PERCORRENDO LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com ]

AUGURI FERVIDISSIMI DI BUONE FESTE A TUTTI I LETTORI DI QUESTA RUBRICA

Sommario

SICUREZZA ALIMENTARE
L’EFSA E’ A PARMA . MA QUANTI SANNO COS’E’ E COME FUNZIONA?


CEREALIICOLI
RISI ITALIALIANI SUGLI SCUDI

CONSUMI
BEVIAMO PIU’ LATTE

ZOOTECNIA
400.000 CAPI SALVATI DAGLI ALLEVATORI


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SICUREZZA ALIMENTARE
L’EFSA E’ A PARMA . MA QUANTI SANNO COS’E’ E COME FUNZIONA?

Se don Abbondio si chiedeva chi fosse Carneade, credo che gran parte degli italiani (compresi parecchi addetti ai lavori) sentendo il nome Efsa, si chiederanno altrettanto. Per esteso questa sigla significa “European food safety agency” ed è stata istituita nel 2002 dalla commissione europea per contribuire alla sicurezza e alla salute dei consumatori in ambito alimentare. E pensare che per ottenere che l’Italia diventasse appunto sede di questa importante Agenzia, inaugurata ufficialmente a Parma il 21 giugno del 2005, i nostri politici si sono battuti (diciamo così), come fiere facendo scendere in campo contro la Finlandia - l’altra nazione autocandidata - persino il Presidente del Consiglio che, detto per inciso, per una sua battuta che voleva essere spiritosa ma che si dimostrò al contrario molto infelice, la stampa di tutto il mondo pose l’accento questo grottesco“incidente” trascurando di evidenziare l’importanza e la delicatezza dell’incarico internazionale acquisito dal nostro Paese. Dalle nostre parti poi, che generalmente alle Authority siamo allergici, salvo invocarle se una questione controversa non ci da in ogni caso ragione, ci fu chi velenosamente si disse amareggiato per la scelta della destinazione sostenendo che era meglio che la scelta cadesse su Helsinki “dove la gente più seria”. Ma in concreto cos’è di fatto questa Agenzia? Quali sono i suoi obiettivi? Quali le sue funzioni? Quante persone ci lavorano? Com’è ripartito lo staff tra i diversi Stati membri? Di che budget dispone? Proverò a rispondere succintamente ad alcuni di questi quesiti utilizzando mie fonti, alcune notizie apparse su varie pubblicazioni ancorché sul sito stesso (www.efsa.eu.int) dell’agenzia. Partiamo degli obiettivi riportando quanto affermato da Christine Majaewski, responsabile affari istituzionali, precisando che l’Agenzia è nata per contribuire alla salute e alla sicurezza dei consumatori in ambito agroalimentare ne ha chiarito i compiti consistenti nel fornire alla Commissione europea pareri scientifici per far decidere come regolamentare le filiere. In pari tempo è stato rilevato con forza che trattasi di un entità indipendente cui è chiesto di esprimersi appunto liberamente. Per far ciò è stata messa in campo una rete (ancora incompleta) che coordini i responsabili delle agenzie alimentari delle singole nazioni della comunità ma che sviluppi anche legami con le Authority di Giappone, Usa, Australia nonché dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Un lavoro enorme quindi, che coinvolge un esercito di oltre 500 persone prevalentemente scienziati esterni che non operano perciò nella sede dell’Efsa ma presso istituzioni locali competenti del proprio