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QUALITA'
Un progetto pilota per qualificare i PAT
I PAT (prodotti agroalimentari tradizionali), pensati per valorizzare
le produzioni di nicchia, rappresentano oggi un'arma spuntata, anche
per una proliferazione sulla base di criteri poco rigorosi degli elenchi
regionali. Nell'attesa (messianica?) del 'marchio leggero' a livello europeo il
Piemonte tenta la strada della certificazione dei PAT nell'ambito di un
marchio di qualità regionaleQualcosa bisognava pur fare per riscattare
i PAT da quella condizione di limbo in cui sono relegati. I PAT sono
stati pensati a livello nazionale per fornire una forma di ufficializzazione
a quelle produzioni di nicchia ) che interessano aree molto limitate,
presentano offerta stagionale e dispersa, non hanno caratteristiche tali
da alimentare circuiti distributivi.
Il valore di queste produzioni, però, è dato dal loro rappresentare
dei savoir faire, che rischia di andare perduto; sono beni culturali
a tutti gli effetti e base di quelle filiere agri-culturali che possono
garantire una valorizzazione multifunzionale e autosostenibile dei territori
'svantaggiati' o 'marginali' (per usare orribili espressioni convenzionali).
Aggiungiamo che a parecchi PAT sono associate varietà di piante
coltivate e tipi genetici animali autoctoni e a rischio di estinzione.
I PAT, però, godono di un incerto statuto: le procedure sono demandate
alle regioni, che compilano ciascuna un proprio elenco, gli elenchi sono
poi trasmessi al MIPAAF.
Considerate le ampie competenze delle regioni italiane in materia agricola
e la natura strettamente locale di tali produzioni (lontane anni luce
dalle logiche agroindustriali) può apparire del tutto coerente ed
adeguato il loro riconoscimento entro la sfera regionale. Il fatto,
però, è che la mancata (o parziale) assunzione del
'sistema PAT' da parte del livello ministeriale corrisponde ad una volontà
di mantenere sottotraccia i PAT stessi nel timore di andare a 'pestare
i piedi' al sistema dei marchi di qualità 'di serie A', quelli
garantiti dalla UE (DOP, IGP, STG e Agricoltura biologica).
La Dop si è rivelata per alcuni prodotti un'arma a doppio taglio.
Frutto di una storica battaglia condotta in sede comunitaria dalla Francia
(con l'Italia accodata) le DOP, che parevano rappresentare un fattore
chiave competitivo per l'agricoltura italiana (con il 23% di registazioni)
sono diventate con il tempo un sistema rigido che se da una parte ha spinto
i paesi del nord Europa ad 'imparare' ad avvantaggiarsene, dall'altra
ha finito per divenire un fattore che - in paesi come l'Italia caratterizzati
da una grandissima varietà di produzioni tradizionali e da una
struttura dell'offerta frammentata - irrigidisce le strategie di
valorizzazione dei prodotti di nicchia e delle aree 'deboli. La UE, per
tutelare le DOP e IGP, basate sulla tutela di una definizione territoriale,
esercita un'arcigna vigilanza circa l'uso di marchi collettivi riferiti
ad una qualsivoglia entità territoriale.
Le DOP diventano così un boomerang per i sistemi agroalimentari
artigianali su piccola scala che, fortunatamente, caratterizzano ancora
il panorama italiano e che rappresentano un giacimento gastronomico inestimabile.
Pur incidendo poco sul fatturato agroalimentare il settore delle produzioni
di nicchia tradizionali rappresenta una risorsa strategica sul piano
di economia turistica che farà sempre più affidamento alla
dimensione gastronomica (basti pensare che nel 2006 la spesa media del
turista è stata di 92 euro/presenza, ma che essa sale a 143 se
si fa riferimento alla nicchia del turismo enogastronomico e scende
a soli 68 euro per il turismo balneare).
Non occorre tornare in questa sede sulle note polemiche circa l'effetto
delle DOP in termini di spinta alla standardizzazione e alla industrializzazione
delle produzioni che hanno spesso comportato non solo un 'esproprio
patrimoniale' ai danni di piccoli produttori e delle aree di montagna
(che questi prodotti avevano 'inventato') ma anche il venir meno dell'appeal
di destinazioni turistiche che avevano nel prodotto 'raro' l'unico attrattore
(pensiamo al Culatello che richiedeva un pellegrinaggio a Zibello e che
ora si trova nei panini degli Autogrill). Consapevoli di ciò che
comporta il riconoscimento della DOP parecchie produzioni evitano di rincorrerlo,
proprio per non cadere in una condizione in cui il 'pallino' finisca per
sfuggire di mano a vantaggio degli industriali e della pianura.
