|
QUALITA'
La nuova etichetta europea. È entrato in vigore nel dicembre 2014,
dopo tre anni, il regolamento Ue
Come sono cambiate le informazioni sui prodotti alimentari,
con il rischio di favorire i marchi privati della grande distribuzione
organizzata. Dopo le pressioni dal basso, però, Carrefour ed Esselunga
hanno deciso di lasciare sulle etichette l’indicazione dello stabilimento
di produzione, come già aveva scelto di fare Conad (interpellata
da Ae)
La parola d’ordine delle nuove etichette
per i generi alimentari è la traspaenza. Quelle redatte in base
al regolamento comunitario 1169 del 2011, in vigore dal 13 dicembre 2014,
sono infatti più grandi nel formato e più ricche d’informazioni,
andando ad evidenziare -tra l’altro- la presenza di possibili allergeni
(vedi box). Risalta, perciò, un’assenza: quando l’azienda
che distribuisce un prodotto è diversa da quella che l’ha
confezionato, non sarà obbligata a menzionare il nome di quest’ultima.
Questa modifica pare tagliata su misura per un settore importante
del mercato, che non risponde al nome di un’azienda, ma a una categoria
di prodotto, quello conosciuto come private label. Si tratta dei marchi
commerciali della grande distribuzione organizzata, che affidano la produzione
a terzi, e secondo i dati di Federalimentare vale in Italia il 18 per
cento del mercato. Secondo l’avvocato Dario Dongo, esperto di diritto
alimentare e fondatore di “Gift”, www.greatitalianfoodtrade.com,
“le nuove regole europee potrebbero favorire la grande distribuzione
europea che opera nel nostro Paese e i grandi marchi italiani posseduti
da multinazionali estere, che possono decidere di delocalizzare la produzione
al di fuori dei confini italiani, con danno per le nostre imprese.
Secondo gli studi di Rabobank, un’istituzione finanziaria olandese
specializzata nel settore agro-industriale (in una ricerca datata aprile
2011 e intitolata “Private label vs. Brands”, ndr) -osserva
il giurista- in Europa si prevede un aumento dei ‘private
label’ dall’attuale 25% al 50% del mercato entro il
2025. Con la conseguenza che il ‘consumatore di domani’ rischierà
di non trovare più sugli scaffali una molteplicità di marchi
minori”.
I principali operatori “europei” presenti anche in Italia
sono Auchan, Carrefour e Lidl.
Dongo segnala anche la possibilità che “a beneficiare delle
nuove leggi possano essere i cosiddetti prodotti ‘Italian sounding’,
cioè quegli alimenti che hanno solo una ‘parvenza italiana’”.
E, infine, introduce anche un elemento relativo alla sicurezza: “La
sede dello stabilimento identifica le matrici culturali di un cibo, e
caratterizza il valore del lavoro di quel territorio. Ma conoscere l’impresa
produttrice offre anche una garanzia dal punto di vista alimentare, in
quanto, nel caso di eventuali lotti avariati, il ritiro della merce dai
punti vendita può avvenire in maniera molto più rapida”.
Giovanni Firullo è responsabile del controllo e della qualità
di Puma Conserve, un’azienda di Bisceglie (BAT). L’azienda
pugliese è uno di quei terzisti il cui nome rischia di scomparire
dalle etichette. Fa parte, infatti, di in un consorzio di produttori ortofrutticoli
che sotto il marchio “Terre D’Italia” vende prodotti
tipici delle Regioni italiane presso i supermercati della multinazionale
francese Carrefour: “La norma sulla non obbligatorietà a
indicare in etichetta l’azienda produttrice potrebbe danneggiarci
-spiega-. Carrefour potrebbe decidere di applicare le nuove leggi Ue e
togliere la sede del nostro stabilimento. Per un’impresa come la
nostra, a produzione semi-artigianale e rigorosamente ‘Made in Italy’
la visibilità è importante. Tutte le materie prime che utilizziamo
sono fresche, del territorio pugliese, e per noi questo è un valore
aggiunto che il consumatore deve conoscere”.
