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PERCORRENDO
LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com
]
Sommario
CARNI AVICOLE
AVIARIA: (NON) CONSUMATORI CRETINI
RISTORAZIONE
E IL PESCE AZZURRO?
ORTOFRUTTA
BUONE NOTIZIE SOLO DALL’EXPORT
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CARNI AVICOLE
AVIARIA: (NON) CONSUMATORI CRETINI
Un collega dalla penna arguta scriveva giorni fa sul “Corriere
della Sera” a proposito della psicosi aviaria e dell’infausto
calo verticale dei consumi di pollame e uova, domandandosi ironicamente
se i veri polli non fossimo noi e non quelli ruspanti o nelle stie. Io
che non ho il talento letterario né la verve ironico-diplomatica
del collega sarò più franco, anche perché è
ora di smettere di trastullarci con sofisticati calembour. Non siamo polli
ma semplicemente dei cretini. Noi dell’Asa, nel nostro piccolo,
l’abbiamo scritto chiaramente sul nostro sito (che è questo)
pur usando toni soft ma informati, che consumando prodotti avicoli nazionali
non c’è alcun pericolo. La tematica era indirizzata a chi
ci legge ma soprattutto per chi scrive sui vari media cartacei o telematici.
Ossia proprio noi giornalisti specializzati dell’universo agroalimentare.
Ora, esclusi gli analfabeti e i sordi, ossia coloro che non sanno leggere
o che non possono ascoltare, sanno che le carni di polli, galline, faraone
e galletti amburghesi, oltre ovviamente alle uova, se cotti sono assolutamente
commestibili e sicuri. Tra l’altro, credo non ci sia nessuno che
azzanni una coscia di tacchino cruda né che trangugi uova col guscio
e neppure chi ami lo spezzatino di cigno reale piuttosto che una grigliata
di poiana o di anatra selvatica. Eppure. Eppure noi italiani, e solo noi,
stiamo rifiutando drasticamente di acquistare e consumare pollame mentre
in tutti gli altri 25 Paesi della Ue, anch’essi interessati dal
virus aviario, non hanno avuto cali di consumi pari al nostro giunto (mentre
scrivo) a quota 70%, (90% al Sud). Di più, i consumi, pari a 23,31
chili pro capite sono aumentati del 1,7% (dati Eurostat). Che tutti gli
europei, noi esclusi of course, siano dei superficiali o dei pazzi masochisti?
Non c’è in Italia alcun allevamento rurale o tra gli oltre
6mila industriali che siano stati solo sfiorati dal virus H5N1; abbiamo
riconoscimenti compreso l’Osservatorio mondiale della Salute e l’Efsa,
che i nostri sistemi di prevenzione e controllo sono i più affidabili
e concreti. Eppure. Eppure abbiamo causato una profonda crisi ad un comparto
fiore all’occhiello della zootecnia europea. Siamo stati costretti
a spedire di corsa e in affanno a Bruxelles due Ministri, segnatamente
quello del Mipaf, Alemanno e quello della Salute, Storace, per chiedere
lo stato d’emergenza per il settore. Con il cappello in mano a chiedere
soldi per i nostri comportamenti cretini. La psicosi è un brutto
virus che attecchisce soprattutto laddove c’è ignoranza,
ergo, siamo oltre che cretini, ignoranti. Ha dovuto scendere in campo
anche quel galantuomo del presidente della Repubblica per comunicare ufficialmente
che “L’allarmismo è assolutamente ingiustificato. Ci
stiamo facendo del male da soli”. Macché, la carne di pollo
la mangi lui, hanno in pratica sentenziato i nostri connazionali. Intanto
sui 180mila addetti del settore avicolo con una produzione di oltre un
milione e 200mila tonnellate di pollame 30.000 persone sono già
a casa grazie al nostro allarmismo cronico. Riallacciandomi su quanto
postato su questo sito (vedi alla voce “Primo Piano”), di
questo allarmismo, diciamolo francamente, una parte non proprio piccola
di colpa l’abbiamo anche noi che ci occupiamo giornalmente di comunicazione
agroalimentare. Basta sfogliare i giornali e ascoltare i Tg con un minimo
di discernimento per rendercene conto. Inutile fare le pudiche verginelle
e invocare il diritto d’informazione quando poi si pubblicano titoli
in neretto su 5 colonne del tipo: “Aviaria: il virus in Umbria”,
stemperandolo ipocritamente col sottotitolo “Ingiustificata psicosi”.
