SALUTE E BENESSERE

Frutti di bosco: è allerta epatite A anche in Australia

In Italia l’epidemia non è finita (1.787 casi ). Il Ministero invita a bollire per 2 minuti prima del consumo

Anche in Australia c’è un’allerta per la vendita al dettaglio di frutti di bosco surgelati contaminati dal virus dell’epatite A. Cinque le persone infettate finora e due i lotti incriminati: una miscela chiamata Mixed Berries dell’azienda Nanna’s Frozen, e una chiamata Creative Gourmet, entrambi assemblati dalla ditta Patties Foods. Le autorità sanitarie hanno invitato a non acquistare questi frutti di bosco e a controllare se sono presenti in casa. Siamo di fronte  ad un’allerta di proporzioni ridotte,  ma molto simile all’epidemia iniziata due anni fa in Italia e ancora in corso. Anche in questo caso il problema riguarda le materie  prime, si tratta infatti di frutti contaminati raccolti in Cile e in Cina, confezionati in Cina e poi spediti in Australia. Siamo di fronte ad un esempio perfetto di globalizzazione che, oltre ad avere una grande impronta ambientale, può provocare pericoli per la salute non facili da gestire.

In Italia la situazione non è tranquilla. Dopo  i 1.787 casi di epatite A registrati in due anni  in seguito all’ingestione di frutti di bosco contaminati, il Ministero della salute non avendo individuato l’origine dei lotti che hanno causato l’epidemia. In una nota che abbiamo ricevuto pochi giorni fa il Ministero dice che “ritiene necessario mantenere una particolare attenzione sulla sorveglianza dell’Epatite virale A” e ribadisce la validità dell’indicazione diffusa un anno fa quando invitata i consumatori a non mangiare frutti di bosco surgelati crudi, ma di farli bollire almeno due minuti (vedi foto a lato).
La raccomandazione vale per i frutti di bosco surgelati comprati al supermercato, ma anche e soprattutto per i laboratori di pasticceria artigianali, le gelaterie e tutti gli operatori che lavorano questo tipo di frutta. Purtroppo sia i cittadini sia gli operatori del settore non sono mai stati informati in modo adeguato e non lo sono ancora, per questo da noi si contano quasi 2000 casi di epatite A e la conta non è finita.
 
Negli stessi giorni in cui in Australia è uscita la notizia dei frutti di bosco, sui media anglosassoni,  la rivista BioScience ha pubblicato uno studio che fornisce i numeri sul commercio globale di cibo, calcolati con un metodo nuovo, che considera oltre ai parametri tradizionali, la valutazione del valore nutrizionale degli alimenti correlata al consumo di risorse. Si tratta di cifre da cui emerge in modo evidente come  non esiste frontiera o dogana in grado di  arrestare il fenomeno. Secondo lo studio tra il 2000 e il 2009, il valore commerciale dell’esportazione di cibo è stato, in media, di 522 miliardi di dollari all’anno. Più di un quinto delle calorie ottenute nelle fattorie, che consumano il 20% dei terreni, diventano merci da esportazione. Più del 70% del commercio mondiale è concentrato in 20 paesi esportatori e 33 importatori.
 
Un quarto circa delle derrate alimentari commercializzate è di origine animale, che  forniscono solo il 5% delle calorie globali. La stima è che le esportazioni di carni consumano fino all’8% delle terre dedicate all’agricoltura. La maggior parte del denaro che ruota attorno al business alimentare è concentrato in Europa, anche se buona parte delle derrate viene coltivata altrove. L’Europa esporta alimenti per ottenere i quali si consumano 9 milioni di ettari coltivabili. Nello studio il giudizio su ogni singolo paese varia a seconda del parametro. Per esempio, la Cina esporta mele e altri frutti ad alto valore commerciale, ma importa alimenti di scarso valore come la soia,  il Kenya esporta tè e caffè e importa farine e cereali.
 
Alcune materie prima come la soia esportata da Stati Uniti, Brasile, Argentina e Cina determina  la presenza di aree ad elevatissimo sfruttamento dei suoli e con un’elevata richiesta di acqua. Stabilire regole che assicurino la sicurezza degli alimenti, in questo scenario, e con i molteplici interessi in gioco, non è semplice. L’unica soluzione efficace, come dimostra anche la vicenda dei frutti di bosco sino-austro-cileni, è obbligare tutti i componenti della filiera alla tracciabilità, e a rispettare le norme di igiene.
Agnese Codignola - www.ilfattoalimentare.it

 


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