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LUOGHI
LA CULTURA DEL CIBO A BOLOGNA
Organizzato dai responsabili A.S.A.
un interessante incontro con le realtà produttive di Bologna.
Giulio Biasion e Giancarlo Roversi : responsabili A.S.A. di territorio
dell’Emilia Romagna hanno organizzato un interessante incontro con
le realtà produttive di Bologna e del suo immediato hinterland:l’immagine
del lavoro in cucina nell’interpretazione d’altri tempi di
Alessandra Spinsi; la presentazione della moderna interpretazione dell’antico
rito della mortadella presso l’ALCISA; i vigneti pettinati sulle
colline bolognesi lungo la strada che percorrevano i brentatori passando
vicino al casale Gaggioli; la colata della squacquerone nel caseificio
La Campagnola e l’accoglienza di sua Maestà il nero: il grana
nel suo mantello tradizionalmente nero, prima che venisse ingiallito da
imposizioni comunitarie e conservato dalla Famiglia Chiarli. Incontri
indimenticabili che hanno fatto da degna cornice all’evento più
significativo della cultura cucinaria bolognese.
La lodevole iniziativa mirata a presentare le tradizioni della cucina
bolognese nelle loro vesti tradizionali e nell’interpretazione che
si avvicini al gusto attuale, ha visto la sua conclusione nelle balconate
della sala borsa: edificio ristrutturato con garbo nel centro di Bologna
e adattato a centro multifunzionale per i giovani e i non più giovani
ma desiderosi di aggiornare le loro esperienze. I ristoratori aderenti
alla’Associazione Cultura del Cibo, hanno dato vita ad una competizione
cucinaria presentando le loro variazioni sul tema della cucina bolognese.
Gianni Staccotti
La cultura del cibo a Bologna
Dei piatti tipici che si gustano oggi nei ristoranti si è perso
il rapporto di interdipendenza che lega gli ingredienti che li compongono
alla loro zona di origine. E questo può andare a scapito della
fragranza di specialità gastronomiche che trovano proprio nelle
radici col territorio uno dei motivi basilari della loro unicità.
Quindi acquista sempre maggiore importanza per il consumatore conoscere
questo legame, avere garanzie sulla filiera agroalimentare che sta alla
base di un piatto, soprattutto di quelli tradizionali.
Proprio in questa prospettiva “Bologna Turismo”, in collaborazione
con i ristoranti aderenti all’Associazione Cultura del cibo, promuovono
“Dalla terra alla Tavola”, un’iniziativa che intende
ristabilire quel profondo cordone ombelicale che un tempo legava la qualità
dei cibi preparati nelle vecchie cucine di casa, ma anche di ristoranti
e trattorie, agli acquisti delle massaie e dei cuochi al mercato. Tutto
ciò per consentire alla ristorazione bolognese consolidare il suo
livello di eccellenza facendo leva su prodotti di pregio.
Associazione “ la cultura del cibo “
Bologna
e la cucina: un binomio antico quanto la storia stessa della città;
del suo essere punto centrale di cospicui traffici di uomini e merci;
del suo proporsi quale luogo di accoglienza delle schiere di docenti e
studenti che l’animarono fin dal XII secolo; del suo riconoscersi
in un territorio agricolo da sempre coltivato con sapiente ed assidua
perizia da generazioni di contadini in grado di offrire prodotti abbondanti
e di qualità, sì da rifornire le tavole dei cittadini. Grassa
e dotta, dunque Bologna – e da subito. Nel senso che solo la sua
realtà produttiva poté consentire lo sviluppo delle tante
presenze “colte” richiamate dall’Alma Mater, finendo
ben presto per raggiungere una dimensione internazionale in questa caratteristica
di eccellenza gastronomica. Tanto più che le stesse tipologie di
esigenze alimentari, richieste da una popolazione incrementata da studenti
di tutta Europa, non potevano non rivolgersi ad una ristorazione di socievole
convivialità consumata in pubblici locali, sospinti a gareggiare
tra loro per ricchezza, gradevolezza e raffinata elaborazione dei piatti.
Lunga è la trama dei secoli durante i quali è facile trovare
continue testimonianze di ospiti della città entusiasmati dal cibo
qui incontrato e – va sottolineato con forza – soprattutto
per la genuinità e varietà dei prodotti, ancor più
che per la loro trasformazione in specifici menù.
