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PERCORRENDO
LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com
]
Sommario
PREVISIONI
DIECI ANNI DIFFICILI PER L’AGROALIMENTARE
ELICICOLTURA
LE LUMACHE VANNO DI CORSA
RISTORAZIONE
VERGOGNAMOCI UN PO’ . ANZI MOLTO
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PREVISIONI
DIECI ANNI DIFFICILI PER L’AGROALIMENTARE
Come sarà l’agroalimentare italiano nel 2015? Il quesito,
non certo banale, se lo è posto Federalimentare basandosi su una
ricerca congiunta Ismea e Centro studi di Confindustria che anticipa le
tendenze di medio-lungo termine.
Nei prossimi dieci anni il settore agroalimentare dovrà affrontare
nuove sfide che imporranno di ripensare e ridefinire il concetto stesso
di made in Italy alimentare: un vantaggio che, da solo, non sarà
più sufficiente per aprire le porte del nuovo mercato globale.
“Occorre fare sistema di impresa e puntare sulle politiche di filiera
per promuovere il cibo italiano nel mondo”, ha sottolineato Luigi
Rossi di Montelera, presidente di Federalimentare. Questa è stata
la parola d’ordine scaturita in un confronto fra gli attori della
filiera, individuando le priorità del comparto e le richieste al
mondo politico. Per i prossimi dieci anni si prevede una situazione di
crescita molto lenta per un settore che faticherà non poco ad incrementare
la propria quota export e vedrà lievitare il ricorso all’utilizzo
della materia prima estera. La redditività delle imprese industriali
scenderà del 30%, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa di
quelle medio-piccole che assicurano oltre metà del fatturato globale
del comparto. I trasferimenti delle destinazioni di spesa sono già
in atto ma nel prossimo futuro si spenderà più per viaggi,
vacanze e tempo libero, per acquisti di oggetti informatici e di comunicazione
che per i consumi alimentari domestici e ci saranno sempre meno punti
vendita di tipo tradizionale e sempre più iper e supermercati.
E’ ineluttabile, ma le “difese” come quella annunciata
dal presidente dei panificatori milanesi Marinoni di aumentare il prezzo
della “michetta” per frenare la chiusura delle panetterie
perché il consumatore si rivolge alla distribuzione moderna, sono
deliranti oltre che controproducenti. Così facendo incentiveranno
i già modesti acquisti di pane proprio laddove è stato individuata
la concorrenza.
Tornando al settore agroalimentare gli attori che lo compongono è
bene rammentino che si troveranno di fronte ad una grande scommessa, fatta
di incognite, ma anche di opportunità, possibili, ma tutte ancora
da inventare.
L’agricoltura dovrà confrontarsi con le modifiche strutturali
della nuova politica comunitaria (Pac), mentre l’industria alimentare,
già dallo scorso anno, ha segnato per la prima volta, dopo vent’anni,
un calo produttivo del 2% per la costante contrazione dei consumi.
“L’attuale stagnazione del settore ed i preoccupanti scenari
delineati dallo studio - dichiara Rossi di Montelera - impongono una forte
e lucida reazione da parte di tutta la filiera agroalimentare. Non è
tempo di litigi, si deve invece avviare un confronto costruttivo tra tutte
le componenti per costruire insieme l’agroalimentare del domani”.
Ciò significa innanzi tutto una decisa azione nei confronti del
mondo politico istituzionale, affinché venga delineata una politica
industriale che non si limiti a favorire un segmento piuttosto di un altro
ricordando la centralità dell’industria alimentare che assorbe
oltre il 70% dei prodotti agricoli nazionali.
ELICICOLTURA
LE LUMACHE VANNO DI CORSA
L'elicicoltura, presente in Italia dalla fine degli anni Settanta è
un settore in costante crescita. Lo scorso anno gli allevamenti si estendevano
su un area di 7.500 ettari e occupavano 9.000 operatori. La produzione
di lumache ammonta a 114.700 quintali soddisfacendo il 31% dei consumi
che lo scorso anno sono stati di circa 370.000 quintali, integrati da
importazioni per 255.300 quintali.
