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QUALITA'
Contro il greenwashing e le finte pubblicità eco-sostenibili arrivano
dagli Stati Uniti le Green Guides
Riduzione delle emissioni di gas serra,
razionalizzazione dei consumi idrici ed energetici, filiera sostenibile,
packaging riciclabile o riciclato, e chi più ne ha più ne
metta… Oggi la maggior parte dei prodotti presenti negli scaffali
dei supermercati si dichiara verde-che-più-verde-non-si-può.
Esiste e, se c’è, qual è il confine tra beni che presentano
un reale basso impatto ambientale e il semplice greenwashing, cioè
l’appropriazione indebita e ingannevole da parte delle aziende di
virtù verdi, legate alla tutela della natura e dell’ambiente?
Un utile aiuto proviene dall’aggiornamento delle Green Guides americane
che, diffuse a ottobre dalla Federal Trade Commission, pur non avendo
carattere cogente, sono finalizzate a garantire che le affermazioni sugli
attributi ambientali dei prodotti siano veritiere e non ingannevoli. Le
linee guida possono essere una risorsa valida anche per educare i consumatori
a leggere con sguardo critico le etichette e i claim (gli slogan pubblicitari)
di molti prodotti che si presentano come “sostenibili”.
La raccomandazione principale che emerge dal documento è
quella di insospettirsi di fronte all’uso di espressioni generiche
come "prodotto verde", "che protegge la natura", "amico
dell’ambiente" o "naturale": si tratta di termini
vaghi che non dicono niente quanto alla reale sostenibilità del
prodotto in questione. Che cosa vuol dire "naturale"? Anche
l’arsenico lo è!
Le espressioni vaghe e gli attributi generici, inoltre, non sono indicativi
delle effettive performance ambientali dei prodotti, e sono difficili
da quantificare in termini numerici. Il prodotto X è "verde"?
"Verde" quanto? E perché?
Le aziende devono precisare in dettaglio per quale motivo il loro prodotto
è sostenibile e dovrebbero anche evitare di enfatizzare miglioramenti
piccoli o poco significativi. Per esempio, è fuorviante dire che
una bottiglia di plastica presenta il 50% di PET riciclato in più
rispetto all’anno precedente, se la percentuale passa soltanto dal
2% al 3%.
Nelle linee guida è citata l’analisi del ciclo di vita del
prodotto (Life Cycle Assessment) che valuta gli impatti ambientali del
bene lungo tutto il suo ciclo di vita, dalle materie prime al consumo
finale, fino all’eventuale smaltimento dei rifiuti.
La buona notizia è che anche in Italia molte aziende alimentari
stanno adottando l’LCA per monitorare e migliorare di anno in anno
le perfomance ambientali di prodotto con dati oggettivi e attendibili.
Barilla utilizza questa metodologia dal 2000 (come emerge dal loro bilancio
di sostenibilità) e nel 2012 la valutazione LCA ha coinvolto oltre
il 53% della produzione. Possiamo ricordare, in un breve elenco certamente
non esaustivo, anche Nestlé, Unilever, Carlsberg e Granarolo.
Secondo la Federal Trade Commission, i prodotti o servizi che dichiarano
di non avere alcun impatto negativo sull’ambiente sono mendaci:
nel loro ciclo di produzione vengono comunque impiegate risorse ed energie
che senz’altro influiscono sul territorio.
A tal proposito, ci torna in mente la pubblicità Ferrarelle dello
scorso anno, incentrata sulle bottiglie a “impatto zero” e
multata dall’Antitrust dopo essere stata bollata come “ingannevole”
dal Giurì di Autodisciplina pubblicitaria.
Infine, è corretto considerarsi sostenibili semplicemente perché
il proprio alimento è biologico? Si potrebbe incorrere nel nuovo,
ma non meno pernicioso organic washing, ovvero l’appropriazione
indebita di virtù ambientaliste e sostenibili solo perché
si è certificati come bio.
Consideriamo ad esempio un prodotto alimentare biologico: se fosse prodotto
lontano da dove è venduto e consumato, potrebbe avere un impatto
ambientale molto maggiore di un prodotto non bio, ma che non deve essere
trasportato o che nasce più vicino a chi l'acquista.
(Ludovica Principato - www.ilfattoalimentare.it)
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