltre il 30% dei
consumatori di tè verde si sono avvicinati a questa bevanda in
alternativa al caffè e il 26% come alternativa al tè nero.
I raffinati hanno indicato il tè verde come miglior abbinamento
con il cibo cinese o giapponese. Le stesse indagini affermano che questa
bevanda si consuma principalmente in casa, ma esiste anche un 35% di individui
che lo beve anche fuori. Per gli Italiani la cadenza media di consumo
è di circa 4 volte alla settimana. Tante per un Paese che iniziò
ad apprezzare questa bevanda solo alla fine dell' Ottocento, mentre in
l'Inghilterra l'incontro con il tè risale al 1662 quando Caterina
di Braganza, moglie di Carlo I, lo impose a corte per il piacere dell'aristocrazia.
Per lungo tempo, soprattutto per il suo prezzo elevato dovuto alle tasse,
in Europa il tè restò appannaggio delle élite. Fin
da subito in Occidente l'esotico infuso viene circondato da un aura di
seduzione e di convivialità mondana mentre in Oriente gli viene
tuttora attribuito un valore mistico e religioso. Oggi si preferisce associare
il tè alle sue virtù salutistiche. Che sono, secondo chimici
e nutrizionisti, non poche. (Notizie queste riportate dall’Ansa
su testo di Maria Gabriella Giannice). Calcio, sodio, potassio, magnesio,
ferro, rame, fosforo, fluoro, vitamina K e vitamine del gruppo B, sono
la dote che una tazza di tè porta all'organismo per non parlare
dei polifenoli, indispensabili per contrastare i radicali liberi contro
l'invecchiamento. Oltre al tannino, che nel tè verde è in
quantità maggiore rispetto a quello nero, c’è la teina
(che altro non è che caffeina). Quest'ultima, a differenza di ciò
che si pensa comunemente, nel tè è presente in misura maggiore
che nel caffé (un infuso di 5/6 grammi di tè ne contiene
quanto quella di 15/16 grammi di caffè, ossia circa due tazzine),
tuttavia, combinato con l'acido tannico questo alcaloide naturale agisce
meno intensamente. Molti pensano che tè nero e tè verde
provengano da due piante diverse, errore nel quale cadde anche Linneo,
il botanico svedese che nel 1753 descrisse, primo in Occidente, la pianta
del tè. In realtà la pianta è una sola, il cui nome
scientifico è Camellia Sinensis (o Camellia Theifera o Thea Sinensis).
La differenza fra tè nero e tè verde dipende esclusivamente
dalla diversa lavorazione delle foglie. Le migliori, devono "piegarsi
come gli stivali di cuoio dei cavalieri tartari, arricciarsi come le corna
di un bue potente, schiudersi come la nebbia che sale da un burrone, scintillare
come un lago sfiorato dallo zefiro ed essere umide e molli come terra
bagnata dalla pioggia". Scelte le migliori, la lavorazione del tè
nero viene suddivisa in quattro fasi: appassimento, arrotolamento, fermentazione
e essiccazione. Nel tè verde si evita il processo della fermentazione
e le sue foglie conservano il loro colore verde, producendo un infuso
chiaro e profumato. Quanto al latte da aggiungere o meno, gli esperti
lo concedono solo per alcune varietà di tè vietandolo in
assoluto per i tè verdi.
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