PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]


Sommario

VINI
BACCO VINCE COL ROSSO


COMMERCIO AL DETTAGLIO (1)
VOGLIA DI SHOPPING ANCHE DI DOMENICA


COMMERCIO AL DETTAGLIO (2)
QUELL’OPTIOINAL CHIAMATO SCONTRINO

CONSUMI EXTRADOMESTICI

META' DEGLI ITALIANI PRANZANO FUORI CASA


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VINI
BACCO VINCE COL ROSSO

Identikit del vino preferito dagli italiani: rosso, morbido, leggero, non caro, meglio se della propria regione
Commissionata dal Consorzio vini della Valpolicella è stata presentata recentemente un’indagine curata dall’istituto Astra tesa a cogliere preferenze, comportamenti e modalità di consumo del vino da parte degli italiani. Relativamente al colore, i vini rossi sono i più apprezzati, esattamente dal 76% dei consumatori battendo i vini bianchi (53%). Circa la corposità, gli estimatori dei vini leggeri (57%) risultano assai più di quelli robusti (37%). Inoltre, i vini fermi sono più amati (53%) dei frizzanti (38%), così come i vini morbidi, rotondi (50%) superano seppure di poco i vini secchi (47%) e con identica percentuale sono parimenti privilegiati i vini amabili, leggermente dolci. Analizzando questi dati, a partire dalla supremazia di preferenze dei rossi, produttori, commercianti e operatori del mondo di Bacco non hanno scorto novità interessanti, rimarchevole però osservare la riconversione del 64% dei consumatori a favore dei vini tradizionali, non esattamente di moda né “celebrati” da bicchieri e stellette. «Dal 2003 è in atto un allontanamento dalle follie nel mercato del vino - spiega il sociologo Enrico Finzi - basti dire che il 65% dei bevitori preferisce prodotti senz’altro buoni ma soprattutto con un prezzo onesto». Nel contempo resta costante ed elevata la domanda di qualità, del produttore e della regione; domanda che coinvolge il 63% dei consumatori che, anche per questo motivo, privilegiano i vini Doc o Igt, non solo come garanzia di origine territoriale (quindi di un mix peculiare di vitigni, know-how produttivo, competenza specifica e passione) ma anche come certificazione di qualità. Solo un terzo dei consumatori afferma di fidarsi unicamente dei prodotti di marca, mentre sono in ripresa le preferenze per i vini della propria area geografica anche se è vero che al 56% dei bevitori piace assaggiare pure vini provenienti da altre zone. Interessante notare, infine, un particolare probabilmente ovvio ma parecchio significativo: gli amanti dei vini rossi dimostrano di avere una cultura del vino più ricca e articolata, più curiosa e aperta alle esperienze, maggiormente orientata a favore di rossi leggeri, non troppo corposi, fermi, di facile beva, dotati di una precisa personalità ma anche facilmente digeribili. Nonché di prezzo sostenibile, tradizionali e non necessariamente trendy, ben distribuiti nei vari punti di vendita e quindi facilmente accessibili. Riguardo alle occasioni di consumo, feste, ricorrenze, compleanni, anniversari, ecc, ossia momenti speciali, sono in testa a questa classifica con il 72% dei consumatori, percentuale che annovera e coinvolge anche bevitori appunto occasionali. In ogni caso il vino ai pasti rimane la costante della grande maggioranza dei consumatori con il 69% che beve vino a tavola regolarmente o frequentemente. D’altra parte, ben il 39% si orienta anche al consumo quotidiano di vino quando mangia fuori casa mentre molto più basso è l’utilizzo del vino come aperitivo (13%) e la frequentazione di enoteche e wine bar (11%), per non parlare del consumo dopo cena che coinvolge solo l’8% dei bevitori. Soffermandosi particolarmente sui vini rossi che, come evidenziato, sono i preferiti dai consumatori, l’indagine ha voluto sondare anche le preferenze riguardo alle diverse regioni di produzione: la classifica vede in testa Toscana + Umbria (43%), al secondo posto il Piemonte, quindi il Veneto e la Sicilia. Seguono Emilia-Romagna, Puglia, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Friuli-VeneziaGiulia e via via altre regioni.


