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PERCORRENDO
LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com
]
Sommario
ORTICOLI
IV GAMMA: NICCHIA ALTOVENDENTE
ITTICI
CONSUMI IN CRESCITA
CONSUMI FUORI CASA
BUSINESS DA CINQUANTONOVE MILIARDI
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ORTICOLI
IV GAMMA: NICCHIA ALTOVENDENTE
In Italia sino a pochi anni addietro ci credevano in pochi, sia chi la
produceva sia i consumatori: Troppo laboriosa per i primi, troppo cara
per i secondi. Eppure nel giro di un quinquennio scarso siamo tra i principali
consumatori in Europa di verdura pronta per l’uso. Senza sfiorare
le 120mila tonnellate di ortaggi lavati e tagliati consumati in Gran Bretagna,
che hanno generato nel 2005 un valore di 700 milioni di euro, nel nostro
Paese, secondo i dati di Agroter, ne consumiano circa 72mila tonnellate
spendendo nei punti di vendita della grande distribuzione (canale principale
delle vendite) 510 milioni di euro, con una crescita, rispetto all’anno
precedente, del 28,5%. Questa merceologia, reputata ancor oggi una nicchia,
ha quantomeno la funzione strategica di compensare il calo degli ortaggi
diminuiti negli ultimi tre anni del 10%, pur se le ultime confortanti
rilevazioni di Ismea indicano che nell’ultimo trimestre di quest’anno
ci sono segnali di crescita grazie allo stop degli aumenti. In Italia
sono attualmente una cinquantina i prodotti di IV gamma disponibili: dalle
insalate semplici o miste, ai germogli sino ad arrivare a quelli conditi
e confezionati. Leader assoluta è la francese Bonduelle che nel
frattempo ha accorpato alcuni aziende produttrici locali tra le quali
la bergamasca Ortobell che è stata l’impresa nazionale pioniera
del settore. Bonduelle produce 20mila tonnellate di ortaggi freschi per
un giro d’affari di 150 milioni di euro. Segue Linea Verde (100
milioni) e Natura.com con 40 milioni. A cavalcare questo business sono
spuntate le private label, assenti prima del 2001, tant’è
che attualmente coprono oltre il 50% del mercato. Per completezza d’informazione
riporto i dati riguardanti le altre principali nazioni europee: Francia,
77mila tonnellate per 520 milioni di euro; Germania, 7650 tons per 58,8
milioni; Spagna, 20.300 tons per 121,5 milioni.
ITTICI
CONSUMI IN CRESCITA
Anno positivo il 2005 per il consumo di pesce. In media ogni famiglia
italiana ne ha acquistato quasi 20 chili spendendo 174 euro, per un consumo
pro capite di 7,3 kg pari a 64 euro. In pratica mangiamo pesce ogni due
settimane, prevalentemente entro le mura domestiche (lo ha acquistato
infatti il 98% delle famiglie), approfittando, nel 73% dei casi, delle
offerte promozionali. E' questo quanto emerge dalla fotografia scattata
da Ismea sui consumi domestici effettuati nel 2005, anno che ha chiuso
il suo bilancio registrando 424 mila tonnellate di prodotto ittico con
un aumento dell'1,9% rispetto al 2004. La positiva tendenza ha riguardato
la domanda sia per i prodotti freschi e decongelati sfusi, pari a 224
mila tonnellate per una spesa di oltre 1,9 miliardi di euro, sia dei congelati
e surgelati confezionati (+4,7% in quantità). Il segmento "freschi",
in particolare, ha registrato un netto incremento degli acquisti di pesce
d'acqua dolce (+9,3% in volume e +8,2% in valore) e di molluschi (+5%
e +5,5%), mentre si sono mantenuti sostanzialmente ai livelli del 2004
quelli del pesce di mare. Per i crostacei, invece, il confronto con il
2004 è stato negativo (-5,1% e -3,9%). Esaminando le singole tipologie,
per il pesce d'acqua dolce trainanti i consumi di trote bianche e salmonate
e di pesce persico; in calo invece i salmoni (-4,4%). Passando al pesce
di mare, bene le alici (+5,7%), i merluzzi (+1,7%), le orate (+6,2%) e
le spigole (+1,5%). L'incremento poi delle richieste di cefali, naselli
e dentici ha compensato la riduzione nei volumi di acquisto riscontrata,
in particolare, per rane pescatrici (-33,4%), sardine (-9,7%), sogliole
(-9,2% ), pesce spada (-6,6%) e triglie (-5,4%). Infine, per quanto riguarda
i molluschi freschi, l'aumento si è registrato in particolare per
mitili (+5,3%), polpi (+7,2) e seppie (+13,1%).
CONSUMI FUORI CASA
BUSINESS DA CINQUANTONOVE MILIARDI
Sarebbe questo il giro d’affari realizzato in Italia dei consumi
food and beverage, somma superiore al deficit nazionale. Lo conferma la
Federazione Italiana Pubblici Esercizi (Fipe) che suddivide questa cospicua
cifra imputandone un tondo 70% congiuntamente a ristoranti e bar. I primi
fatturerebbero (ufficialmente) 25 miliardi, mentre i bar (sempre ufficialmente)
di miliardi ne fatturerebbero 16. Altri 12 miliardi sarebbero appannaggio
(ancora una volta ufficialmente) di canali alternativi quali gli agriturismi
e i circoli privati: sporting club, tennis e golf club, centri ippici
e…via privatando, ed altri 6 miliardi li realizzerebbe la ristorazione
collettiva. Ora, anche l’osservatore più ingenuo fatica a
credere a queste pure importanti cifre alle quali, ottimisticamente, occorrerebbe
aggiungere almeno un buon 30% per renderle più vicine a un computo
realistico. Tuttavia, giusto registrare lo sforzo statistico della Fipe.
Che dice altre cose al proposito; per esempio che oltre 11 milioni di
italiani ogni giorno della settimana non festivo pranzano fuori casa.
Di questi quattro milioni mangiano (finché durano) nelle mense
aziendali, tre milioni invece vanno al bar o al ristorante - attenzione:
anche McDonald’s, Spizzico, Ciao e fast food vari sono ristoranti
- ed altrettanti si portano il cibo da casa in quel contenitore che in
Lombardia è chiamata “schiscietta”, mangiando sul posto
di lavoro. Questi ultimi sono ultimamente in sensibile aumento, in particolare
tra l’universo femminile, causa l’impennata dei prezzi delle
consumazioni , che per inciso, la Fipe ovviamente nega per ovvie ragioni
d’ufficio, ma che sono sotto gli occhi di tutti. Va anche detto
che per coloro che mangiano in ufficio, o comunque sul posto di lavoro,
sia le aziende sia l’industria alimentare hanno messo a disposizione
strumenti e prodotti per agevolare questi lunch “coatti”.
Le prime predisponendo frigoriferi, forni a micronde e dispenser di acqua
più o meno minerale; le industrie, inventando pressoché
giornalmente tutta una serie di piatti pronti spesso corredati di posate
usa e getta, nonché vassoi di insalate fresche e di frutta, oltre
ad una vasta gamma di yogurt e snack rompidigiuno. Tornando ai prezzi
del pasto nei pubblici esercizi, Fipe ha tentato una suddivisione per
fasce di costo: su 114.000 punti di vendita presi in considerazione, 38mila
costerebbero meno di 5 euro e altri 9.500 pdv tra i 5 e 10 euro. Altri
18.000 tra i 10 e 15 euro mentre i restanti (in questo caso ristoranti
puri) oltre 40 euro. Pudicizia vuole che non si menzioni cosa c’è
nel piatto o nel panino.
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