SALUTE E BENESSERE

Le etichette nutrizionali funzionano? Sì, lo dice uno studio condotto in un campus universitario. Ma devono essere belle, chiare e visibili

Le etichette nutrizionali sono raccomandate da moltissime agenzie sanitarie, ma sono effettivamente utili?

Anche se le etichette nutrizionali dei prodotti alimentari sono raccomandate dall’Affordable Care Act, sono sostenute dalla riforma sanitaria di Obama negli Stati Uniti, dall’inglese United Kingdom’s Responsibility Deal e da moltissime agenzie sanitarie, bisogna stabilire se e quanto siano effettivamente utili.
 
Sul primo interrogativo, negli ultimi anni molti ricercatori hanno dato risposte a volte contraddittorie (anche perché esperimenti e valutazioni sono stati condotti in condizioni molto diverse). Uno studio appena presentato al meeting annuale della Obesity Society di Boston, sembra dare una mano significativa ai sostenitori della loro efficacia. I nutrizionisti dell’Università di Glasgow, in Scozia, hanno mostrato quanto si è verificato in un’università dove le etichette nutrizionali dei piatti serviti sono state mostrate solo saltuariamente durante il primo anno scolastico (solo per cinque settimane). La prova è stata ripetuta l’anno dopo in maniera strutturale, utilizzando etichette più grandi e molto colorate su ogni piatto per circa 30 settimane.
Come atteso, nel primo anno gli studenti hanno incrementato il peso di 3,5 chilogrammi, mentre durante il secondo hanno mantenuto il peso è rimasto inalterato. Sempre nel secondo anno, la maggior parte dei ragazzi ha riferito di aver letto le etichette per cercare di non ingrassare e per mangiare meglio, e questo elemento si è notato anche esaminando le ordinazioni. Gli studenti hanno scelto pietanze in grado di fornire il 18% in meno di calorie rispetto al primo anno, assumevano così meno grassi saturi e oli di frittura, mentre non hanno diminuito il quantitativo medio di  micronutrienti.
Secondo gli autori, anche i gestori della mensa sono rimasti impressionati dai risultati, poiché nel corso del secondo anno hanno risparmiato il 33% di materie prime.Lo studio dimostra che mangiare meglio non è necessariamente più caro visto che ai cuochi sono stati richiesti meno piatti tipici dei fast food e più cibo sano.
 
Le etichette nutrizionali e caloriche sembrano quindi essere utili, ma devono essere chiare e sempre presenti. A wuesto punto si pone l’interrogativo di realizzare un’etichetta colorata ma efficace? Non esiste una risposta univoca, come testimonia  il fatto che ogni paese e spesso ogni azienda propone un proprio modello. Ma dopo tanti anni di esperimenti (i primi risalgono all’inizio degli anni novanta) qualcosa si può dire. Secondo Jane Brody, editorialista di salute nel New York Times, che ha appena dedicato un articolo all’argomento, la  prima domanda da farsi riguarda i destinatari, perché è dimostrato che chi legge le etichette è, nella stragrande maggioranza dei casi, una persona attenta alla salute. Questo spiegherebbe perché gli andamenti sull’incremento dell’obesità e del diabete di tipo 2 non hanno risentito in maniera significata della graduale introduzione della etichette.
 
La reale criticità  riguarda il contenuto delle indicazioni, spesso prive di reale significato per chi legge, soprattutto quando sono presenti grammi o percentuali, cioè entità che non possono essere facilmente collegate a ciò che si mangia.
Anche per questo motivo, l’Institute of Medicine, ente indipendente di ricerca, sta elaborando una nuova versione delle indicazioni  per fare maggiore chiarezza. Le modifiche proposte, al momento oggetto di valutazione in rete potrebbero essere davvero utili. Per esempio, anziché palare di zuccheri in generale, si invita a separare gli zuccheri naturali dagli zuccheri aggiunti; analogamente, si propone di non identificare più le calorie per unità di peso (per esempio 100 grammi) ma per porzione media che si consuma in un pasto. Un’approssimazione a sua volta non priva di difetti perché, per esempio, nel caso delle bevande zuccherate, si avrebbero le calorie medie per lattina (350 ml), ma non per lattina grande (da 560 ml) o per bottiglia. Allo steso modo, una porzione di patatine fritte è composta, secondo gli schemi attuali da  12 unità, ma spesso i clienti dei fast food ne mangiano un piatto grande, con 36 pezzi e anche in questo caso, il riferimento sulle etichette della “ porzione” potrebbe risultare inadeguata
 
Il punto – sottolinea Brody – è che il concetto di “porzione media” risulta fermo agli anni settanta: nel frattempo, le aziende hanno fatto di tutto per aumentare dimensioni e peso e ci sono riuscite.
Quello della porzione non è l’unico punto debole delle etichette. Un altro elemento di criticità, riguarda la chiarezza e la comprensione, per clienti che vivono sempre di fretta e non hanno tempo per fermarsi a leggere. Secondo Marion Nestle della New York University, una delle nutrizioniste più conosciute e stimate negli USA, i semafori potrebbero essere più utili, come dimostrano studi condotti in Gran Bretagna (i clienti non comprano cibi sui quali sia apposto il semaforo rosso): non a caso – sottolinea la Nestle – le aziende fanno molta resistenza all’introduzione dei semafori.
 
Inoltre, le etichette nutrizionali, secondo Brody, potrebbero essere molto più efficaci se i valori fossero espressi in unità di misura collegate alla vita di tutti i giorni come i cucchiaini. Pochi sanno che una lattina di bibita grande (da 560 ml) contiene, in media, 16 cucchiai da tè di zucchero. Sempre restando allo zucchero, il consumatore non sa che è la componente principale anche di miele, sciroppo di mais, agave, sciroppo d’uva e altri ingredienti onnipresenti nei prodotti alimentari confezionati. Ogni etichetta dovrebbe incoraggiare chi acquista a preferire alimenti ricchi in sali minerali, vitamine, fibre e preferire quelli integrali   naturalmente presenti, perché la migliore risposta all’obesità – conclude Brody – è l’educazione alla corretta alimentazione.
 
(Agnese Codignola - www.ilfattoalimentare.it)



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