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Re Gambrinus abita qui
Siamo l'unico Paese al mondo che ha disposizione oltre 500 etichette provenienti da tutto il pianeta. Ma non si scardina la soglia dei 30 litri pro capite.I consumi suddivisi equamente tra domestici e fuori casa

Se il conclamato re della birra Gambrinus, non fosse originario delle Fiandre, si potrebbe pensare ad un personaggio di casa nostra. Questo perché in Italia sono presenti in pratica tutte le birre che si producono nel mondo.
Questa bevanda, declinata in ogni tipologia (o style che dir si voglia) esistente e in ogni confezione e formato: bottiglie da 25, 33 e 66 cl, lattine da 33 cl, 3 e 5 litri nonché fusti da 20, 30 e 60 litri per le mescite alla spina, dalle nostre parti quindi non manca. Ciò che invece scarseggia sono i consumi, invero molto modesti specie se raffrontati alla media europea che è di 80 litri pro capite contro i nostri modesti 30 litri.
Che l'offerta è ampia lo dimostra anche la disponibilità del canale moderno ad ampliare gli scaffali riservati alle birre, tant'è che grandi e medie superfici ospitano decine e decine di referenze tra brand nazionali, esteri e private label..
Riguardo al canale Horeca poi, dopo un boom ragguardevole si è un po' attenuato il proliferare di birrerie sempre meno nostrane a favore di british e irish pub, brasserie francofone, stube e Gemütlichkeit d'ispirazione teutonica, imitazioni di estaminée fiamminghi e di bruìn café olandesi, nonché di saloon americaneggianti e australiani. Oltre a qualche esemplare di cervecerie ispaniche.
Tuttavia, malgrado questa variegata e abbondante offerta, come accennato, i consumi mon sono precisamente eccelsi. Il fatto che offerta e domanda pur incontrandosi, quest'ultima non si sviluppa, evidentemente significa che c'è qualcosa che non funziona.
Qualche sforzo il management birrario per ottenere risultati migliori l'ha attuato, ma i gap più ostici che precludono lo sviluppo di questo mercato ancora non sono riusciti ad appianarli. Segnatamente sono: la marcata stagionalizzazione e la non conoscenza del prodotto.

Gli italiani sanno cos'è la birra?
Riflettendo su tali vincoli ci torna alla mente l'ormai "storica" campagna pubblicitaria degli Anni 80 promossa da Assobirra, con Renzo Arbore in veste di coinvolgente credibile testimonial. Ricordate l'azzeccato claim "birra…e sai cosa bevi"? Ebbene, statistiche alla mano, fu l'unica volta che i consumi fecero un balzo esponenziale. Questo perché fu una pubblicità davvero informativa, una comunicazione che spiegava per la prima volta agli italiani con molta chiarezza cos'è la birra. Suggeriva come berla, a quale temperatura, con quali cibi accompagnarla, accennando persino alle sue proprietà organolettiche e salutistiche.
Ecco, forse l'handicap più vistoso sta proprio nel fatto che in Italia, la birra non più "raccontata" con quella semplicità di linguaggio, comunicata com'è oggi esclusivamente ad un target giovanile, continua ad essere vissuta ancor peggio di un banale soft drink da ingollare quando fa molto caldo.
Sto generalizzando? Non proprio, episodi di birrai e importatori che abbiano proposto informazioni di carattere educazionale non ne ricordo. Le campagne pubblicitarie, oltre che saltuarie e curiosamente concentrate tra maggio e agosto (ribadendo implicitamente quella stagionalità che si vorrebbe superare), sono perlopiù tese a ricordare le marche e non le loro peculiarità. Inoltre, sono esclusivamente improntate ad un giovanilismo esasperato come se agli "over 40" fosse interdetto bere birra. Eppure, osservando la dinamica degli acquisti il 50% dei consumi è casalingo ed è verosimile ipotizzare che in famiglia ci sia anche qualche "maggiorenne".

