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PERCORRENDO
LA FILIERA
A cura di GIUSEPPE CREMONESI [ cremonesi.web@asa-press.com
]
Sommario
POLEMICHE CASEARIE
SUL BITTO E’ BAGARRE: 13 PRODUTTORI (SU 110) LASCIANO
IL CONSORZIO
TRASFORMAZIONI INDUSTRIALI
E’ LEGGE. LA VERA PASSATA E’ DI POMODORO FRESCO
PATRIMONIO DELL’UMANITA’
APPELLO ALL’UNESCO PER I VIGNETI VALTELLINESI
INCHIESTE
L’ITALIAN FOOD E’ IL PREFERITO
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POLEMICHE
CASEARIE
SUL BITTO E’ BAGARRE: 13 PRODUTTORI (SU 110) LASCIANO IL CONSORZIO
La polemica in atto, riportata dal “Corriere
della Sera” del 14 ottobre 2005 e dal sito web “Cheese time”che
hanno dato ampio risalto alla notizia riguardante un gruppetto di associati
al Consorzio di tutela del formaggio Bitto Dop che in dura polemica con
lo stesso lo hanno abbandonato, non ha scalfito l’entusiasmo e l’interesse
dimostrato dagli oltre 50mila visitatori della 98esima edizione della
Mostra del Bitto di Morbegno (So).
Va però detto che facendo lo stesso mestiere dei colleghi che hanno
dato la notizia, trovo non si sia rispettata la prima legge che governa
la professione giornalistica. Cioè: in caso di opinioni contrastanti
è corretto riferire il punto di vista di entrambe le parti. In
questa occasione però sono state raccolte soltanto le rimostranze
del leader dei dissidenti, Paolo Ciapparelli, presidente dell’Associazione
produttori Valli del Bitto. Associazione che sino a ierlaltro si riconosceva
nel Consorzio, senza ascoltare appunto il punto di vista del Consorzio
stesso.
Puntualizzato ciò, vediamo di ricapitolare la ragione del contendere
premettendo che se è più che giusto chiarire storture ed
equivoci, è tuttavia consigliabile che queste dispute, che rischiano
di depauperare un patrimonio culturale ed economico, prima d’essere
date in pasto alla stampa dovrebbero essere risolte nell’alveo del
Consiglio e dell’Assemblea consortile, pena l’imbrattamento
dell’immagine e la caduta di prestigio di un prodotto alimentare
italiano protetto dalla denominazione europea. A tale proposito, proprio
in una della notizie precedenti di questa rubrica riportavo la preoccupante
sfiducia che i consumatori nutrono verso il cibo. Ebbene, queste pubbliche
polemiche non aiutano certamente ad attutire diffidenze e preoccupazioni.
Prima di esporre la questione conviene ricordare anzitutto cos’è
il formaggio Bitto Dop. Il nome risalirebbe dal termine celtico “bitu”,
che significa perenne. Il disciplinare di produzione, che si rifà
alla millenaria tradizione Valtellinese, può essere prodotto solamente
nei pascoli d’alta quota esclusivamente nella stagione estiva poiché
le sue caratteristiche organolettiche dipendono dalla qualità delle
erbe dei diversi alpeggi cui si nutrono le mucche. Il Bitto viene prodotto
esclusivamente con latte vaccino intero al quale si può aggiungere
latte caprino in misura non superiore al 10%. La coagulazione è
ottenuta con l’uso di caglio di vitello e la cottura avviene ad
una temperatura fra i 48 e i 52°. La stagionatura deve protrarsi per
almeno 70 giorni. La forma, dal diametro varia da circa 30 a 50 centimetri,
è cilindrica a superficie piana con scalzo concavo a spigoli vivi.
Il peso delle varie forme varia da 8 a 25 chili. La pasta è caratterizzata
da struttura compatta con occhiatura rada. Il colore usualmente bianco
vira al paglierino secondo la durata della stagionatura. Il sapore è
dolce diventando più intenso con la maturazione. Annualmente ne
vengono prodotte e opportunamente marchiate con il sigillo consortile
e Dop in media 27mila forme realizzate da 110 produttori-allevatori mentre
i soci del Consorzio ammontano a 700 comprendendo i produttori di latte
per l’altro eccellente formaggio del Consorzio: Valtellina Casera
Dop.