Magari è colpa dei pruriti sensazionalistici del titolista, magari
del caporedattore o del capo servizio ma sempre colpa nostra è.
Tant’è che con titoli simili in Umbria - ma vale per qualsiasi
altra Regione dove è stato magari trovato stecchito un germano
reale proveniente dall’Uzbekistan - non si consumi più neppure
un filetto di pollo pur certificato e fors’anche biologico. E che
nessuno, per piacere, tiri in ballo il vino al metanolo o la Bse. In quei
casi vi era una oggettiva superficialità sia nelle infrastrutture
sia nei controlli e pur con grave ritardo si è provveduto migliorando
di molto, specialmente nel settore enoico, l’intera filiera e quindi
la qualità. In conclusione si può oggettivamente affermare
che il settore avicunicolo nazionale è probabilmente l’unico
comparto che merita l’eccellenza per ogni step della produzione,
dall’allevamento alla mangimistica, dalla trasformazione, al packaging
e alla logistica. Se massacriamo il settore, come stiamo facendo, a psicosi
stemperata saremo costretti a comperare pollame chissà dove. Speculatori
privi di scrupoli stanno già affilando i denti e facendo spazio
nel portafoglio.
RISTORAZIONE
E IL PESCE AZZURRO?
Il pesce al ristorante è di moda, ma nei menu solo pesci &
crostacei di serie A. In tutti i luoghi di ristoro della Penisola, in
particolare quelli segnalati dalle innumerevoli guide, il pesce è
prioritariamente in lista. Se, ad esempio, a Sauze d’Oulx piuttosto
che a Bressanone non ti offrono almeno un branzino al sale o la scottata
di tonno rosso con semi di coriandolo sei capitato male. Ma anche sulle
pendici dell’Abetone il rombo chiodato al forno con patate e carciofi
è un must ed è naturale gustare specialità ittiche
nelle località marine o adiacenti alle coste. Insomma, è
un tripudio ittico che cuochi stellati, forchettati e tele-presenzialisti
propongono da par loro. Infatti, il 95% dei recensori dell’attovagliamento
pongono piatti di pesce al primo posto dell’offerta. Questo dato
emerge da uno studio di Eta Meta Research presentato recentemente al Mediterranean
Seafood Exposition di Rimini. Ma quanto si spende generalmente per un
menu tutto-pesce? Ecco il budget necessario in un buon ristorante italiano:
antipasto, oltre 15 euro; primi piatti, tra i 15 e i 20 euro; secondo,
25 euro (ottimisticamente), più realisticamente si superano largamente
anche i 30. Come dire che per una cena per due persone a base di pesce,
vino, acqua, dolce e servizio servono più di 150 euro. La ragione
del salasso? Il costo della materia prima - dicono i gestori - soprattutto
perché l’offerta è esclusivamente basata sulle specie
più pregiate. Il “mitico” pesce azzurro promosso tempo
addietro del Ministero delle Politiche Agricole (ora gli spot di fine
legislatura sono tutti per Dop e Igp), altrettanto squisito e sotto il
profilo dell’apporto nutrizionale fors’anche migliore, viene
snobbato dagli chef nazionali. Due, a mio avviso, sono le ragioni: dal
punto di vista economico, la “prudenza” a fare ricarichi vampireschi
assai più agevoli con un branzino, una cernia o un plateau di coquillage
che con sarde, sogliole e merluzzo; secondo aspetto, la manipolazione
certamente più coreografica con le specie pregiate. In ogni caso
il pesce è diventato uno dei simboli dell'alta ristorazione anche
se questo andazzo non agevola la diffusione di una corretta cultura ittica,
il che porta molte specie ad essere praticamente ignorate. Pesce, dunque
e ancora pesce, ma dove lo acquistano i ristoratori? Le risposte all’indagine
confermano la cura nella scelta degli ingredienti: la maggior parte lo
comprano al mercato (39,3%), il 28,7% in pescheria, ma quando è
possibile lo si acquista direttamente dai pescatori (27,3%). Solo il 9,3%
si affida ufficialmente ai cash & carry o a da intermediari e grossisti
(2%). I preferiti? Nella hit parade dei nostri cucinieri i primi posti,
come accennato, sono per quelli più costosi; su tutti i crostacei
(50,7%) seguiti da branzini o spigole (46%) quindi molluschi e frutti
di mare (41%). E i pesci "poveri"? Il pesce azzurro è
nei menù del 12,7% dei ristoranti, il baccalà nel 9,3%,
stessa percentuale per il merluzzo. Il tonno si trova nel 15,3%; la sgusciante
anguilla (3,3%) o per i pesci di scoglio, come scorfano (4%) o gallinella
(2,7%). Il pesce d'acqua dolce, infine, è presente solo nelle carte
dei ristoranti al Nord.