Quanto alla STG (specialità tradizionale garantita) essa riguarda
i processi di trasformazione senza alcun legame con il territorio. Una
STG può essere prodotta ovunque (sempre per il principio di non
'confondere' il consumatore) che deve rivolgere un'attenzione privilegiata
alle DOP e IGP. In Italia c'è solo la Mozzarella STG e sono state
proposte STG come il 'Gallo ruspante', la 'Pizza napoletana', 'L'Antico
(!?) cioccolato artigianale'. Il gioco (oneri di certificazione, burocrazia)
non vale la candela (un prodotto 'garantito' che può essere replicato
ovunque, basta seguire alcuni metodi). Ne discende che il sistema dei
marchi agroalimentare UE va corretto, integrato da qualcosa che non c'è
ancora o da qualcosa che c'è e può essere rivalutato: i
PAT per l'appunto.
I limiti palesi dei PAT (la corsa a chi ha la lista più lunga)
PAT nascono (ex art. 8, comma 1 del D.lgs n.173 del 1998) con intenzioni
ibride e con il limite, come visto, di 'non dare troppo nell'occhio' nei
confronti di Bruxelles. Restano quindi sottotraccia anche perché,
in molti casi, l'obiettivo era quello minimale di salvare certe pratiche
tradizionali alimentari dalla scure europea delle 'normative igienico-sanitarie'
formendo degli appigli cui aggrapparsi per non mettere fuori legge materiali
e tecniche tradizionali. I limiti entro cui sono nati i PAT sono
poi venuti a galla ben presto una volta che le regioni sono andate compilando
e aggiornando gli 'elenchi'. Gli stessi principi di riconoscimento
dei PAT è stato largamente disatteso da parte di regioni interessate
a competere banalmente tra loro per l'elenco più lungo. Ricordiamo
che i PAT devono essere ottenuti con metodi di lavorazione, conservazione
e stagionatura consolidati nel tempo, omogenei per tutto il territorio
interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore
ai venticinque anni. Di fatto - a parte qualche bizzarria - sono entrati
negli elenchi prodotti tradizionali ... di altre regioni (tipo la Scamorza
trentina) o prodotti industriali con tanto di marchio aziendale registrato
e nome di fantasia. Non parliamo poi di prodotti inseriti con lo
stesso nome ma che in territori diversi della stessa regione hanno caratteristiche
anche molto differenti, o di prodotti con nomi diversi ma in realtà
identici. Vi sono poi 'famiglie' di prodotti che rendono palese l'intento
di 'fornire l'appiglio per le deroghe' e non di identificare, tutelare,
valorizzare specifiche nicchie produttive (vedi la generica 'ricotta artigianale'
in Lombardia, o l'altrettanto generico il 'caprino presamico', in Lombardia
e Piemonte ecc. ecc.). L'approccio a dir poco superficiale ai PAT ha condotto
a inserire in elenco prodotti descritti molto sommariamente con evidenti
disparità di criteri sia tra regione e regione che nell'ambito
della stessa regione in corrispondenza delle numerose 'revisioni' cui
l'elenco è stato ovunque sottoposto. Una base fragile per qualsiasi
strategia di tutela e valorizzazione.
I PAT tassello del sistema di qualità agrolaimentare piemontese.
Consapevole che il sistema DOP/IGP non è in grado di coprire una
parte importante del patrimonio di produzioni agroalimentari di qualità,
specie quelle legate a territori 'deboli', la Regione Piemonte ha lanciato
(gennaio 2010) un progetto di qualità (Piemonte agriqualità)
che comprende oltre a DOP, DOC, DOCG, IGP, Agricoltura biologica anche
i prodotti delle Terre Alte, dei Parchi, dell'agricoltura integrata (sulla
quale potrebbero esserci delle riserve dubbi dato il loro carattere
di eterna transizione verso il bio) e, infine, i PAT.