Sin qui il quadro generale, ma in questo contesto i dissidenti (in un
primo tempo 24, attualmente solo 13) dell’Associazione “Valli
del Bitto” capitanati da Paolo Chiapparelli - che curiosamente nulla
ha a che fare col formaggio essendo un imprenditore di piastrelle e laterizi
- (maliziosamente sostengo che questi ultimi non danno la visibilità
che offre una specialità casearia ben nota) rivendicano la paternità
di questo formaggio considerandosi i produttori storici e pretendono di
continuare ad imprimere “in esclusiva” sulle loro forme il
marchio Valli del Bitto per differenziarlo da quello prodotto nel resto
della provincia da altri 97 produttori. “Non possiamo confonderci
con gli altri produttori - tuona Chiapparelli - perché soltanto
il nostro formaggio viene ancora prodotto come 500 anni fa”.
Più pacata la risposta di Davide Pozzi, direttore del Consorzio
di tutela che spiega come la cosa non è possibile giacché
il rispetto delle regole è la prerogativa di qualsiasi organismo
di tutela. Pertanto le istanze che i dissidenti hanno rivolto motu proprio
al Ministero delle Politiche agricole e a Bruxelles sono state rigettate.
Per la precisione non al mittente, che non ha figura né giuridica
né statutaria, ma appunto al Consorzio che è custode e tutelatore
del marchi Bitto e Dop affinché informi gli ormai ex associati.
Opportuno precisare che i produttori dei 13 alpeggi dissidenti forniscono
circa 800 forme all’anno, ossia il 3% dei volumi totali del Bitto;
ciò malgrado l’organismo di tutela, mostrando la volontà
di ricompattare tutti i produttori nel buon nome di un prodotto speciale
qual è questo formaggio, in una nota comunica che si farà
promotore di una richiesta ufficiale al Mipaf affinché riconosca
una menzione speciale al formaggio prodotto nelle valli di Albaredo e
Gerola.
Considerazione finale. Per qualche euro in più da recuperare sul
mercato e forse per qualche prurito di protagonismo per conquistare un
piccolo potere valligiano si sta rischiando di danneggiare un marchio
e un prodotto italiano apprezzato anche fuori confine. Vale la pena?
TRASFORMAZIONI INDUSTRIALI
E’ LEGGE. LA VERA PASSATA E’ DI POMODORO FRESCO
Ci sono voluti quattro Ministeri, quello delle Attività produttive,
delle Politiche agricole, della Salute e delle Politiche comunitarie per
fissare definitivamente la denominazione di vendita della passata di pomodoro.
Il decreto prevede che la denominazione passata di pomodoro sia riservata
al prodotto ottenuto direttamente da “pomodoro fresco, sano e maturo,
avente il colore, l'aroma e il gusto caratteristici del frutto da cui
proviene attraverso il procedimento di spremitura”.
Sono state disciplinate inoltre le caratteristiche tecniche di confezionamento
del prodotto ed altri requisiti; particolare rilievo hanno le disposizioni
riguardanti la concentrazione del succo che non può superare i
12 gradi Brix e la presenza di semi che non deve superare il 4% del peso
del prodotto finito.
Controlli saranno effettuati dall'ispettorato centrale per la repressione
delle frodi in tutte le fasi della produzione e della commercializzazione
della passata attraverso ispezioni e prelievi a campione del prodotto
da sottoporre ad analisi. L’ importanza di questo decreto contribuisce
a difenderci delle importazioni clandestine di concentrato di pomodoro,
spesso proveniente dalla Cina, che illegittimamente diluito viene venduto
come passata. La Cina infatti, rappresenta il terzo bacino di produzione
nel mondo, dopo Usa ed Ue con il 90% della produzione indirizzata principalmente
sui mercati esteri e con il 50% del concentrato, sostiene documentatamente
la Coldiretti, esportati in Italia per oltre 150.000 tonnellate e un valore
di 62 milioni di euro. L'Italia può vantarsi d’essere il
secondo produttore mondiale dopo gli Usa con un raccolto di pomodoro per
l'industria di 5 milioni di tonnellate, in contrazione rispetto allo scorso
anno.
