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QUALITA'
4 novembre 2014: la data della svolta. Più controlli sull'olio
d'oliva di importazione per difendere quello italiano
Annunciato dall'Ispettorato repressione
frodi il piano di controlli per il settore oleario per il 2015. L'attenzione
si concentrerà sui porti e alle frontiere per far arrivare al consumatore
un prodotto di qualità e per evitare concorrenza sleale ai danni
dei produttori italiani in una campagna drammatica
4 novembre 2014: una data famosa nel calendario della storia nazionale
rischia di essere ricordata anche come l’inizio di una nuova vita
dell’olio d’oliva nazionale.
Convocati, come tutti gli anni, al solito incontro in via Quintino Sella
42 (sede dell’Ispettorato per la repressione delle frodi nell’agroalimentare)
per una consultazione delle associazioni di categoria del comparto al
fine di “recepire le esigenze di controllo afferenti al settore
oleario”, come recita la lettera di convocazione del Capo dell’Ispettorato
Stefano Vaccari, ci siamo trovati di fronte un nuovo Direttore generale,
il signor Oreste Gerini che, tanto per non lasciare dubbi ai convenuti,
ha, in estrema sintesi, detto che :
1. la produzione olearia del nostro Paese è in stato di crisi,
2. è prevedibile un volume dell’importazione di olio comunitario
ed extracomunitario pari a un milione di tonnellate,
3. il prezzo dell’olio italiano mediamente si attesterà intorno
ai 10 euro al litro,
4. il rilevante valore commerciale dell’extravergine italiano e
il differenziale di prezzo con l’olio d’importazione potrebbe
generare nuovi fenomeni fraudolenti,
5. a tutela della qualità del prodotto nazionale l’attività
degli ispettori sarà orientata prevalentemente nel controllo dell’olio
di importazione.
Un linguaggio chiaro e onesto per rivendicare, sulla base di dati incontrovertibili
e di successi nell’azione di contrasto delle frodi, una consolidata
esperienza nell’attività di tutela della qualità e
di controllo delle importazioni. In particolare nei porti.
Dalla discussione è emersa con evidenza la consapevolezza di tutti
gli attori della filiera che la crisi che stiamo vivendo non è
un incidente stagionale. Forse è venuto il momento di farci un
bell’esame di coscienza, partendo dalla realtà dei fatti.
A cominciare dall’attuale campagna olearia, certamente anomala,
ma che, dopo 10 anni di progressiva decrescita della produzione (da 800.000
tonnellate nel 2004 alle 300.000 del 2013), mostra tutti i segni di un
vero e proprio declino dell’olivicoltura, risultato di diversi fattori,
oltre che politici e progettuali, anche agronomici e imprenditoriali,
che mettono in evidenza scarsa attenzione degli agricoltori nella cura
degli oliveti e/o sfiducia nella redditività nella produzione olivicola.
E forse non solo questo!
Come è potuto accadere? Come è mai possibile che un prodotto
che da sempre è tra i più venduti nel nostro Paese e che
poteva contare su una consolidata capacità di produzione sia stato
anno dopo anno dismesso, abbandonato, lasciando che paesi concorrenti
ci rendessero subalterni e dipendenti.? Come è potuto succedere
che da paese produttore ed esportatore di olio d’oliva siamo diventati
il mercato di importazione per eccellenza? Siamo passati dall’”aiuto
al consumo”, un contributo dell’Europa di mille lire per ogni
litro d’olio confezionato e venduto (ovvero aiuto agli imbottigliatori),
all’”aiuto alla produzione”, che in poco tempo diventò
la fabbrica dell’ ”olio di carta” dei modelli F (sotto
il nome “aiuto alla produzione”), al finanziamento diretto
alle imprese agricole, dando tutto il 100% in disaccoppiato, favorendo
l’atomizzazione ed il singolarismo degli agricoltori. Alla fine
di questo stravagante percorso ci ritroviamo ad aver ridotto ai minimi
termini la produzione di olio italiano mentre i consumatori chiedono e
consumano sempre più olio. La domanda nasce spontanea: “perché
nessuno, a Roma o a Bruxelles, ha pensato che era necessario, utile e
conveniente fare investimenti in nuovi impianti arborei e nell’ammodernamento
tecnologico dei frantoi oleari, unire cioè produzione di materia
prima e capacità di produzione in modo di mettere sul mercato tanto
olio quanto i consumatori ne chiedono?”
Oggi non è difficile rilevare la fragilità e l’insufficienza
del nostro sistema produttivo: non è solo un problema di clima
e di mosca olearia se quest’anno la nostra produzione non arriverà
nemmeno a 200.000 tonnellate, di cui la metà lampante.
Perché le organizzazioni agricole non hanno proposto un Piano olivicolo
nazionale. Perché hanno coperto lo spreco delle risorse e un sistema
di omertà che ha governato per anni l’intero comparto. Perché
le imprese artigiane olearie che hanno le loro etichette sugli scaffali
non sono state capaci di fare squadra e di rivendicare il loro ruolo di
produttori? La critica non può investire soltanto le non-scelte
di governo, ma riguarda anche i produttori, agricoltori e frantoiani,
e le loro organizzazioni.
Le imprese agricole e frantoiane, che oggi piangono lacrime amare al capezzale
dell’olio italiano, dov’erano quando si truccavano i dati
della produzione per pompare più soldi dalle casse pubbliche? Come
minimo è necessario alzare lo sguardo dal proprio orticello o dalle
gramole e guardare fuori. Manca nella maggior parte del settore oleario
un nuovo modo di vedere le cose, la capacità di stare insieme,
una moderna cultura d’impresa, una vera preparazione tecnica, ma
anche economica, scientifica, mercantile e gestionale, come ad esempio
richiede la legge per quanti vorranno essere riconosciuti dallo Stato
Mastri oleari e iscritti all’albo professionale.