Ben cosciente di una simile tradizione e di un’ininterrotta presenza
della città nell’immaginario gastronomico internazionale,
circa quaranta ristoratori di Bologna e provincia hanno costituito, a
partire dall’occasione offerta nel 2000 dalle manifestazioni collegate
all’essere stata Bologna “città europea della cultura”,
un’associazione intitolata alla “Cultura del cibo”:
nella convinzione che se il problema dell’oggi e del futuro è
la reazione all’appiattimento del gusto e all’omogeneizzazione
dei sapori, la cucina bolognese ha tutte le carte in regola per esprimere
una propria identità, fatta – lo si è detto –
di radici ben piantate nelle tradizioni locali e nell’elaborazione
dei prodotti delle sue campagne, che nessuno sbandamento per indulgere
alle mode del momento ha mai eliminato dalle sue mense. Anche in questo
caso – come negli altri processi di insediamento della città
nelle dimensioni della modernità – si è realizzato
quel lento avanzare verso le esigenze del nuovo, generazione dopo generazione,
che non recideva mai i suoi legami con il passato; che ne conservava l’essenza
per misurarla con il fluire di una società via via in cambiamento
nelle modalità del vivere individuale e collettivo, del produrre,
del fare cultura,
dell’elaborare ideali, progetti, finalità. Ecco, allora,
riaffiorare i piatti di sempre, magari adattati alle alleggerite e spesso
fugaci degustazioni dell’oggi; accanto alla ricerca di inediti accostamenti
mai privi del sapiente ancoraggio all’eredità di una proposta
culinaria legata al trattamento di quanto originato da un’attività
agricola del territorio regionale, ancora vitalissima e disponibile a
tutelare e tramandare antiche lavorazioni coi loro intatti sapori.
L’intento dei ristoratori riuniti in questa associazione è,
appunto, quello di testimoniare in concreto, coi loro menù e le
loro ricette, il persistere di una tradizione cuciniera che sa di antiche
abilità manipolatrici, non meno che di ribaditi legami con la più
elevata qualità degli alimenti provenienti dalla realtà
territoriale: elementi, le une e gli altri, indispensabili per fare del
cibo non solo un tramite per garantire il nutrimento necessario alla sopravvivenza,
ma anche un tratto distintivo di una comunità, della sua storia,
delle sue relazioni con l’esterno, dei suoi comportamenti individuali
e collettivi: in una parola della sua cultura.
Intervento del Prof. Angelo Varni alla
Conferenza stampa del 2 Giugno 2005 a Bologna in occasione della cena
per “La Cultura del Cibo” : Bologna la “grassa”:una
storia tra mito e realtà
Ci siamo sistemate molto bene al Pellegrino e siamo molto ben servite.
[…] Il pranzo di oggi è consistito in una zuppa bianca coi
vermicelli e parmigiano fine grattugiato sulla superficie, mezza testa
di maiale bolognese mirabilmente essiccato e condito, superiore ad ogni
altro tipo di carne di maiale mai mangiato in Inghilterra; una frittura
molto ricercata, un piatto di pasticcio alla francese, una pollastra tenuta
all'ingrasso, una delle migliori che io abbia mai visto […] un quarto
anteriore di agnello arrosto, un fricandò con piccole navées,
spinaci conditi alla maniera francese, tartufi di cavolfiore in fricassea
conditi con burro e acciughe, un piatto di mortadella; per dessert la
migliore uva bianca che si possa immaginare, bianche pere, le migliori
noci e nocciole, di una dimensione e dolcezza fuori del comune.