”La prossima tappa per completare il quadro normativo relativo alla
passata di pomodoro - ha spiegato il Ministro Alemanno - è l'obbligatorietà
in etichetta dell'origine della materia prima utilizzata, su cui siamo
ancora in attesa dell'autorzione della Commissione europea, così
come avvenuto per il latte fresco”.
PATRIMONIO DELL’UMANITA’
APPELLO ALL’UNESCO PER I VIGNETI VALTELLINESI
Se è sacrosanto preservare chiese, castelli, piazze, città,
monumenti e oasi naturalistiche non è affatto sconveniente che
l’Unesco, ossia la maggior autorità mondiale preposta alla
salvaguardia di questi capolavori della natura e dell’uomo, si adoperi
in difesa di un patrimonio che si sta sgretolando giorno per giorno dopo
aver impiegato decine di migliaia d’anni a formarsi. E’ quanto
hanno chiesto al Ministero dei Beni culturali la provincia di Sondrio
in collaborazione con la Fondazione ProVinea e al Consorzio dei vini Valtellina
affinché chieda l’inserimento all’Unesco dei 2.500
chilometri di muri in pietra che fiancheggiano e sorreggono i vigneti
terrazzati della Valtellina dai quali si ottengono straordinari vini quali
lo Sforzato, il Grumello, l’Inferno e il Sassella. Per inciso va
ricordato che la zona vinicola terrazzata valtellinese è la più
estesa d’Europa e conta attualmente una superficie vitata di 1.250
ettari (che solo un secolo fa erano oltre 3.000) producendo un business
di 30 milioni di euro e dando lavoro a 3.000 vitivinicoltori. Risultati
relativamente positivi se si considerano le difficoltà oggettive
di coltivare e accudire vigneti in un contesto strutturale non certo facile,
irto com’è di avvallamenti e dirupi. Per fare un paragone,
si pensi che coltivare un ettaro di vigneto in Franciacorta (siamo sempre
in Lombardia) richiede tra le 50-70 ore di lavoro all’anno mentre
in Valtellina ne occorrono almeno il doppio pur utilizzando le più
moderne attrezzature. Ciò malgrado i risultati ci sono e la testimonianza
più, come dire, “gustabile”, è data dai corposi
profumati vini conosciuti e apprezzati in tutto il mondo cui accennavo.
Ma altrettanto importante testimonianza è data appunto da questi
terrazzamenti che costituiscono un capolavoro della cultura rurale alpina,
praticamente un autentico museo a cielo aperto.
INCHIESTE
L’ITALIAN FOOD E’ IL PREFERITO
Per gli italiani la sicurezza alimentare è una delle preoccupazioni
più sentite. La percezione e le opinioni degli italiani su questo
argomento sono state analizzate per conto della Coldiretti dall’Ispo
di Renato Mannheimer che in occasione del suo recente Forum Internazionale
di Cernobbio ha presentato i risultati di una indagine continuativa tesa
a monitorare appunto percezioni e comportamenti dei consumatori nei confronti
dell’alimentazione. Vediamo subito alcune abitudini di consumo di
3.980 connazionali, rappresentativi dell’intera popolazione adulta.
Rispetto ai prodotti Dop, Doc e Docg il 75% dichiara di consumarli più
o meno regolarmente e il 68% fa lo stesso con i prodotti biologici. Solo
il 23% dice si ai prodotti Ogm e il 38% a quelli “arricchiti”
(esempio: latte all’omega3, aggiunta di ferro, carotene, ecc). Ma
cosa dicono gli italiani circa la percezione della sicurezza alimentare?
L’86%, ossia 9 su 10 dice d’essere d’accordo sul fatto
che dovrebbe essere sempre indicato in etichetta il luogo d’allevamento
o di coltivazione degli alimenti ed il 76%, (tre su quattro) vivendolo
come una garanzia, precisa che “se un prodotto alimentare è
italiano sono più sicuro da dove proviene e quindi mi fido di più”.
A tale proposito significativo notare che potendo scegliere il 46% comprerebbe
un prodotto italiano “anche se costasse di più”.
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