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SALUTE
E BENESSERE
La tassa sulle bevande zuccherate funziona,
ma non bastano pochi centesimi a lattina, bisogna arrivare al 20%
Tassare le bevande dolci può essere uno strumento efficace
per ridurne il consumo e contribuire al contenimento del sovrappeso e
dell’obesità? Secondo un gruppo di ricercatori dell’Università
di Oxford, in Gran Bretagna, la risposta è sì, ma solo se
l’imposta risulta sufficientemente alta da scoraggiare i clienti.
Gli studiosi inglesi per verificare gli effetti di una tassazione del
20%, hanno condotto una simulazione considerando i dati di vendita di
varie indagini di mercato sulle abitudini alimentari dei concittadini
e su quelli antropometrici (altezza, peso e così via). Hanno così
dimostrato, tramite modelli matematici, che in breve tempo ci sarebbero
180.000 obesi e 285.000 persone con sovrappeso in meno. Non solo. Come
riferito sul British Medical Journal, ci sarebbero anche circa 320 milioni
di euro in più a disposizione delle esangui casse del sistema sanitario
britannico, da dedicare, magari, alla promozione del consumo di alimenti
sani – frutta e verdura in testa – soprattutto tra i più
sensibili al fascino delle bollicine dolci: i ragazzi.
Infine, sempre secondo la simulazione, la tassa comporterebbe una riduzione
del consumo di bibite dolci del 15%, calo cui corrisponderebbe una diminuzione
del tasso di obesità dell’1,3% e del sovrappeso dello 0,9%.
Lo studio inglese si inserisce quindi nel solco di altri studi, che hanno
già suggerito che questa potrebbe essere una via da percorrere
(nell’ambito di una strategia globale di lotta all’obesità,
come hanno sottolineato gli stessi autori).
Del resto alcuni paesi come la Francia hanno già adottato la “soda
tax” (di due centesimi a lattina da 33 cl, in quel caso), e molti
ci stanno pensando. Va però detto che una tassazione minima
come quella francese, aumenta le entrate fiscali ma non incide certo sui
consumi. Il tema della tassazione delle bevande è di estrema attualità
a San Francisco, in California dove i cittadini saranno chiamati
a esprimersi in merito, nel novembre del 2014. La proposta è introdurre
una tassa da due centesimi per oncia, cioè di circa 24 centesimi
per lattina da 35 cl, e di destinare poi i circa 30 milioni di dollari
che ne deriverebbero in programmi per la promozione dell’attività
fisica e dell’alimentazione sana. Quest’ultimo aspetto, ossia
l’identificazione della destinazione dei fondi, è molto importante
e può fare la differenza tra l’accettazione della tassa da
parte dei cittadini o il rigetto della stessa. Secondo un recente sondaggio
compiuto su quasi 1.200 abitanti della città californiana, circa
due terzi della popolazione sarebbe favorevole all’aumento di prezzo,
a patto che il denaro ricavato sia destinato a progetti specifici sulla
prevenzione e l’educazione sanitaria.
In caso dovessero prevalere i sì (e la campagna per il no, supportata
come sempre dall’American Beverage Association, è già
partita), San Francisco sarebbe la prima città americana a introdurre
una vera “soda tax”.
Finora, l’unico tentativo in questa direzione è stato quello
del sindaco di New York Michael Bloomberg, che ha vietato la vendita di
bicchieri troppo grandi di bevande dolci, fermato poi da un ricorso dei
produttori. Al momento si attende il pronunciamento definitivo del tribunale
sull’istanza presentata. Altre città californiane hanno fatto
tentativi analoghi negli anni scorsi, ma senza successo. Secondo le simulazioni
fatte dall’amministrazione locale, il ricavato potrebbe essere di
circa 30 milioni di dollari all’anno, che sarebbero anche in questo
caso utilizzati per programmi di promozione della salute e delle corrette
abitudini alimentari. Per essere accettata, la proposta dovrà passare
con una maggioranza dei due terzi dei votanti.
(Agnese Codignola - www.ilfattoalimentare.it)
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