I PAT rappresentano una realtà diffusa (sono quasi 400 in Piemonte!)
e, se gestiti in modo più incisivo rispetto al passato, un modello
di qualità applicabile alla generalità dei sistemi territoriali
agroalimentari che di distaccano dalle filiere industriali ma che
hanno difficile accesso a sistemi di certificazione quali quelli
previsti per DOP e Agricoltura biologica. Il progetto di 'qualificazione'
dei PAT è stato lanciato in sintonia con un programma di seria
revisione dell'elenco (in Piemonte l'ultima è del 2002) e prevede
il coinvolgimento di diversi attori. Con la Regione in funzione di coordinamento
e di finanziamento ma senza volontà di prevaricare i livelli provinciali.
Nella scelta dei prodotti 'eligibili' per il progetto pilota (saranno
inseriti 2 PAT per ciascuna delle 8 provincie della Regione) sono
coinvolte le Camere di Commercio e le Provincie (enti cui è
demandato il compito della consultazione dei soggetti portatori di interesse
in materia). Dal punto di vista del supporto tecnico è previsto
il ruolo dell l’Istituto lattiero caseario e delle tecnologie agroalimentari
di Moretta e del Consorzio di ricerca, sperimentazione e divulgazione
per l'ortofrutticoltura piemontese. Al sistema camerale competerà
anche la gestione degli aspetti certificativi. La scommessa consiste nella
sperimentazione di un sistema di certificazione più snello e ,
soprattutto, meno costoso rispetto a quello della DOP. Nell'ambito
del progetto pilota i costi saranno tutti a carico della Regione
ma, se il sistema dovesse generalizzarsi ed entrare a regime i costi resterebbero
in carico ai produttori.
Il progetto è in fase di avvio. I prodotti saranno scelti
entro il mese di marzo sulla base di criteri attinenti un assortimento
per categoria, le potenzialità, la rappresentatività
territoriale. Per arrivare ad accedere alla certificazione, e quindi al
marchio regionale, sarà necessario redigere dei disciplinari veri
e propri e di protocolli di controllo. Il tutto sarà oggetto
di comunicazione al Mipaaf. Una volta attivato il sistema esso consentirà
ai prodotti di inserirsi in un sistema di qualità nazionale ed
è prevista anche la registrazione dei marchi in sede europea. E'
una traiettoria che, negli auspici, potrà consentire di attribuire
ai PAT una pari dignità - almeno per alcuni aspetti - con
i sistemi di qualità riconosciti a livello EU: DOP, IGP, STG, AGRICOLTURA
BIOLOGICA. E' anche un possibile percorso per arrivare ad un marchio
nazionale. Il tutto non è scevro di insidie perché, a differenza
delle DOP e IGP, questi marchi non possono aspirare ad alcuna tutela dell'area
di produzione ma solo dei metodi. Di qui la necessità di vincolare
i metodi di produzione a elementi che reintroducano dalla finestra la
logica di delimitazione geografica scacciata dalla porta: q il legame
con una determinata razza autoctona, particolari ingredienti, strumenti,
materiali, strutture difficilmente reperibili altrove, un profilo
organolettico ben caratterizzato legato a fattori territoriali precisi
e non facilmente riproducibili. La 'scommessa' è duplice: riuscire
ad approntare un sistema di certificazione snello e poco costose, caratterizzare
le produzioni in modo tale che i disciplinari depositati con possano essere
utilizzati per riprodurre altrove i PAT.
Obiettivo strategico. Non sfugge la finalità strategica della non
semplice operazione. Essa dovrebbe consentire di ridurre il fossato,
che si è sempre più andato approfondendo, tra produzioni
'riconosciute' e quelle prive di status 'europeo' ma fondamentali
per assicurare sostenibilità economica ai sistemi di agricoltura
'marginali'. Con gli anni sono aumentate di numero e di importanza
le misure dei Piani di sviluppo rurale comportanti un accesso esclusivo
o privilegiato dei prodotti DOP, IGP, da Agricoltura biologica. Tenuto
conto delle difficoltà di accesso alla DOP delle produzioni di
nicchia e della innegabile deriva produttivistica delle DOP stesse a sfavore
delle produzioni 'rurali' l'attribuzione ai PAT di una parte delle prerogative
delle DOP appare come operazione non solo di equuità ma anche necessaria
affinché le risorse per lo sviluppo rurale non sia in gran
parte riassorbita dal sostegno alle filere agroindustriali. Da qui l'interesse
per il progetto piemontese che potrebbe rappresentare uno stimolo ad analoghe
iniziative anche nelle altre regioni e forse aprire la strada, 'dal basso'
al sospirato 'marchio leggero'.
Michele Corti - www.ruralpini.it
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