Paese che tuttavia si riuniscono a Parma periodicamente all’interno dei vari comitati scientifici. Sotto il profilo organizzativo, va precisato che questi esperti sono suddivisi in otto gruppi che si occupano di problemi riguardanti l’intera catena alimentare della tavola. Ovviamente l’Agenzia conta anche di personale fisso che opera presso la sede; attualmente sono circa 65 persone con competenze varie sia riguardanti il collegamento con i panel di scienziati esterni sia abilitate a fornire informazioni di base. Tornando alla composizione delle otto aree di ricerca, esse riguardano l’analisi degli additivi e delle sostanze usate nell’alimentazione animale; i rischi biologici contaminanti nella catena alimentare; prodotti dietetici, nutrizione e allergie; additivi aromatizzanti, coadiuvanti e altri materiali a contatto con gli alimenti; Ogm; salute e protezione delle piante e fitoresidui.
Il budget a disposizione nel 2005 è stato di 46 milioni di euro. La percentuale degli scienziati o esperti scientifici italiani che lavorano nell’Agenzia è del 9,5%, “Numero consistente - ha spiegato Herman Koëter, vice direttore operativo - in rapporto al numero dei Paesi membri che, come noto, è composto di 25 stati”. Giusto sottolineare che l’Italia vanta nell’organico del board dell’Agenzia quale consigliere il professor Giorgio Calabrese vicepresidente del Comitato scientifico dell’istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione. Quattro le aree tematiche dell’operatività dell’Agenzia: la prima fonte di ricerca sono i quesiti posti dalla Commissione europea, dal Parlamento europeo e dai vari Stati membri ai quali l’Efsa fornisce le risposte sotto forma di parere scientifico. Un esempio? Recentissimamente si è disquisito sulla questione della sicurezza tra pesce d’allevamento e pesce catturato in mare. Mediamente ogni anno sono circa 160 le domande sottoposte ai pareri dell’Agenzia. Seconda area tematica, che pesa per il 30% dei quesiti sottoposti, è la valutazione dei rischi delle sostanze come pesticidi e additivi alimentari. Terzo compito il monitoraggio continuo della Bse, ossia della ben nota “mucca pazza” e di altre patologie animali. L’ultima area riguarda la valutazione degli investimenti per favore il progresso scientifico nel comparto alimentare.
Questo in stringata sintesi la struttura e l’operato di Efsa. Tutto sommato non si è che agli inizi; il cammino dell’European food safety agency ha dinnanzi a sé un percorso non facilissimo a cui i professionisti della sicurezza unitamente alle aziende produttrici dovranno dare risposte concrete e davvero rassicuranti. La trasparenza e l’onestà richiesta ai produttori è fondamentale per far si che l’Agenzia operi con dovizia nei confronti di un universo di consumatori sempre più globalizzato. Riguardo la sede, fermo restando che Parma è, non solo nell’immaginario collettivo, una sorta di “culla” di cibi sani e squisiti, deve dimostrare d’essere altrettanto all’altezza di fornire seri supporti di efficienza, pragmatismo e funzionalità verso questa istituzione trasnazionale. Potrebbe essere retorico sostenere che gli occhi dell’Europa e del mondo intero ci guardano. Ma è la verità.