Tra i soggetti che hanno pubblicamente preso posizione contro il regolamento
Ue entrato in vigore a metà dicembre c’è anche Conad,
che ha acquistato una pagina su diversi quotidiani per spiegare che la
nuova disposizione di legge “sottraendo l’origine e il nome
del produttore, indebolisce il presidio del prodotto ‘Made in Italy’
e la qualità che il mondo ci invidia”. Secondo il direttore
Marketing e Comunicazione di Conad, Giuseppe Zuliani, “la mancata
tutela riguarda tanto la capacità manifatturiera italiana quanto
l’utilizzo di materie prime eccellenti”.
Conad promette -dalla pubblicità- di non “indebolire un rapporto
fiduciario consolidato negli anni”, impegnandosi in futuro a indicare
gli stabilimenti di produzione dei prodotti distribuiti con i proprio
quattro marchi commerciali.
“A mio avviso il regolamento 1169/11 favorisce la multinazionali
europee presenti in Italia, in quanto lascia aperta la porta alla delocalizzazione
degli stabilimenti di produzione” ribadisce Zuliani, secondo cui
“si è persa la madre di tutte le battaglie in Europa, ovvero
quella di tutelare la capacità produttiva italiana, che è
un’arte che tutto il mondo ci invidia e che è legata a lavorazioni
artigianali e tradizioni”.
Roberto Martini, responsabile della Direzione Assicurazione Qualità
e Ricerca & Sviluppo della nota azienda alimentare Colussi, che lavora
sia con il proprio marchio sia con quello di Esselunga, analizza il possibile
impatto della nuova normativa dal dicembre 2011: “Da subito ci siamo
attivati per comprendere le nuove norme e adeguarci. La mole di lavoro
è stata notevole, poiché circa mille prodotti necessitavano
una revisione dell’etichetta, con un impatto economico molto
oneroso di due milioni di euro. È vero che oggi le etichette forniscono
maggiori informazioni al consumatore -prosegue Martini-, ma l’aspetto
negativo è che in ambito europeo restano sul tavolo questioni aperte,
prima fra tutte il tema dell’origine degli alimenti trasformati,
sulle quali si attendono le modalità applicative da parte della
Commissione. Siamo in attesa di avere chiarimenti anche su atti delegati
riguardanti altre indicazioni in etichetta che al momento sono volontarie,
come le informazioni sull’idoneità di un alimento per vegetariani
o vegani”.
“Insieme alla nostra associazione di categoria abbiamo tentato di
sensibilizzare le istituzioni a favore dell’obbligatorietà
a menzionare in etichetta lo stabilimento di produzione -aggiunge il responsabile
di Colussi Spa-: la nostra azienda ha comunque deciso di riportare tutti
gli indirizzi delle aziende produttrici relativi ai prodotti a nostro
marchio. Quando invece i prodotti sono realizzati a marchio del cliente,
lasciamo libera la scelta”. A evidenziare le difficoltà delle
aziende del settore a “stare al passo” con le nuove regole
comunitarie è Paolo Patruno, responsabile Affari europei e informazione
al consumatore di Federalimentare (l’associazione di categoria,
affiliata a Confindustria), che auspica “un’accelerazione
da parte della Commissione europea nell’iter che fornisce i chiarimenti
interpretativi chiesti dai singoli Stati membri su un regolamento molto
complesso, il cui effetto non deve essere la frammentazione del mercato
ma l’armonizzazione delle legislazioni dei 28 Paesi dell’Ue
in materia di etichettatura degli alimenti. Ritengo che il regolamento
1169/11 fosse necessario per fornire maggiori informazioni ai consumatori
europei e fare in modo che tutte le aziende dell’Ue possano vendere
i propri prodotti con le stesse regole -spiega Patruno-. Tuttavia, spero
che i differenti approcci interpretativi delle norme non portino a derive
nazionalistiche, producendo distorsioni delle leggi comunitarie e, quindi,
complicazioni”. Patruno sottolinea inoltre come “la successione
di più governi italiani negli ultimi anni non ha consentito ai
tecnici del ministero dello Sviluppo economico, che in questi anni hanno
lavorato per uniformare le leggi italiane a quelle europee, in vista dell’applicazione
del regolamento 1169/11, di ottenere uno strumento legislativo adatto
per una revisione efficace delle nostre norme sull’etichettatura”.