Per far conoscere il prodotto qualcosina si è fatto e si fa; alcune aziende organizzano brevi corsi di spillatura per i gestori dei pubblici esercizi. Alcuni di questi, spinti più dalla passione che dalle leggi del marketing mettono sui tavoli liste birrarie spesso con svarioni, imprecisioni ed errori ortografici raccapriccianti. Meglio di niente.
Sul versante commerciale si hanno rarissime notizie di coinvolgimento dei buyer del beverage delle catene distributive. Quasi nessuno ha visitato una fabbrica di birra, seguito un processo produttivo o visto una malteria e neppure ha mai parlato con un mastrobirraio ponendogli delle domande magari per capire semplicemente cos'è che fa la differenzia di colore tra una birra e l'altra.
Una perla in questo deserto informativo esiste, ed è l'Università della birra di Azzate (Va), benemerita realtà supportata dal gruppo Heineken, diretta con professionalità ed entusiasmo dal collega Franco Re, tesa a formare non meramente dei bravi spillatori ma manager di pubblici esercizi adeguati al mercato attuale.
Tuttavia, volumi e massa critica non si raggiungono con quei pochi consumatori capaci di distinguere una pils da una trappista, che pretendono che la birra sia spillata doviziosamente, servita nel bicchiere giusto a temperature corrette. Consumatori che non ci stanno a pagare di più una birra "estera" solo perché il nome è straniero quando invece è prodotta integralmente sottocasa. Al proposito va detto che la grande distribuzione riguardo questo non marginale aspetto è la più corretta. Altro merito da scrivere per la crescita dei consumi e per una maggiore conoscenza del prodotto sono le manifestazioni promozionali chiamate, a secondo della durata, "settimane" o "mese della birra" piuttosto che "feste spumeggianti" durante le quali oltre a numerose degustazioni è possibile accedere ad un'ampia scelta di birre nazionali ed estere. Ma veniamo ai dati che più di tante parole danno il quadro del mercato.
La fonte ufficiale del settore, Assobirra, dice che si producono circa 13mila ettolitri ottenuti nei 16 impianti esistenti sul territorio. Le importazioni sono salite a 5 milioni di ettolitri e salite anche le esportazioni pur trattandosi di un rigagnolo. Segmentando il mercato per tipologie, il 64,8% è costituito da birre normali, il 32% dalle premium, l'1% da doppio malto, l'1,8% dalle light, lo 0,4% dalle analcoliche. Quanto alle confezioni, la parte preponderante è costituita da bottiglie vuoto a perdere per circa 8 milioni di ettolitri, quindi i fusti, poi, più o meno nella stessa quantità (1,6 milioni di hl) lattine da 33 cl e bottiglie (33 e 66 cl) in vetro a rendere.

La leadership per ripartizione tra gruppi birrari spetta a Heineken, segue Peroni , poi Carlsberg Italia, Forst+Menabrea, quindi, Castello di Udine 2,1%, e la new entry Hausbrandt di Trieste 0,1% ed altri (importatori terzi, imbottigliatori per terxi, microbirrerie, depositi, ecc) con il 24,7%.
Osservando lo score dei consumi dell'ultimo quinquennio non si può negare la tendenza di crescita, tuttavia rimaniamo il fanalino di coda nel panorama europeo dove la media è di 80 litri mentre da noi il picco è stato nel 2003 (anno della calura sahariana) dove sono stati superati di poco i 30 litri pro capite.
Verosimilmente nessun operatore brassicolo ha mai sognato di uguagliare i consumi degli irlandesi (127 litri) o dei tedeschi (125,5 ultimamente in calo) e neppure dei danesi (102,2 litri); avrà magari fantasticato d'avvicinarsi quantomeno a quelli dei cugini francesi (36,2 litri) che, come noi, sono altrettanto amanti di Bacco. Ma attenzione, onde non incorrere nell'errore di molti, ossia credere che rivale della birra sia il vino, è opportuno precisare che la vera antagonista della birra è l'acqua in bottiglia più o meno mineralizzata della quale ognuno di noi ne beve la bellezza di 156 litri. E ciò ribadisce che purtroppo la birra da noi è tristemente associabile ad un soft drink mentre è la più vecchia bevanda alcolica del mondo vantando ben ed ha una straordinaria virtù, (lo dicevano 7mila e passa anni fa i sumeri: "bar-bi-sag che in quella lingua significa "ciò che fa veder chiaro") mentre più pragmaticamente i greci la chiamarono "vino d'orzo". Tutto ciò duemila prima che si spremesse l'uva.

Giuseppe Cremonesi



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