Con una simile succulenta successione di piatti, impressionante per gli
inappetenti stomaci dei commensali di oggi, una viaggiatrice inglese degli
ultimi decenni del Settecento, Anne Miller Riggs, descriveva, in una lettera
agli amici londinesi, la saporosa esperienza del suo impatto con la cucina
bolognese, dove i piaceri del cibo non conoscevano alcuna pudica limitazione
dovuta ad imperativi di colesterolo o di linea, secondo gli schemi di
comportamento salutisti delle epoche più recenti e le icone efebiche
imposte dalla moda femminile. Ciò che risalta è soprattutto
l'insistita sottolineatura sulla qualità dei prodotti presentati;
la loro straordinaria varietà lungo l'intero ordito del pranzo,
dalla prima zuppa con vermicelli parmigiano, attraverso carni e verdure
diverse, fino all'elogio e conclusivo per le frutta ; nonché l'attitudine
tutta particolare del cuoco ad elaborazioni aperte alle migliori suggestioni
della gastronomia internazionale, al punto da incontrare il gusto soddisfatto
della nostra golosa turista d'oltre Manica . Del resto è ben noto
che Bologna acquisì, fin dai primissimi secoli del II millenio,
la duplice e correlata denominazione di dotta e grassa, proprio per la
sua non comune capacità di assicurare, in virtù della forza
produttiva delle campagne circostanti e della dinamicità dei suoi
snodi commerciali, un costante approvvigionamento per le migliaia di studenti
e docenti che ne animavano la vita comunitaria.
E così, già i documenti del XII secolo ci parlano di questa
rassicurante fertilità del contado da dove, con il vigile e stringente
controllo del comune cittadino, giungevano in abbondanza grano, verdura,
frutta, olive, uva da vinificazione, erbe medicamentose; mentre il pesce,
oggetto di costante consumo, arrivava sia dall'Adriatico, soprattutto
attraverso il Ferrarese, sia dalle paludi e dai corsi d'acqua locali a
partire dal Reno: su tutto l'anguilla marinata o cotta nel vino ma con
essa storioni, gamberi, granchi, cefali, ostriche. E poi la carne bovina,
in particolare di importazione romagnola, presente sulle tavole dei bolognesi
e non solo dei ceti più ricchi, anche nei periodi di maggiore carenza
alimentare; per arrivare poi al maiale subliminato da sempre, per la ricchezza
e la varietà dell'offerta gastronomica che si poteva trarre dalla
lavorazione delle sue carni fresche o insaccate, come la quintessenza
della cucina bolognese: raffigurato in due stele di età augustea
insieme al mortaio già allora destinato alla preparazione della
mortadella; evocato in una festa civica a lui dedicata, quella della porchetta;
elogiato nel corso dei secoli da quanti ebbero ad accostarsi alle nostre
tavole per i più svariati motivi.
Dallo sguardo curioso di un erudito del Cinquecento, Ortensio di Lando
che, nel suo stravagante attraversamento della penisola, ricordava come
“in Bologna si facciano salsicciotti i migliori che mai si mangiassero;
mangiansi crudi, mangiansi cotti, e a tutte l'ore ne aguzzano l'appetito”;
ai tanti viaggiatori sei-settecenteschi, francesi, inglesi, tedeschi,
più volte ricordati dagli storici cittadini; fino alle guide italiane
e straniere dell'Ottocento dove non manca mai un esplicito riferimento
alla fama della mortadella, arricchito dalle sottolineature di un libro
di viaggi americano, ancora del 1953, dal titolo All the Best in Italy
che, dichiarando esplicitamente la superiorità gastronomica della
città per l'intera area centro-settentrionale, afferma essersi
qui inventato ben di più della “Bologna sausage”; ed
ancora al vero e proprio trionfo dell'Esposizione emiliana del 1888, quando
ai Giardini Margherita, accanto al ricchissimo padiglione approntato dalla
cioccolateria Majani, fu eretto una sorta di “tempio consacrato
al dio maiale”, per usare la sorridente metafora a rischio di devozione
blasfema, del “Giornale dell'Esposizione”. Che ne assegnava
il merito al “gran prete Bellentani di Modena”, coadiuvato
dal “sacro collegio sacerdotale di Bologna” (gli Zappoli,
i Romagnoli, i Forni tra gli altri). “Entro il tempio – si
spiegava tra arguzia ed orgogliosa seriosità – oltre al simulacro
dell'idolo, presentato al naturale in diversi tipi, sono esposte alla
venerazione dei fedeli tutte le varie, infinite sue trasfigurazioni, e
fra queste immane, smisurata, simbolica, tutta avvolta d'argento, riprodotta
le cento volte, l'universale mortadella”. Che proprio allora, per
altro, andava conoscendo una nuova stagione di successi internazionali,
grazie al metodo Forni di inscatolamento per fette sottili in confezioni
di latta sotto vuoto a lunga conservazione, facilmente esportabili nei
mercati più lontani.