La conseguenza è che oggi la legge comunitaria prevale su quella
italiana, e si rilevano delle lacune. “Non credo, però, che
oggi la soluzione sia notificare alla Commissione europea il ripristino
del decreto italiano 109/1992, che prevedeva ad esempio l’obbligo
di indicare l’azienda produttrice in etichetta, su base nazionale,
perché significherebbe auto-vincolare l’Italia a un’anomalia.
Gli alimenti prodotti e venduti nel nostro Paese avrebbero l’indicazione
della sede di produzione, ma cibi e bevande prodotti e confezionati in
altri Stati europei e venduti in Italia o all’estero non sarebbero
obbligati a indicare la sede dello stabilimento -conclude il rappresentante
di Federalimentare-. La richiesta dell’obbligatorietà a menzionare
in etichetta lo stabilimento dell’azienda produttrice deve allora
essere proposta e caldeggiata a Bruxelles, con l’obiettivo che diventi
una regola comune a tutto il mercato europeo”. ---
Miniguida al cambiamento: ecco le novità
La “nuova etichetta europea” per cibi e bevande è arrivata
il 13 dicembre 2014, quando è entrato in vigore il regolamento
comunitario 1169/11, nato allo scopo di fornire al consumatore le informazioni
necessarie per scegliere un prodotto in maniera consapevole, garantire
cibi sicuri e armonizzare le legislazioni dei singoli Paesi. Le nuove
disposizioni impongono un’etichetta con un formato più grande
e ben visibile, l’indicazione di sostanze che possono dare origine
ad allergie e una tabella nutrizionale, oggi volontaria ma obbligatoria
dal 2016.
Tra gli elementi obbligatori, vi è l’indicazione del nome
e della sede dell’operatore responsabile, cioè di chi mette
in commercio il prodotto, mentre l’origine geografica (intesa come
luogo di ultima trasformazione) dello stesso è facoltativa, con
l’eccezione di casi specifici, regolati da apposite normative, come
nel caso dell’ortofrutta, dei prodotti ittici freschi, delle uova
e di alcuni tipi di carne. L’obbligo a indicare l’origine
delle materie prime scatta quando l’omissione di tale dato potrebbe
risultare ingannevole per il consumatore. Opzionale è invece l’indicazione
del luogo di provenienza delle materie prime per la generalità
dei prodotti, fatte salve alcune categorie specifiche, come gli olii vergini
di oliva e il miele, per cui vige l’obbligatorietà.
Un’altra novità introdotta dal regolamento 1169/11 è
l’obbligo a indicare la diversa provenienza dell’ingrediente
primario rispetto all’origine (cioè al luogo di trasformazione)
del prodotto. Si tratta però di una norma sulla quale non sono
ancora chiari i tempi e le modalità di applicazione. Passi avanti
sono stati compiuti sul fronte della “tracciabilità”
delle carni, in quanto è stato esteso l’obbligo di indicare
i Paesi di nascita, allevamento e macellazione alle carni delle specie
suina, ovina e caprina, avicola, precedentemente previsto solo per la
carne bovina. Per carni, pesci e preparazioni a base di carne, dovrà
essere indicata la data in cui sono stati congelati. Sarà anche
obbligatorio specificare il tipo di olio usato tra gli ingredienti: olio
di girasole, di mais o di palma, e così via. Un vincolo che renderà
visibile la presenza dell’olio di palma: presente nella maggior
parte dei prodotti da forno (biscotti, merendine, snack), è ritenuto
fonte di un vasto ma controverso business, per l’impatto negativo
sul piano ambientale e per ragioni etiche legate allo sfruttamento delle
terre nei Paesi in via di Sviluppo.
(Francesca Morandi - www.altreconomia.it)
Torna all'indice di ASA-Press.com
|
|
|