COMMERCIO AL DETTAGLIO (1)
VOGLIA DI SHOPPING ANCHE DI DOMENICA
L’80% degli italiani vorrebbe i negozi aperti. Ma ci sono vincoli provenienti da più parti

Gli auspici da un lato, e le resistenze dall’altro, riguardo l’orario lungo per negozi, stores e centri commerciali, ma soprattutto la possibilità di tenere aperti i battenti anche alla domenica sono costantemente sul tavolo delle autorità competenti: centrali, regionali, comunali oltre alle organizzazioni sindacali. Lo sono da lungo tempo, sopendosi ciclicamente così come ciclicamente si destano con impeto. Il problema della liberalizzazione degli orari è uno dei punti critici della distribuzione commerciale e, salvo che negli Usa dove in pratica non esistono ostacoli, lo è praticamente in gran parte dell’Unione europea tant’è che soltanto in Gran Bretagna c’è ufficialmente il via libera alle aperture sette giorni su sette. Significa che la tematica è complessa entro la quale giocano fattori politici, sociali, sindacali e religiosi oltre che, ovviamente, economici. Influente però sono anche il vorticoso mutamento degli stili di vita della società, le necessità e gli orari legati alla famiglia, ai figli, al lavoro e al tempo libero. Ebbene, alla luce di ciò cosa ne pensano gli italiani riguardo questo argomento? Schiacciantemente affermativa è la risposta raccolta da un’indagine curata da Expan: ben l’80% dei cittadini gradirebbe fare shopping anche di domenica. Va da sé che dello stesso avviso, pur con motivazioni differenti, è la grande distribuzione organizzata e la Federdistribuzione che presenterà un articolato libro bianco ai politici e amministratori locali che hanno, di fatto, il ruolo decisivo. Il professor Jan van der Borg, docente di management urbano e di economia del turismo all’Università Ca’ Foscari, spiega come questi ultimi dovrebbero facilitare e sostenere la scelta di esercenti e artigiani circa l’apertura domenicale. Ciò vale in particolare per quelle aree ad elevata economia turistica che vedrebbero - e vedono come ad esempio in Valle d’Aosta, seguite con speciali deroghe da Trentino, Puglia, Piemonte, Lazio e Campania - amplificare con l’apertura domenicale il giro d’affari dei punti di vendita. Il gruppo Coin-Oviesse, per esempio, che conta 350 magazzini non alimentari tra diretti e in franchising, pur ammettendo che gestire questo problema non è semplicissimo, dichiara che ad eccezione del sabato, la domenica è la giornata nella quale ottiene i maggiori ricavi valutabili l’8% del fatturato annuo complessivo. Passando alle catene del food, Esselunga, specie in Lombardia ha parecchi supermercati aperti continuativamente nelle giornate festive. A Timoline, in provincia di Brescia, lungo la statale che porta al lago d’Iseo e al Tonale, ce n’è uno che ha i parcheggi stracolmi dal mattino sino a tarda sera contrastato dall’ipermercato dirimpettaio a insegna Famila. Soffocare l’imprenditorialità (compresa quella dei piccoli negozi) che vogliono investire nelle aperture domenicali non dovrebbe essere ostacolato tenendo oltretutto in considerazione che aumenterebbero i posti di lavoro di parecchie centinaia di unità. Sin qui coloro che sono favorevoli; contrari (seppur perplessi) alcuni assessorati di grandi metropoli che tuttavia, specie dopo deroghe per manifestazioni come “notti bianche” piuttosto che le varie “feste del rione” “feste di primavera” “ferragosto in piazza” e similari, toccano con mano che la voglia di shopping in orari non canonici paga. Sotto tutti i punti di vista. Contrarissima invece la Chiesa cattolica che anche in tempi recenti si è espressa in difesa della sacralità delle festività religiose osservando il depauperamento delle frequenze alla Santa Messa e ad altre funzioni.


COMMERCIO AL DETTAGLIO (2)
QUELL’OPTIOINAL CHIAMATO SCONTRINO
In Lombardia un gestore di pubblici esercizi su quattro non lo batte, né rilascia ricevute