Spesso invece si trovano poche idee e ben confuse, obiettivi cangianti
(come il colore delle olive), che oggi vanno in una direzione, domani
in un'altra, dove ci porta non il manuale del frantoiano, bensì
quello dell’arte di arrangiarsi. Manca la capacità e l’interesse
a stare insieme, anche quando qualcuno si prende la briga di creare associazioni
o promuovere consorzi che possano superare l’estremo “singolarismo”
proprio del mondo dell’olio. Basterebbe lasciare che i propri figli
applichino ciò che hanno appreso negli atenei italiani ed esteri
e magari lasciarli pure un po’ sbagliare, ma da soli, invece le
redini delle aziende sono saldamente in mano a degli arzilli ottuagenari,
che applicano il solo modello che conoscono, ma che purtroppo è
largamente anacronistico. Basti pensare la resistenza che hanno mostrato
verso uno dei “regali più belli” che, una volta tanto,
l’amministrazione pubblica ci ha fatto: il sistema SIAN. Ovvero
un sistema di gestione gratuito delle produzioni e delle movimentazioni
del prodotto all’interno dell’azienda, in modo da poter determinare
in ogni minuto i costi di produzione (controllo di gestione) ed i margini
(ebit, mon), giusto per sapere se si lavora per guadagnare o per mantenere
le banche! Il vecchio modello, primi Novecento per intendersi, vede nel
SIAN un sistema occulto che ci controlla e poi ci tassa e non ci permette
di poter vendere qualche tanica d’olio ai nostri amici, e agli amici
degli amici, senza alcuna documentazione di tracciamento e soprattutto
senza scontrino o fattura, perché agli amici queste cose non si
fanno.
La cartina di tornasole di queste “brutte abitudini” è
certamente un dato: su un totale di 260.340 tonnellate di olio da olive
prodotto nel 2013, solo 158.066 sono regolarmente classificate, mentre
102.274 non sono per nulla classificate, e ciò la dice lunga sulla
fiducia posta dai produttori nel sistema di registrazione SIAN.
Nel tempo sono stati persi molti treni, più o meno importanti,
ma alcuni sono stati fondamentali, dalla ristrutturazione degli impianti
arborei alla perdita di rappresentatività dello Stato italiano
a livello internazionale o la mancanza di progettualità e di organizzazioni
comuni per un approccio più sistematico al mercato. Così
siamo arrivati al punto che gli impianti stanno scomparendo a causa di
un indebolimento verso le malattie oppure zone di produzione abbandonate
poiché non è possibile estrarre un reddito accettabile visti
i costi di produzione elevatissimi. E’ necessario e urgente uscire
dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati anche se continuiamo a sbagliare
come dimostra quella vecchia pratica clientelare che ci porta, ancora
una volta, a sprecare risorse pubbliche in operazioni tipo Olio Dante,
mentre la globalizzazione mette in gioco attori di dimensioni planetarie
che con un marchio a Lucca e gli uffici a Shanghai sono in grado di dettare
legge sul mercato dell’olio-gadget. È arrivato, anche per
la nostra industria di confezionamento e per gli operatori della grande
distribuzione, il tempo di fare un esame di coscienza se non vogliono
condannare il comparto oleario nazionale a fare la fine dell’industria
del tessile.
A luglio 75 parlamentari hanno messo la loro firma su una mozione che
di fronte al declino dell’olivicoltura italiana, impegna il Governo:
“ad intraprendere le opportune iniziative…seguendo un procedimento
operativo, normativo e amministrativo, analogo a quello attuato ai sensi
della legge 2 dicembre 1998, n. 423…da associare all’istituzione
di un fondo di rotazione per gli investimenti, il cui importo sia non
inferiore a 90 milioni di euro”.
Meglio tardi che mai, recita un antico detto popolare. È ormai
chiaro a tutti che per l’agroalimentare italiano la carta vincente
è tipicità e qualità, e che questo risultato lo possiamo
ottenere soltanto sostenendo quel sistema delle imprese artigiane che
il cibo lo producono in modo sano e sicuro perché possono garantire
al consumatore capacità di produzione e controllo della intera
filiera. Vale per il cibo, vale ancora di più per l’olio
dalle olive buono, sano e nutriente.
Per raggiungere questo obiettivo tocca innanzitutto agli agricoltori e
ai frantoiani cambiare cultura professionale, innovare l’impresa,
rispettare il patto della qualità e della trasparenza con i consumatori,
rinnovare l’associazionismo abbattendo steccati e superando confini
tracciati nel tempo al solo scopo di prendersi un pezzo della torta. E
tocca alle imprese che confezionano un milione di tonnellate di olio comunitario
ed extracomunitario cambiare le loro strategie commerciali sapendo che
sul terreno del basso-prezzo i cinesi sono imbattibili e che non è
più tempo di seguire la GDO sul terreno delle promozioni a go-go.
Forse, come accadde per il vino italiano con il metanolo, siamo alla vigilia
di una vera rivoluzione nel settore dell’olio. Dobbiamo fare la
nostra parte, costruire intorno ad un progetto di nuova olivicoltura nuove
alleanze, coltivando la speranza e l’augurio che qualcuno a Palazzo
Chigi, a via XX Settembre o altrove si accorga delle “puttanate”
e degli errori che abbiamo fatto e ci metta mano. Come sembra vogliono
fare a via Quintino Sella 42.
(di Giampaolo Sodano, direttore AIFO - www.teatronaturale.it)
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