Dal 2000 al 2004 la produzione nazionale è passata da 88.540 a
114.700 quintali, il consumo da 233.000 a 370.000 quintali, le importazioni
da 144.460 a 255.300 quintali. La vendita di chiocciole fresche nelle
pescherie è aumentata del 12%. Una spinta al consumo si deve anche
all'inserimento del prodotto nei banchi pesce assistiti e in quelli refrigerati
della grande distribuzione Le specie più note sono: la Helix Aspersa,
detta anche Zigrinata o Maruzza, in Francia chiamata Petit-gris oppure
Chagriné, in Spagna Caracolas, che è la chocciola più
diffusa nella fascia mediterranea. Questa specie rappresenta oggi il 70%
del patrimonio elicicolo dell’allevamento nazionale. Segue la Helix
Pomata, detta anche Vignaiola bianca, conosciuta in Francia come Gros-blanc
oppure Escargot de Bourgogne perché tipica di quella regione. In
natura si trova esclusivamente nelle zone non soggette all’influenza
del mare e dei suoi venti. L’Helix Pomatia, un tempo molto utilizzata
negli allevamenti, rappresenta la specie meno consistente dell’elicicoltura
a causa soprattutto dei più lunghi tempi necessari alla crescita.le
sue carni che comunque sono le migliori e le più raffinate. Infine,
la Helix vermiculata, chiamata volgarmente "rigatella", molto
conosciuta e apprezzata nell'Italia centro meridionale. E' chiocciola
tipica della costa mediterranea e delle isole ed è presente su
tutti i mercati italiani durante l' intero anno, ma tutto il prodotto
è esclusivamente di raccolta naturale, in parte proveniente dalla
Grecia o dal Marocco. Alla luce di questi dati già ora confortanti
ma che lasciano prevedere buone possibilità di ulteriore sviluppo,
vi è comunque una problematica da risolvere che angustia gli operatori
del settore. Si tratta della confusione in ambito commerciale. Chi deve
vendere questi molluschi che, come si evince dai volumi di produzione
ed importazione (per tacere dalle raccolte spontanee che sfuggono ad ogni
statistica), sono molto graditi? La maggior parte è attualmente
commercializzata dalle pescherie ma in molte zone d’Italia la vendita
è effettuata dai negozi e dalle bancarelle di ortofrutta. “Non
sono né carne né pesce” si dice, ma qualcuno prima
o poi dovrà fare chiarezza. Se non altro per un fatto d’igiene.
RISTORAZIONE
VERGOGNAMOCI UN PO’ . ANZI MOLTO
E’ odioso iniziare con una premessa, ma lo devo fare: non ho niente
contro McDonald’s, la sua cucina è discutibile ma da una
impresa che sa usare le leve del marketing e della comunicazione a 360°
come questa insegna, c’è da imparare. E molto.
Fatta la premessa vengo al dunque riallacciandomi proprio al marketing
e alla comunicazione perché è di questi giorno l’ufficializzazione
che l’azienda delle patatine fritte (senza sminuire l’acume
strategico del suo lavoro) ha vinto la gara d'appalto per il servizio
di ristorazione alle prossime Olimpiadi Invernali di Torino. In altri
termini, McDonald’s è il ristorante ufficiale dei Giochi.
E allora, che c’è di strano?
Beh di strano, anzi di vergognoso, c’è che Torino è
in Piemonte, che il Piemonte è ancora in Italia, che a Bra, che
è in Piemonte, c’è la sede, o più precisamente
il sancta santorum del mangiare bene e lento dove officia un personaggio
che in giro per il mondo vanta (giustamente) i prodotti enogastronomici
e la cucina italiana ma che in questo caso, considerato evidentemente
non ha avuto alcun ruolo nell’organizzazione, dell’attivismo
di Carlin Petrini non c’è ombra. E sempre in Piemonte, ci
sono, tra l’altro, punte di diamante dell’enologia nazionale
che tanto avrebbe bisogno di visibilità.
Quello che non c’è invece alle Olimpiadi della neve, strombazzate
e costosissime per le tasche di noi tutti, è la presenza di prodotti
e marchi di cibi e bevande di casa nostra. La Regione Piemonte che spende
barcate di soldi per foraggiare Saloni del Vino, del Gusto et similia
non ha pensato di investire qualche milione di euro per promuovere non
dico la bottarga sarda o la nocellara del Belice ma qualcosina di mangereccio
e di bevereccio piemontese credo ci sia. Per fortuna uno sparuto marchio
piemontese, quantomeno per i vini c’è, ed è Fontanafredda
che risulta tra i fornitori ufficiali. Complimenti vivissimi e prosit.
Colpevolmente assenti le istituzioni, Mipaf in testa, i Consorzi di tutela
dei nostri salumi, formaggi, carni (oh le magnifiche carni piemontesi)
gli oli, gli aceti balsamici e le decine e decine di Dop e Igp conquistate
dall’Italia. Può essere che al suo presidente, Riccardo Ricci
Curbastro, sia sfuggito l’imminente banale evento sportivo che l’Italia
ospiterà con la verosimile presenza di migliaia e migliaia di persone
provenienti dai quattro angoli del mondo occupato com’è ha
organizzare - con il robusto contributo statale - una tre giorni per declamare
trionfalmente che le protezioni europee per le nostre specialità
hanno raggiunto quota 150. Evviva. Peccato che di queste gli ospiti dei
Giochi non ne gusteranno neppure un boccone poiché ciò che
“passerà il convento” sarà il mitico Big Mac
innaffiato da un salutistico milk shake alla banana o, in alternativa,
una disincrostante Coca Cola con ghiaccio. Assenti infine anche le svariate
congregazioni dei cosiddetti buongustai che amano farsi immortalare un
po’ farsescamente con manti, toghe e bordoni (da noi ce né
una per ogni prodotto commestibile: dallo stoccafisso alla bagna câuda
dal torrone morbido ai bruscitti) così come non si ha notizia delle
varie associazioni dei Cuochi che mandati in tournée nei quattro
angoli del mondo a promuovere la cucina italiana oppure fanno le star
in televisione ma latitano laddove ci sono ospiti internazionali in casa.
Possibile non ci sia proprio nessuno che voglia far mangiare e bere italiano
gli atleti, gli accompagnatori, la stampa estera e le migliaia e migliaia
di appassionati che assieperanno piste di sci e palazzetti del ghiaccio?
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