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RASSEGNA
STAMPA
LA SOPRESSA
“La campagna ha un odore diverso”, pensò, “anche
i colori e i ritmi sono diversi”. Non era la prima volta che si
recava da quel suo lontano cugino, probabilmente l’ultimo contadino.
Eppure si ritrovava sempre a pensare a quelle ovvietà, e a come
fosse diversa la vita di chi abita in città ed ha magari uno stipendio
fisso, rispetto a chi ancora continuava a lavorare la terra e ad allevare
gli animali. Stare in città era comodo, non c’è dubbio.
Così come non poteva essere certo piacevole l’esistenza di
chi ogni giorno deve mungere le vacche, dare da mangiare agli animali,
spostarsi di chilometri anche solo per le piccole spese. Certo, c’è
il teorico vantaggio dell’aria buona, dei prodotti genuini, del
contatto con la natura. Ma questi gli apparivano più palliativi
che altro: trovate pubblicitarie, rispetto ad una esistenza faticosa,
dura, poco invidiabile davvero, senza giorni di pausa, senza ferie.
Suo cugino abitava da solo, non si era mai sposato. Lo andavano a trovare
fratelli e sorelle, che gli davano una mano, quando capitava. Poi c’erano
moltissime altre persone che si recavano da lui, per parlargli, per discutere,
alle volte anche per aiutarlo. Anche lui approfittava della saggezza di
quell’uomo: il cugino era una delle poche persone che non aveva
mai visto disperarsi o rattristarsi, neppure quando era morta sua madre.
I ritmi veri della vita quotidiana li aveva nel sangue, così come
aveva ben chiara la fatalità della morte e la gioia delle nascite.
La mamma – aveva spiegato con serenità – aveva concluso
il suo ciclo, aveva vissuto bene, era morta bene, aveva avuto fino all’ultimo
il suo affetto e quello degli altri familiari. L’aveva seppellita
di persona, senza una lacrima, circondato dal cordoglio sincero, non ruffiano,
non di facciata, di tutto il paese e di tutti i parenti e conoscenti.
In una agricoltura sempre più specializzata, il cugino continuava
ancora a produrre di tutto un poco: aveva una decina di vacche da latte,
alcuni vitelli ogni anno, tre maiali, conigli, anatre, galline, fagiani,
faraone, pavoni, gatti, cani da caccia e bastardini da compagnia, uva,
qualche albero da frutta, alcuni campi a mais per nutrire i bovini. Non
lo avevano mai spaventato né la fatica nè i disagi. La sua
casa era aperta anche alle rondini le quali, a dispetto dei catastrofismi
dei predicatori ambientali, continuavano numerose a nidificare ogni anno
sotto il suo tetto.
E poi, oltre alla sapienza della terra, aveva una dote preziosa: sapeva
fare i salumi. Aveva appreso quell’arte da piccolo, sviluppandola
e perfezionandola da grande, dapprima macellando i propri maiali nel rito
che da secoli si svolgeva in ogni casa contadina durante il periodo natalizio,
poi macellando e lavorando anche gli animali dei vicini.
Ecco cos’era che lo spingeva lì: non la campagna, non l’aria,
i profumi, i suoni, ma la sopressa. Che sopressa, però! Fatta come
Dio comanda, di quelle che purtroppo non trovi nelle salumerie, neppure
quelle più tradizionali o di lusso. E che dunque devi andarti a
cercare, fiero di avere un cugino del genere, geloso che altri ne usufruiscano,
sicuro di te quando la fai assaggiare a qualche ignaro amico che sin dalla
prima fetta rimane sbalordito da tanta bontà. Sembra una sciocchezza
–meditò tra sé e sé – ma solo chi ha
assaggiato una sopressa del genere sa cosa può essere davvero buono
nella vita. Ne era convinto: in un mondo asettico, disinfettato, dai gusti
uniformi e dai sapori omogenei, la soddisfazione misteriosa che sapeva
dare un salume antico dai sentori introvabili ti riconciliava col mondo.
Arrivò. Lui era nel pollaio a nutrire i volatili. Scese dall’auto,
andò a salutarlo e magari a dargli una mano. Si parlarono, apparentemente
del più e del meno. Ma dietro quelle parole c’era il commento
alla stagione che stava progredendo, le aspettative per i risultati della
campagna, il piacere di raccontare le novità. I pavoni, per esempio:
la pavona aveva scodellato cinque uova, ma era pigra. Così stava
facendo covare le uova ad una chioccia dallo spiccato istinto materno.
Il maltempo aveva ridotto l’uva e l’altra frutta, in compenso
il mais era cresciuto bene; le noci erano quasi pronte. Poi le altre domande
di rito: come stanno i genitori, i fratelli, i parenti, elencandoli uno
ad uno e scambiando le reciproche informazioni.
Terminato di distribuire il nutrimento agli animali, si avviarono verso
casa. E parlarono di politica. Di quel ministro o di quel personaggio
dell’opposizione. Lui, apparentemente, sembrava lontano dal mondo.
Invece era informatissimo. Suo cugino era di destra piuttosto che di sinistra.