“Grassa”, dunque, Bologna lo era sempre (e ancora il Baedeker
del 1886 così la definisce, aggiungendo “on vit bien à
Bologna”) e “grassa” “per l'opulenza sua, o meglio
per la fertilità della sue campagne” – come la descrive
Michelangelo Gualandi in una guida del 1850: quasi un destino naturale,
al quale le sue donne, per un verso, ed i suoi cuochi, sotto un altro
aspetto, non potevano non rispondere con la maestria delle loro combinazioni
e delle loro cotture.
Una corposità che Guido Piovene, nel suo straordinario Viaggio
in Italia dei primi anni Cinquanta, vede sostanziare la stessa fisionomia
architettonica e urbana della città, da lui definita, senza mezzi
termini, tra le più belle d'Italia e d'Europa. Spiegando che a
Bologna “i portici, gli archi, le cupole, tutto fa pensare a una
rotondità carnosa. Lo stesso dialetto, l'accento, sono abbondanti
e tondeggianti […] Molte bellezze di Bologna […] sono […]
avviluppat[e] e nascost[e] nelle sue pieghe prosperose. Il segreto del
ripieno in un piatto succulento. La bellezza a Bologna non si pensa, ma
si respira, si assorbe, si fa commestibile”.
Ma “grassa” anche fin dall'inizio della sua prosperità
medievale – come s'è detto – per la vocazione e la
facilità ai transiti, alle relazioni commerciali, alle aperture
verso mondi diversi, che proprio il suo essere “dotta” per
via accademica, rendevano inevitabili e che finivano per proporci una
cucina sensibile alle contaminazioni di produzioni e di elaborazioni provenienti
da altri luoghi, purché naturalmente in grado di arricchire le
nostre tavole distribuite a fine Trecento in 150 osterie e 50 alberghi.
Così incontriamo nel medioevo il grande consumo del vino di Creta
e della vernaccia dolce; o ci troviamo di fronte, in una delle novelle,
bolognesi di Sabbadino degli Arienti, scritte nel Quattrocento ma ambientate
a fine Trecento, un inaspettato cuoco tedesco operante nel convento di
San Procolo ed incaricato di preparare per l'abate ed i suoi ospiti un
paio di catini di lasagne “con un buono caso gratusato”; oppure
leggiamo in un ricettario secentesco del famoso cuoco bolognese Bartolomeo
Stefani la sua costante ricerca di prodotti, in particolare verdure, provenienti
da altre parti d'Italia, mentre la parallela esportazione di tipicità
bolognesi riguardava uva, olive (queste più volte magnificate dai
viaggiatori stranieri) e finocchi, definiti dall'agronomo Tanara, ancora
nel Seicento, “gloria degli agricoltori bolognesi”. Senza
dimenticare, da ultimo, di stupirci, ripercorrendo le sontuosità
dei banchetti rinascimentali e sei-settecenteschi, ripetuti in Bologna
in moltissime occasioni pubbliche, fatti di stupefacenti allegorie dove
il cibo, nel suo variopinto comporsi, era anche un pretesto per esprimere
significati festevoli, politici, araldici.
Tanto più che l'obiettivo da raggiungere nei sapori, secondo un'eredità
risalente all'epoca romana, era quello di combinare il più possibile
gli ingredienti per conseguire risultati di sintesi tra il dolce e l'agro,
vere e proprie invenzioni del gusto a base di spezie e di zuccheri sparsi
in ogni piatto, comunque lontani dalla semplice fruizione del prodotto,
così come offerto dalla natura. Un modo questo – sia detto
per inciso – di intendere l'abilità cuciniera per nulla confinato
a quei secoli di tavola, per così dire, barocca, se nel 1927, proprio
la Sms fra cuochi bolognesi, per celebrare il suo venticinquennale, offriva
una mostra di piatti che, con un uso scultoreo dei più svariati
ingredienti adatti all'esigenza illustrativa, rappresentavano, di volta
in volta, la Tavolozza di Raffaello (con pan di allodole, testine di allodole,
gelatine e allodole ripiene), o l'anatra montmorency con un pennuto sullo
sfondo le due torri, od ancora un Littoriale con la pista fatta di pasticcio
di fegato e il campo di torta dolce.
Inevitabile, quindi, per simili modalità di preparazione in tavola
che si ricorresse ai prodotti più diversi, magari privilegiando
proprio quelli più esotici, sì da aggiungere stupore a stupore.
