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FATTI
E PERSONE
Commercio equo, per Fairtrade primo calo delle vendite in 20 anni
Diffuso il rapporto riguardante la Gran Bretagna. Tra
le cause, la crisi che spinge le persone a ripiegare sui discount. Ma
anche la messa in discussione del marchio di certificazione: sempre più
aziende preferiscono relazionarsi direttamente con i produttori del sud
del mondo
Fairtrade, il marchio internazionale di certificazione
etica che assicura migliori condizioni di vita e retribuzione ai produttori
del sud del mondo, per la prima volta in 20 anni affronta nel Regno unito
un calo nelle vendite di prodotti con il proprio logo: circa il 4% nel
2014. Lo riporta il quotidiano britannico The Guardian in due articoli
dove fornisce cifre e analisi delle diverse cause.
Il ribasso di Fairtrade riflette la difficile situazione che affligge
il mercato dei generi alimentari; i consumatori, avendo meno soldi da
spendere a causa della crisi, preferiscono fare la spesa presso le catene
più economiche come Aldi o Lidl. E anche se i discount hanno alcuni
prodotti Fairtrade in vendita presso i propri supermercati, la proporzione
è sensibilmente minore rispetto ad altre catene. Michael Gidney,
direttore esecutivo della fondazione Fairtrade dichiara: “La nostra
maggiore preoccupazione adesso riguarda il comportamento competitivo sempre
più aggressivo nel settore dei generi alimentari, che potrebbe
ridurre il volume delle merci che contadini e lavoratori vendono a condizioni
giuste ed eque, certificate da Fairtrade. E come risultato si avrebbe
una perdita reale per quelle famiglie e comunità che lavorano duramente
in alcuni dei Paesi più poveri del mondo”.
Le vendite Fairtrade hanno avuto un calo nel Regno unito del 5% per quanto
riguarda lo zucchero, del 38% per il cotone, dell'1% per il tè
e del 2% per il cacao. Bryan Roberts, della società di analisi
di vendita al dettaglio Kantar Retail, ha dichiarato: "Alcuni di
questi cali sono legati alla storia di talune categorie di alimenti. Le
vendite di tè sono in declino e ci sono molti messaggi anti-zucchero
adesso. Le persone lo stanno sostituendo con prodotti alternativi come
la stevia. Inoltre Fairtrade è una sorta di lusso per la gente,
che esita in questo momento a comprare quei prodotti”.
Nonostante i prodotti con il logo dell’organizzazione appaiano ormai
anche su alcuni delle più grandi catene come Starbucks o Kit Kats,
molte altre aziende che hanno politiche impeccabili riguardo il trattamento
dei lavoratori ed il giusto prezzo da pagare per le materie prime, hanno
preferito rinunciare alla certificazione Fairtrade. Una delle ragioni
principali per cui aziende importanti come Workshop coffee hanno deciso
di non richiederla risiede nel rifiuto del modello adottato dall’associazione:
a loro avviso Fairtrade non premia la qualità. Il capo della produzione
di Workshop coffee, Richard Shannon, dichiara al Guardian: “Il caffè
Fairtrade è caffè del futuro. I prezzi sono stati disposti
l’anno scorso per il caffè che sta crescendo quest’anno”
e ciò compromette la qualità delle torrefazioni specializzate,
che hanno la necessità di controllare ogni raccolto prima di decidere
quanto e se comprare".
Inoltre anche se entrare nel circuito Fairtrade non significa necessariamente
mancanza di qualità, molti fornitori ritengono che i propri commerci
siano anche più giusti di quelli dell’organizzazione. E la
dimostrazione risiederebbe nel prezzo pagato per i prodotti: l’anno
scorso la Workshop coffee ha pagato il caffè ai propri produttori
6,50 sterline al kilo, circa il doppio rispetto a Fairtrade. Lo stesso
vale per il cacao, per cui l’azienda danese Mikkel Friis-Holm ha
pagato i propri produttori dalle 10 alle 20 volte in più del prezzo
Fairtrade, che però sottolinea come essa non fornisca ai contadini
nessuna garanzia sugli introiti futuri, dal momento che fissa un prezzo
ma non un ordine minimo. Molte delle aziende non certificate dall’associazione
credono anche che i produttori al di fuori dai circuiti Fairtrade abbiano
maggiore dignità. “Quando arrivi fino in fondo, lo schema
Fairtrade diventa una sorta di neo imperialismo. E’ qualcosa che
imponiamo agli altri” ha dichiarato il famoso chef Olivier Roellinger,
riferendosi in particolare alle pressioni sui produttori per creare gruppi,
solitamente cooperative, per poter entrare nei programmi.
I dubbi di queste aziende riguardano anche l’efficacia di Fairtrade
nell’assicurare un buon affare per i lavoratori. Il sistema può
garantire i prezzi per i produttori e un incentivo per i progetti sociali,
ma non può assicurare che chi riceve i pagamenti condivida i benefici.
Molte cooperative Fairtrade impiegano persone che non ne sono membri,
e ricerche svolte lo scorso anno indicano come “i salari sono solitamente
più bassi, e le condizioni generali peggiori, per i lavoratori
nelle aree in cui sono presenti le organizzazioni Fairtrade rispetto ad
altre”.
Harriet Lamb, ceo di Fairtrade International, ribatte. “In circa
15 anni di lavoro devo ancora incontrare una compagnia che non dica di
essere altrettanto buona se non migliore di Fairtrade”. Così
mentre le verifiche da parte di terze persone dell’organizzazione
“non sono assolutamente l’unica soluzione, la domanda rimane:
in quale altro modo si può sapere e giudicare veritiero quello
che una compagnia o un produttore dicono?”.
E per quanto riguarda la qualità Fairtrade Lamb continua: “Non
ci sono ragioni per cui le compagnie non possano comprare la migliore
qualità come Fairtrade. Tuttavia ci sono liste e liste di produttori
Fairtrade certificati che hanno vinto anche dei premi. E se una compagnia
conosce un gruppo che assicura una qualità di prodotto particolarmente
alta, possono sempre supportarli e farli certificare da Fairtrade”.
E piuttosto che sentirsi minacciata Lamb sottolinea: “E’ una
bella sfida che ci porta a pensare come possiamo continuare a fare quello
che è sempre stato l’obbiettivo di Fairtrade, ossia portare
avanti il legame diretto tra produttore e consumatore”. (Hélène
D'angelo - www.redattoresociale.it)
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