CEREALIICOLI
RISI ITALIALIANI SUGLI SCUDI


Il riso fa buon sangue. Sia come manifestazione di allegria sia come…risotto, minestra, sartu, arancino, insalata, sformato, frittelle e via elencando. Insomma, sembra proprio che gran parte degli italiani amino questo millenario cereale senza più quegli enormi divari di consumi tra Nord e Sud esistenti sino a pochi anni addietro. Al proposito mi piace ricordare una scena di un vecchio film di Visconti nella quale una anziana madre lucana raccomandava al figlio in procinto di emigrare a Milano, “Statte accuorto, lassù c’è gente cattiva: mangiano riso”. Altri tempi. Attualmente gli acquisti di riso sono in consistente aumento. Lo scorso anno sono state vendute circa 430 mila tonnellate di prodotto lavorato contro le 355.000 dell'anno precedente. Lo precisa l'Ente nazionale risi presentando al Ministero delle politiche agricole il rapporto 2005. Nel dossier emerge che i nostri risi sono peraltro apprezzati anche nel resto d'Europa dove sono state esportate 537.456 tonnellate contro le 424.343 di lavorato della campagna precedente. Di più: le consegne verso l'area dei 15 Paesi tradizionali membri dell'Unione sono aumentate del 9% mentre quelle verso i Paesi di nuova adesione (Peco) sono più che raddoppiate (+108%). Gli aumenti più rilevanti si sono registrati per i risi a grana lunga (+51,63%), quelli utilizzati per le insalate, e i medio-lunghi japonica (+17,46%) ottimi per i risotti. Secondo le prime analisi degli esperti, l'incremento delle vendite di riso in Italia sarebbe da collegare alla maggiore domanda proveniente dagli immigrati e dal catering. Detto ciò, che dimostra in concreto sia la qualità dei nostri risi sia l’elevata professionalità dei nostri risicoltori e trasformatori - la professionalità di questi ultimi è comprovata dal fatto che sono chiamati alla lavorazione di risi provenienti da altri Paesi - giusto soffermarsi sull’unico riso nazionale, il Vialone nano, che si fregia di un riconoscimento europeo (l’altro e il riz de la Camargue) ossia del sigillo di Identificazione geografica protetta (Igp). Si tratta di un riso medio di tipo japonica a granelli tozzi, la cui consistenza e la percentuale di amilosio assicurano un’ottima tenuta alla cottura ma anche un buon assorbimento dei condimenti. Coltivato soprattutto nel Veneto, segnatamente nell’area veronese, viene utilizzato prevalentemente per i risotti. Accurate le tecniche di coltivazione e lavorazione. La prima prevede, in primavera, la preparazione dei suoli perfettamente pianeggianti affinché le acque sorgive per le opportune inondazioni degli stessi avvenga uniformemente. Dopo la semina si provvede alla concimazione organica e quindi all’aratura ed erpicatura per consentire una perfetta ossigenazione dei terreni. Verso la fine di agosto le piante del Vialone nano saranno mature pronte per la raccolta. I processi di lavorazione sono oggi affidati ad apparecchiature tecnologiche avanzate pur mantenendo in sostanza la semplicità delle metodologie di una volta. Il riso grezzo, detto risone, prima dell’immagazzinamento viene asciugato con aria calda (un tempo steso sulle aie) e quindi confezionato controllando accuratamente, come esige il capitolato Igp, il grado di umidità che dev’essere inferiore a 14°.
A tutelare produzione e qualità del Violone nano veronese, sin dal 1979 su iniziativa di
Gabriele Ferron, attuale vice presidente, è stato costituito il Consorzio di tutela al quale aderiscono una trentina di aziende agricole che hanno la loro estensione terriera in un’area delimitata nel basso veronese. La coltivazione delle aziende agricole appartenenti al consorzio consta all’incirca in 1.200 ettari, con una resa media attorno ai 60.000 quintali si prodotto grezzo. La produzione italiana di riso vialone nano è invece attorno ai 320.000 quintali.