Il 23 ottobre dell’anno di grazia 2003 è stata per gli acquirenti italiani di qualsivoglia merce una data importante. Uscendo da un negozio senza lo scontrino comprovante l’acquisto di un bene o di un servizio cessava l’incubo d’essere multati. Detto per inciso, di multe ne furono appioppate davvero pochine. Diversa la situazione per i negozianti che se scoperti, ieri come oggi, senza “battere cassa” per tre volte nell’arco di cinque anni, oltre all’ammenda rischiano la chiusura dell’esercizio per sei mesi. Anche in questo caso non ricordo che le cronache abbiano dato risalto a serrande abbassate neppure nel caso (recentissimo) di una gioielleria di Milano che ha venduto un orologio del valore di ben 13mila euro senza rilasciare né scontrino né fattura. Così come quel gruppetto di avventori che usciti dal ristorante dopo aver speso 800 euro non avevano in tasca lo straccio di un pezzetto di carta. Bar e ristoranti sono, a detta della Guardia di Finanza, la categoria di esercenti che più d’ogni altra considera lo scontrino di cassa un grazioso optional che “concedono” a loro piacimento. Sempre a Milano i militi delle Fiamme Gialle hanno effettuato nel 2005 tremila verifiche ed hanno riscontrato che un gestore su quattro non batteva lo scontrino né rilasciava ricevuta fiscale. In testa, sia in città come in tutta la provincia lombarda, tanto per cambiare, appunto bar, ristoranti, pizzerie, trattorie, seguite (ma con notevole distacco) da parrucchieri sia da uomo sia da donna e istituti di bellezza. Patetica, ancorché irritante, la difesa dell’unione del commercio che assicura di sollecitare continuamente il rispetto delle regole «Ma in alcune giornate di lavoro particolarmente affannoso può capitare di dimenticare lo scontrino per la fretta». Dichiarazione che si commenta da sola. Tuttavia la responsabilità di questo scorretto andazzo è anche, anzi soprattutto, di noi clienti. Per un malinteso pudore piuttosto che di stupido snobismo o di superficiale laisser faire: “massì, non occorre”, “ricevuta fiscale? Fa niente tanto non la posso scaricare”, lasciamo tranquillamente che il negoziante faccia come gli pare. Tanto a noi dal 23.10.03 la multa non la danno più!


CONSUMI EXTRADOMESTICI
META' DEGLI ITALIANI PRANZANO FUORI CASA
La spesa, stimata per difetto, sfiora i 12 miliardi. Grande successo per verdure e frutta di IVa gamma monoporzionate

Oltre 19 milioni di persone, praticamente il 40% degli italiani, nel 2005 a causa di impegni di studio o di lavoro ha consumato almeno una volta il pranzo fuori casa. Lo afferma l’indagine Ismea - Ac Nielsen sui consumi extradomestici, sottolineando che la spesa media è stata di 9,6 euro per un totale di 11,26 miliardi. Relativamente semplice disegnare l’identikit dell’italiano costretto a pranzare fuori casa: si tratta prevalentemente di una figura di sesso maschile, abitante nel Nord-Ovest, con ha un’età compresa tra i 25 e i 44 anni, un diploma di scuola media inferiore e un lavoro dipendente. Il luogo di consumo è soprattutto il bar dove si reca più di un italiano su quattro; altri luoghi pizzeria e ristorante mentre all’incirca sullo stesso livello si collocano self service, mensa, tavola calda e fast food. In particolare il bar è frequentato soprattutto da donne 18-34enni laureate, abitanti in grandi città del Nord-Ovest e del Centro, lavoratrici autonome e laureate, mentre il ristorante è preferito da uomini ultra 65enni abitanti in centri medio-piccoli del Sud con un basso livello di istruzione e pensionati. Appena il 37% degli italiani che pranza fuori per studio o lavoro consuma un pasto completo composto da primo, secondo, contorno e frutta, il 20% solo un primo e il 14% un secondo e contorno. Le alternative più frequenti sono la pizza, preferita dal 31% e il panino o tramezzino graditi dal 30%. Crescente la percentuale di italiani che consumano solo insalate particolarmente richieste dalle donne del Nord, lavoratrici dipendenti, e attente alla linea. Occorre sottolineare che questo tipo di insalate, catalogate di IV gamma, cioè lavate, tagliate, confezionate in mono-porzione corredate anche da relativo condimento oltre che di pratiche posate usa e getta, sono perlopiù disponibili nei punti di vendita in varietà assortite appunto nelle aree Nord e Centro. Il cambiamento nelle abitudini alimentari, con minore disponibilità di tempo da dedicare agli acquisti e alla preparazione del cibo ha determinato una profonda innovazione nell’offerta dei prodotti. Nel 2005 le famiglie italiane hanno ridotto del 7,6% i consumi di verdura in quantità con una spesa inferiore ai 2 miliardi di euro e quelli di frutta fresca dell’1,3% con una spesa di 2,9 miliardi di euro. In controtendenza, sono quasi 43 milioni i chili di frutta e verdura già lavate, tagliate e pronte per l'uso finite nel piatto degli italiani che ne hanno aumentato gli acquisti di circa il 30% per risparmiare tempo in cucina a favore del lavoro, della famiglia e dello svago, senza rinunciare comunque al consumo di prodotti freschi. Un servizio aggiunto al prodotto del quale ha fruito una famiglia italiana su tre che li ha acquistati, nonostante i prezzi superiori, assicurando al settore un fatturato di quasi 400 milioni di euro. Peraltro, sulla base delle esperienze di altri Paesi, cominciano a comparire anche piccoli vassoi di frutta già tagliata e sbucciata, a volte persino leggermente zuccherata, pronta senza doversi "sporcare le mani", da gustare come rompi-digiuno durante la giornata o come risparmia-tempo a fine pasto.