Sarà solo, tra ultimo Settecento e l'Ottocento, fino alla codificazione
di Pellegrino Artusi nel 1891, che si elaborerà anche nel nostro
paese come nel resto d'Europa, una cucina dominata dalla vincente mediatas
borghese, con il suo ordine, la sua decorosa ma modesta semplicità,
il suo risparmioso ricorso ai prodotti della natura e dei mercati locali;
la sua, in definitiva, ricerca di omogeneizzazione tra cucina dei ricchi
e quella dei poveri, senza luccichii, ma pure senza sprechi, senza stravaganze
elaborative, ma pure senza carenze nutritive, dalla cui eliminazione si
sapeva bene sarebbe alla lunga dipeso il sostegno materiale della trasformazione
capitalistico-industriale in corso. Un processo che nel nostro paese si
andò a sommare e ad intersecare con la vicenda risorgimentale di
costruzione dell'unità nazionale da racchiudersi in un solo Stato,
composto da cento frammenti diversi, tra i quali trovare, appunto, un
sistema di composizione omogeneo anche, perché no?, nel gusto alimentare.
Ecco, allora, la riscoperta delle diverse tipicità produttive delle
varie città della penisola proposte in una loro precisa catalogazione
e nella loro più comune traduzione in piatti e menù, sì
da proporre un equilibrio tra centro e periferie, nella consapevolezza
che solo dando rilievo alle specificità locali le si potesse combinare
in una particolarità gastronomica nazionale , lontana dalla cucina
internazionale come da quella della pura naturalità delle varie
campagne regionali.
Cominceranno, così
via via quelle cartine geografiche, che tutti ricordiamo, dove ogni campanile
si segnalava per una propria attitudine alimentare e tutte insieme andavano
a comporre il nuovo gusto dell'Italia borghese in formazione. Fu, dunque,
facile, all'interno di una simile esigenza generale, ritrovare
a Bologna le antiche, sempre ribadite, abbondanze produttive del suo entroterra
e farne una nuova esemplare codificazione in proposte gastronomiche, dove
la tradizione veniva a patti con la sopraddetta esigenza di misura e ordine
borghesi, ben agganciata a menù facilmente rapportabili ai sapori
dei campi, degli orti, dei pollai, delle stalle del contado emiliano-romagnolo,
ritrovando per tal via le ragioni per poter continuare ad essere “grassa”
anche nelle mutate condizioni e ribadire antiche primazie. Tagliatelle,
lasagnette, tortellini, tortelloni, strichetti, costolette al prosciutto,
fritto misto, umido incassato, baccalà e frittata alla bolognese,
sfrappole, raviole, mistocchine, torta di riso, certosino, e altro ancora,
secondo la documentazione raccolta dal Touring Club in una Guida gastronomica
d'Italia , del 1931, per una sua lista di specialità a quel punto
universalmente riconosciute come tali. Su tutto nella loro esemplarità
le tagliatelle, in quanto davvero espressione di tale cucina bolognese
affondata nelle radici agricolo-produttive: queste (secondo una corretta
intuizione del Paglia nel suo Breviario della buona cucina bolognese ),
“riunendo insieme il meglio della stalla, del pollaio, dell'orto
e del campo, rappresentano la sintesi di quanto di più prelibato
produce la campagna emiliana, una sintesi equilibrata e perfetta”.
Per nulla semplice e lineare, dunque, la lunga vicenda della realtà
cuciniera bolognese, sempre comunque all'insegna di un'eccellenza trovata
nella scelta accurata dei prodotti utilizzati. E lo testimoniò
anche uno dei maestri della nostra gastronomia, quel Vittorio Zurla, conosciuto
ed ammirato ben oltre i nostri confini, il quale, interpellato da Paolo
Monelli per il suo volumetto Il Ghiottone errante , spiegò : “Non
ci sono segreti nella cucina, ci sono virtù e attenzioni che si
possono ricordare a chi voglia cucinare, ma non si insegnano. È
tutta una questione di sfumature; nella cottura, nel condimento, nelle
proporzioni. E di qualità nelle materie prime”. Qui in questa
ultima sottolineatura sta il nostro passato, sono certo che per una simile
strada troveremo anche il nostro futuro.
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