CONSUMI
BEVIAMO PIU’ LATTE

L’esortazione inserita in un indimenticabile film di Fellini di tanti anni fa, complice un canzoncina infantile ma ancor di più di un mega poster con le generose poppe in bella mostra di Anitona Ekberg non c’entrano con l’attuale crescita dei consumi di latte fresco made in Italy. Infatti, si tratta praticamente di un record che fa registrare il più alto tasso di crescita nei consumi tra tutti gli alimentari, con valori superiori di quasi tre volte la media. Ciò emerge da un'analisi dei dati sul commercio al dettaglio sulla base dei dati Ismea - Ac Nielsen, relativi agli acquisti alimentari delle famiglie nel primi dieci mesi del 2005. Rispetto all'aumento medio generale degli alimentari dell'1,6 per cento in quantità, il rialzo dei consumi di latte fresco è stato pari al 4,2%, addirittura superiore di quello delle carni di maiale (+2,9%) aumenti per effetto della psicosi influenza aviaria che fa invece diminuire del 5,4% il pollame. Un boom che si è verificato solo nel secondo semestre dell'anno nei mesi successivi all'entrata in vigore del decreto interministeriale del 7 giugno 2005 sull'obbligo di indicare sulle confezioni il luogo di provenienza o mungitura, per impedire di spacciare come italiano prodotti importati. Le nuove norme sulla etichettatura del latte fresco garantiscono ovviamente una maggiore rintracciabilità e sono state dunque giudicate positivamente dai consumatori che hanno dimostrato anche di apprezzare l’allungamento al sesto giorno la data di scadenza del latte fresco. Una positiva combinazione che, insieme ad una sostanziale stabilità nei prezzi di vendita, ha determinato una significativa inversione di tendenza dopo che il consumo di latte fresco delle famiglie italiane si era progressivamente ridotto raggiungendo nel 2004 il livello più basso con un crollo di ben il 14 % rispetto al 2000. Per gli acquisti domestici di latte fresco nel 2004 gli italiani hanno speso oltre 1,62 miliardi di euro per 1,3 milioni di tonnellate leggermente inferiore a quella del latte a lunga UHT conservazione (1,4 milioni di tonnellate).



ZOOTECNIA
400.000 CAPI SALVATI DAGLI ALLEVATORI

Grazie all'attività di conservazione delle razze animali in via di estinzione e all'impegno di salvaguardia genetica, negli allevamenti italiani è stata garantita la sopravvivenza di migliaia di specie di mucche, pecore, capre, cavalli, asini e maiali a rischio di scomparsa. Lo ricorda la Coldiretti in occasione della diffusione della mappa delle estinzioni nel mondo realizzata dal team di biologi e naturalisti “Alleanza Estinzioni Zero” che ha sottolineato quanto l'impoverimento genetico dev’essere combattuto anche con il potenziamento dell'attività di presidio delle imprese agricole, reso possibile dall'accesso alle misure per incentivare la biodiversità previste dalla normativa comunitaria in tema di sviluppo rurale. E' quindi grazie al lavoro delle aziende zootecniche italiane - afferma Coldiretti - che è stata garantita la sopravvivenza e la riproduzione a quasi 80.000 vacche da latte, a più di 80.000 bovini da carne, oltre a 200.000 pecore e a quasi 3.000 scrofe. Se per alcune razze come la mucca pisana (250) e la pecora di Altamura (300) si contano poche centinaia di animali, per altre come il maiale Cinta senese dal caratteristico mantello nero con banda bianca (1.000) e la vacca Reggiana (1.800) dalla quale si ottiene il migliore Parmigiano Reggiano, si supera di poco il migliaio di unità. Da segnalare positivamente la crescita, complice anche dall'effetto Bse, di alcune razze bovine italiane da carne, come la Chianina, la Marchigiana e la Romagnola che possono ora contare su decine di migliaia di capi allevati dopo un ventennio di grande crisi che ne aveva fatto temere la scomparsa. Più in dettaglio ecco i capi salvati dagli allevamenti italiani: 200.000 capi femmina di pecore; Langhe, Massese, Istriana, Sopravissana, Laticauda, Gentile, Moscia, Altamurana, Belice, Pinzirita, Barbaresca; 3.000 scrofe (Bergamasca nera, Mora romagnola, Parmigiana, Modenese, Cinta senese, Macchiaiola, Maremmana, Napoletana, Caseratana, Pugliese, Calabrese, Nero siciliano, Sarda primitiva; 80.000 capi di bovini da carne (Chianina, Calvana, Garfagnina, Pontremolese, Mucca pisana, Maremmana, Marchigiana, Romagnola, Podolica, Sarda, Sardo-modicana; 80.000 vacche da latte (Valdostana, Oropa, Grigia, Pinzgauer, Rendena, Burlina, Cabannina, Reggiana, Bianca, Varzese, Modicana, Cinisara).