SCHEDE

IL FORMAGGIO DI CROCEFISSA

Fino ai primi anni successivi alla seconda guerra mondiale, nel basso Salennto come in tutto il Meridione, la società civile poggiava ancora su due classi principali: i galantuomini proprietari di grandi feudi ed i contadini che coltivavano le terre con contratto di mezzadria. Esisteva un’altra classe, quella degli artigiani, che, anche se culturalmente superiore, in quanto a ricchezza, era più prossima a quella dei contadini che a quella dei galantuomi. L’alimentazione, però, era più o meno uguale per tutti, sebbene tra i galantuomini e gli altri vi fosse una certa differenza di disponibilità, ed era costituita soprattutto di cereali e verdure cotti e conditi con olio di oliva, ma anche di pesce. Non mancava il formaggio, usato più come condimento che come companatico, che per i signori era prodotto dal pastore-casaro della famiglia, dalla mungitura delle greggi più o meno numerose, e per i contadini, dalla donna di casa con il latte dell’unica capra o l’unica pecora che ogni nucleo povero possedeva ed allevava come poteva, soprattutto affidandola ai bambini non ancora in grado di lavorare la terra, che spesso la portavano a pascolare lungo le strade comunali di campagna dove l’erba non costava nulla. Tutti allevavano le cosiddette “pecore mosce”, resistenti e frugali, buone produttrici di latte, tipiche per il vello bianco e le macchie nere sulla faccia e sulle zampe; la loro lana non era di gran pregio, ma serviva perfettamente per materassi e cuscini ed anche per speciali tessuti: le donne del popolo, comunque, la filavano lo stesso per i telai domestici. C’era anche la categoria dei massari che conduceva interi feudi in affitto e dava modo alla maggior parte dell’aristocrazia di vivere di rendita senza mai impolverarsi o sporcarsi di fango.

Ecco la tecnica per fare il pecorino come la descrissi nel romanzo “Pòppiti” del 1996.

«La mattina successiva non uscì subito per andare in campagna: si fermò ad aiutare sua madre a lavare il formaggio che stagionava sulle tavole fissate alle pareti della casera. Erano all’opera che fuori era ancora buio e, alla luce della lucerna, Crocefissa aveva già preparato il latte con il presame ed ora con un tozzo bastone di legno di fico frantumava la cagliata. Poi immerse le mani nel siero e delicatamente raccolse tutta la pasta in una grossa palla morbida, bianchissima. Le giornate si erano accorciate enormemente e le ore di giorno non bastavano per stare a pari con tutti i lavori.

Quando ritenne ch’era tempo per farlo, Crocefissa prese la cagliata un po’ per volta e la passò nelle fiscelle di giunco a prendere forma, schiacciandola dolcemente con le nocche delle dita; pescando poi con le mani nel latte raccolse pazientemente i residui che non si impastavano, ne fece una palla strizzandoli con le mani e li mise da parte per la famiglia. Massara Crocefissa aveva un’ottima mano ed il suo formaggio era molto apprezzato nei dintorni; era un cacio senz’occhi, sempre compatto allo stesso modo, di sapore gradevolmente piccante e non svescicava mai.

Rimise il caccavo sul fuoco aggiungendovi un po’ di latte tenuto da parte in un mungitoio di creta smaltata e attese che la massa sobollisse. Bloccava man mano qualsiasi accenno di bollore, spruzzando con le dita acqua fresca nei punti in cui apparivano le bolle e mescolò molto lentamente con il bastone di fico finché alla superficie non si formò denso e candido lo strato di ricotta; a quel punto tolse la pentola dal fuoco. Prima raccolse la morbida e dolcissima fiorata che mise a sgocciolare nelle fiscelle per il consumo fresco, poi tutto il resto che pure mise a sgocciolare ma che era destinato ad aggiungersi alla massa della ricostta uschiante, forte, posta nell’apposita madia a fermentare.

Il cacio, poi, andava governato a dovere durante la stagionatura e di tanto in tanto ciascuna forma doveva essere strofinata, come se la si massaggiasse, con la palma della mano bagnata di acqua e aceto e spalmata con un sottilissimo strato di morchia. Questo era il segreto di Crocefissa. In più, le forme avanti con la stagionatura, sulle assi, giacevano sopra una lettiera di timo fino al momento della vendita o del loro consumo in famiglia. La stagionatura durava un anno intero; infatti è ancora vero il proverbio che dice: cacio di un anno, pane di un giorno e uovo di un’ora. Il formaggio fresco, di pronto consumo, era cosa diversa e ne parleremo in altra stagione se se ne presenterà la circostanza. Una cosa, però, possiamo dire subito e cioè che era costume regalare il siero già sfruttato a gente che vi inzuppava il pane per riempirsi lo stomaco e quando qualcuno veniva a chiederlo Crocefissa vi lasciava dentro un po’ di ricotta perché si vergognava di regalare solo “sciacquatura di piatti”.

Pasquale aveva poggiato tutte le forme portate giù dalle mensole sopra un tavolo rustico che di solito serviva per questa ed altre bisogne consimili e si apprestava ad iniziare l’operazione della stropicciatura come aveva imparato a fare da qualche anno. Aveva la miscela di acqua e aceto in una specie di grande zuppiera di creta rossa e lì una per volta immergeva le forme e le strofinava con una certa delicatezza per qualche minuto. Poi le passava a scolare dentro una grande cesta di vinchi di olivo e canne tagliate a strisce. Sua madre aveva salato il cacio di quella mattina e rivoltato quello del giorno precedente e venne al tavolo anch’ella con un altro recipiente che conteneva acqua e aceto. Guardò compiaciuta il figlio che con perizia maneggiava le forme di cacio e, mentre anch’ella iniziava a fare quel lavoro, gli disse: “Impara bene, Pasquale, così potrai insegnare il mestiere alla figlia di Pippi Parmatìu”. Abbozzò un sorriso».

Ad una certa età, un po’ di nostalgia non guasta qualche volta.

Giorgio Cretì


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