Aveva conservato l’atavica paura dei piccoli contadini, che con
fatica si erano liberati dalla mezzadria e dall’affitto per acquistare
la terra e dedicarcisi anima e corpo, e che temevano sempre che qualcosa,
qualcuno, potesse sottrargliela. Ma sapeva anche fare delle distinzioni
encomiabili. Ad un cane da caccia che aveva considerato stupido e incapace
aveva dato il nome di un leader dell’opposizione la cui principale
occupazione sembrava essere quella di girare attorno alle cose senza costruire
nulla. Ma non era tenero neppure con la maggioranza e riusciva a dire
delle ovvietà che pure a nessuno parevano venire in mente.
Stavano parlando di un ministro, che già era stato ministro e che
non aveva dato grande prova di sé. Non capisco – disse –
perché a uno che si è dimostrato incapace debbano dare una
seconda opportunità per dimostrarlo. Poi non si fidava del capo
del governo. E’ bravo – sosteneva – ma dice bugie, lo
si vede in faccia quando parla. Ma dovendo scegliere, lui sceglieva con
sicurezza, senza tentennamenti. Bisognava solo stare sempre attenti a
discernere tra verità e bugie – sosteneva – perché
è inevitabile che in quel mestiere non sempre si potesse dire la
verità. Lui invece la diceva sempre, ed era anche fermissimo nei
suoi principi. Pronto a discuterne ma irremovibile sulle decisioni prese,
che sosteneva con amabilità e serenità, mai con superbia,
alterigia o violenza. Qualche volta si arrabbiava, certo: non però
di fronte alle forze della natura o alle avversità: solo di fronte
alla stupidità umana talvolta non riusciva a mantenere la sua calma
abituale.
Con gli animali era materno. Una volta aveva potuto assisterlo mentre
aiutava una vacca a partorire un vitello difficile. “Stringimi e
tirami”, gli aveva chiesto afferrando le zampette del piccolo che
sbucavano fuori dal corpo della madre che, stremata, non riusciva ad espellerlo.
Poi se l’era lavato, strigliato, vezzeggiato, lo aveva riposto accanto
alla vacca che aveva ripreso ad esprimere la sua maternità allattando
quel piccolo. Adorava i cani da caccia. Del resto la caccia era la sua
passione. Si limitava alle lepri, benchè in gioventù avesse
cacciato anche altra selvaggina. Il suo piacere non era tuttavia quello
di abbattere quegli animali, bensì di uscire all’alba e di
passeggiare da solo, per ore, nei boschi, mentre i cani gli correvano
attorno, cercando nella vegetazione, per poi spingere verso di lui la
preda. Però era anche un cacciatore infallibile e non sbagliava
un colpo e si entusiasmava come un bambino nel fare centro.
Quando una cagna partoriva, lui vedeva al primo colpo d’occhio quale
dei piccoli sarebbe stato bravo e quale no. Teneva i migliori, possibilmente
femmine, e vendeva gli altri, pur trattandoli tutti con lo stesso amore.
Aveva anche un paio di bastardini da compagnia, capaci di essere dolci
e coccoloni, silenziosi compagni della vita domestica, ma anche rumorosi
custodi contro le intrusioni degli estranei. Voleva così bene agli
animali, che quando si accorgeva che uno era irrimediabilmente malato
lo abbatteva, per non farlo soffrire. Aveva ben chiara in testa la differenza
che esiste tra una bestia e una persona. Qualche ideologico difensore
degli animali avrebbe potuto vedere della crudeltà in quel comportamento,
che lui aveva ereditato da secoli, millenni di rapporto diretto tra uomo
e natura. In lui però non c’era alcuna crudeltà, bensì
affetto sempre: un affetto del quale molti sedicenti amici degli animali
erano del tutto incapaci.
Entrarono in casa. “Cosa posso offrirti?”, gli chiese il cugino.
“Quello che vuoi, sai che trovo eccellente tutto ciò che
prepari”, rispose. Non era ruffianeria, ma la semplice verità.
E di fronte alla naturale generosità di quel parente, grande, grosso,
robusto, mite e nello stesso tempo capace di incutere timore a chiunque,
non osava esprimere preferenze, gli sarebbe parso quantomeno di cattivo
gusto. Anche perché suo cugino sapeva, senza bisogno di parlare
né di ascoltare, cosa avrebbe gradito. Anche quella volta non fu
da meno. Entrò nella stanza buia e fredda che adibiva a cantina
di stagionatura dei salumi. Lui lo seguì. Alle travi del soffitto
pendevano alcune decine di salami, salsicce e sopresse. Il cugino si diresse
verso queste ultime. Ne palpò un paio, poi sentenziò: “questa
è buona”. Tagliò lo spago che la teneva legata e se
ne tornò in cucina.
La sopressa aveva un aspetto invitante e a lui venne l’acquolina
in bocca pregustandone il gusto. Il salume era lungo una trentina di centimetri,
al centro il diametro raggiungeva forse i 20 centimetri, per poi digradare
verso le estremità. Era fatta all’antica, utilizzando come
contenitore il budello del maiale. All’interno, il tempo aveva fatto
maturare un prezioso impasto ottenuto macinando le parti migliori del
maiale, le carni più pregiate, salate al punto giusto, appena un
po’ speziate. La sopressa era coperta da un lievissimo e non uniforme
strato di muffa verdastra, segno di corretta umidità nella maturazione
e nella stagionatura.