ORTOFRUTTA
BUONE NOTIZIE SOLO DALL’EXPORT
Ma sono pressoché le uniche buone notizie, unitamente al solerte
impegno degli organizzatori della prossima edizione di Macfrut che si
terra nella sede storica di Cesena dal 4 al 6 maggio prossimi proponendo,
in particolare sotto l’aspetto convegnistico, un ricco e interessante
programma. Per il resto il mondo ortofrutticolo nazionale offre l’annoso
panorama di carenze infrastrutturali, estesa frammentarietà delle
imprese e delle coltivazioni che impediscono masse critiche adeguate alle
esigenze dei mercati internazionali, mancanza di programmazione, confusioni
politico-amministrative e sovrapposizioni di enti, consorzi e decine di
autorità varie, burocratizzazione esasperata che ingessa o quantomeno
non snellisce i percorsi di filiera soffocando la necessaria fluidità
verso i mercati. Inoltre, in questo caso incolpevole l’intervento
umano, maltempo, siccità o gelate che condizionano i raccolti.
Detto, anzi ripetuto ciò, diamo un’occhiata all’andamento
della scorsa stagione rilevando che l’ortofrutta nazionale ha registrato
un calo sia della produzione lorda vendibile (Plv) del 4,2% e una diminuzione
del fatturato complessivo del 2,2% scendendo a quota 22 miliardi di euro
nonché ad una riduzione dei volumi globali del 3,8%. In discesa
la frutta fresca attestata a 5.150.000 tonnellate (-1,9%), gli ortaggi
16.250.000 tonnellate (-4,9%) e persino gli agrumi 3.190.000 tons (-1,2%).
Come accennato, bene invece le esportazioni; abbiamo spedito all’estero
3,5 milioni di tonnellate di ortofrutticoli importandone 2.757.357 tonnellate,
tant’è che il saldo, ossia il bilancio tra export e import
è positivo con un aumento del 61,4% passato dai 420,5 miliardi
del 2004 ai 678,7 del 2005. Per quanto riguarda i consumi interni in crescita
i surgelati, ne abbiamo consumati 214mila tonnellate per un controvalore
di 672 milioni di euro mentre in calo gli ortofrutticoli freschi attestati
su circa 8 milioni di tonnellate (-3,7%) con una spesa di 11.139 milioni
di euro (-6,6%). Come si evince dai dati forniti dall’Osservatorio
di Cesena, il settore è delicato e in perenne altalena, fonte sia
di reali preoccupazioni nonché di sprazzi di euforia spesso ingiustificata.
La rassegna cesenate Macfrut ha da tempo smesso d’essere una mera
vetrina espositrice diventando un osservatorio acuto e preciso del settore
nonché una sorta di laboratorio di idee, punto d’incontro
internazionale tra mondo produttivo (compreso il settore dei macchinari
e dell’impiantistica di cui l’Italia è leader in mostra
parallelamente), distributivo e consumatori. Va dato atto al suo presidente
Scarpellini, al suo staff e ai suoi collaboratori di mantenere una vivacità
operativa che si evince in particolare dagli appuntamenti della convegnistica
prevista. Incontri che toccano praticamente tutti i comparti di questo
universo. Mi piace sottolineare particolarmente quello in agenda il 5
maggio che si propone di lanciare una sorta di “Manifesto”
teso a fare il punto riguardo l’armonizzazione delle norme fitosanitarie
europee e di certificazione affinché le derrate possano circolare
sui mercati, ormai globalizzati, senza limitazioni ma con sicure parità
di regole. Altrettanto interessante e ricco di spunti risulterà
la tavola rotonda curata da Unaproa riguardante una tematica sempre attuale:
ossia la focalizzazione di tattiche e strategie per garantire agli operatore
del settore ortofrutticolo interventi concreti e immediati circa le non
infrequenti crisi di mercato.
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