Il cugino ne tagliò l’estremità, buttando via i primi
due centimetri. Si sparse subito nell’aria un profumo invitante,
pieno, tondo, perfetto. Dalla “ferita” apparve l’impasto,
bello, color rubino scuro, macchiato di bianco dalle parti grasse che
componevano l’insieme. “Questa è buona”, sentenziò.
Lo diceva con convinzione; altre volte aveva subito ammesso di non sapere
come fosse venuta. Ma se aveva detto così, voleva dire che era
buona davvero. Cominciò a tagliarla a fette, con un coltello tanto
vecchio quanto grande ed affilato. Fette sottili quanto basta, ideali
per quell’impasto morbido (nulla a che fare con la dura consistenza
delle sopresse industriali che si acquistano nei supermercati), che adagiava
su un piatto, una ad una, religiosamente, senza togliere la scorza. Lui
fremeva, avrebbe voluto arraffarne subito una, ma non voleva dare l’impressione
di essere troppo avido e goloso. In realtà ciascuno dei due sapeva
benissimo tutto dell’altro, però ciascuno nello stesso tempo
rispettava il rito dell’attesa. L’uno rallentando il taglio,
l’altro sospirando per l’impazienza, ma evitando di dimostrare
la propria fretta.
Arrivato alla decima fetta, il cugino disse semplicemente: “aspetta”.
E andò chissà dove a prendere una bottiglia di vino rosso,
che comprava in damigiane e poi imbottigliava lui stesso. L’aprì;
il vino era rifermentato nella bottiglia e schiumava leggermente, spandendo
il suo profumo nell’aria. Due bicchieri, un po’ di pan biscotto
e tutto era pronto per l’assaggio. Mentre il cugino mesceva il vino,
lui afferrò la prima fetta, togliendo la pelle di copertura che
si staccava da sola, senza problemi. La portò alla bocca già
piena di gusto e di saliva, ne strinse un pezzo tra i denti. Era tenera,
con la lingua la poteva disfare e spalmare su tutto il palato. Lo fece,
godendo per quel sapore perfetto, armonioso, dove il gusto dell’impasto
giunto alla giusta maturazione veniva esaltato dall’armonia della
salatura e dalle spezie. Chiuse gli occhi, assaporò assieme alla
sopressa tutte le sensazioni che quel gesto, solo all’apparenza
naturale e abituale, riusciva a dargli. Si sentì libero, completo,
a suo agio.
Finì la fetta, l’accompagnò con un pezzo di pane,
poi si sciacquò la bocca col vino, infine ne prese un’altra.
“Impossibile abituarsi”, pensò, gustandola più
della prima, cercando di cogliere le sfumature, i sentori di amaro, di
dolce e di acido che assieme al salato si diffondevano nella sua bocca,
fusi in un insieme dall’incredibile equilibrio. Non sarebbe riuscito
a smettere, lo sapeva, finchè le fette non fossero finite. E infatti
terminarono. Il cugino, comprensivo e silenzioso, ne tagliò delle
altre. Le mangiarono in silenzio. Poi parlarono di nuovo di politica,
del tempo e dei parenti, finchè la luce del giorno non cominciò
a scemare, portata via dal sole che volgeva al tramonto.
“E’ ora che vada”, riconobbe con rammarico. Non servivano
molte altre parole. Il cugino lo ringraziò per la compagnia. Lui
lo ringraziò per tutto. “Portatene una a casa”, disse
il parente contadino. Lo aveva desiderato, ma non ci aveva contato, certo
non glielo avrebbe mai chiesto. “Grazie”, affermò semplicemente.
Il cugino andò di là, tornò con una sopressa misteriosa,
incartata in un sacchetto da pane. “Ecco qua, dev’essere buona,
l’avevo fatta per un prete, ma non è mai venuto a prendersela”.
Lui l’afferrò, cercando di evitare di dare l’impressione
di un rapace che afferra la preda più ambita. “Grazie”,
ripetè, e gli strinse la mano. Il cugino l’accompagnò
in silenzio verso la macchina, lui salì, mise in moto e partì
lentamente. Si salutarono di nuovo, con la mano.
Tornava verso casa come un generale che avesse vinto la sua battaglia,
col gusto della sopressa appena consumata ancora ben presente nella sua
bocca, e col profumo di quella che aveva in auto che aleggiava nell’abitacolo.
“Sono così pochi i piaceri veri della vita”, meditò,
“ma questo è certamente uno di quelli che dà le maggiori
soddisfazioni”. Avrebbe potuto accadergli qualunque cosa, ma si
sentiva ormai appagato, pronto ad ogni evenienza, felice, soddisfatto
come poche altre volte gli era capitato nella vita.
Sebastiano Carron
Questo racconto è stato pubblicato su
"Campagna Amica" di agosto 2005
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