LUOGHI, FATTI E PERSONE

Vino a bicchiere? No, nì, si

Da anni, chi fa il nostro mestiere tenta di accrescere l'approccio al vino, anzi, ai vini, sia dal punto di vista alimentare sia come espressione culturale. Assai prima che iniziasse l'effluvio di trasmissioni televisive gastronomiche con seriosi chef che insegnano come cucinare il pollo coi peperoni, piuttosto che l'anatra all'arancia o l'uovo alla coque, coadiuvati da altrettanto seriosi sommelier che suggeriscono (spesso cervelloticamente) quale vino accostare, la carta stampata - quantomeno quella più sobria - molto più modestamente si adoperava per sfatare anzitutto la più errata delle credenze popolari: "mai mischiare i vini, fa male !".
A dire il vero non si è ancora del tutto riusciti. Molti, infatti, credono ancora a tale sciocchezza.
Oddio, anche i colleghi "scrivani" non sono esenti da colpe. A qualcuno di noi è scappata la… penna e invece di condurre il lettore passo per passo verso la conoscenza di Bacco spiegando con parole semplici le differenze tra un vitigno e l'altro, le diverse provenienze territoriali, le tecniche di vinificazione, gli affinamenti, ecc, ha iniziato a sproloquiare su sentori di "alghe di medio fondale" su profumi di "limetta", di retrogusti di "cuoio bagnato" o di "crosta di pane", di "tannini aggressivi", di "goudron", e via delirando. Risultato: consumatori divisi tra il disorientamento totale e patetici neo-sommelier che sbatacchiando nel calice un vinaccio orfano di padre e madre sciorinano termini orecchiati qua e là.
Sculacciate virtuali quindi per quei colleghi che hanno procurato simili danni; tuttavia, il problema dei sempre più modesti consumi di vino nella ristorazione rimane in tutta la sua evidenza. Lo hanno ammesso senza perifrasi durante la scorsa edizione del Salone del Vino di Torino anche qualificati rappresentanti dell'Associazione Italiana Sommelier di assistere a flessioni preoccupanti imputabili soprattutto al costo della bottiglia al tavolo che subisce ricarichi vampireschi tra il 200 e il 300%. Non bastasse, c'è stato il clamoroso outing riguardo questo andazzo del presidente del Consorzio Marchio Storico del Chianti Classico, Francesco Ricasoli, il quale stima che non raramente i ricarichi raggiungono persino il 500%. Raccontata dai telegiornali e dal Corriere della Sera tale esternazione ha suscitato nel consumatore-commensale un'ulteriore conferma persino superiore a quanto già immaginava.

Per ristoranti e trattorie è allarme rosso

Questa inquietante realtà coinvolge tutti gli attori della filiera e lo si è colto chiaramente anche tra i padiglioni dell'ultimo Vinitaly dove anche il Ministro delle Politiche Agricole Gianni Alemanno ha bacchettato ufficialmente sugli eccessivi ricarichi ma non ha speso una parola sulla riduzione dell'Iva in cantina e nella ristorazione. Intervento auspicato, ad esempio, dalle Città del Vino, che aiuterebbe a sforbiciare i prezzi.
Intanto, produttori, commercianti, ristoratori, enotecari, cantine sociali e private azzardano progetti e formule tese a frenare l'emorragia dei consumi di vino nella ristorazione; tuttavia l'attività più frequentata è di imbracciare uno contro l'altro quell'arma che gli italiani sanno maneggiare meglio: lo scaricabarile, colpevolizzandosi vicendevolmente. E a proposito di progetti ce né uno che ha già raccolto un centinaio di adesioni di ristoranti perlopiù subalpini chiamato "buta stupa", che tradotto dal dialetto piemontese significa bottiglia ritappata (c'è pure un sito internet www.butastupa.com). L'operazione, che ormai viene cavalcata anche da esercenti di altre Regioni, tende a favorire il commensale che non avendo consumato completamente la bottiglia ordinata le sarà resa opportunamente ritappata e confezionata in un grazioso sacchetto.
Anche le Donne del Vino hanno promosso una analoga iniziativa (ne abbiamo dato conto il 10 agosto in questa sezione) e l'hanno fatto con quel tocco di femminilità e di intrigante malizia insita nello slogan "..da finire con chi vuoi". Il progetto, che pare riscuota un buon interesse, è stato presentato alla scorsa edizione del MiWine.
Le iniziative non sono però precisamente nuove: altro non sono che la versione beverage del doggy bag in uso da decenni particolarmente in Usa e nei Paesi anglosassoni. Ossia del pacchetto degli avanzi delle pietanze non consumate al tavolo del ristorante che il cliente può portarsi a casa senza alcuna remora. Ecco, riflettendo forse uno dei problemi sottilmente psicologici sta proprio nel fatto che il commensale italiano è (generalmente) imbarazzato o, come dicono a Napoli, "si mette scuorno" ad ordinare un singolo bicchiere di vino come si vergogna a farsi incartare metà della fiorentina, l'ossobuco o parte della cernia avanzati da portarsi a casa. Il cosiddetto doggy bag è invece un normalissimo servizio della ristorazione estera dove nessuno si scandalizza. Di più: sovente non occorre neppure chiederlo, è il cameriere che lo suggerisce. Al cliente rifiutare o meno. Significa che siamo commensali immaturi? In fatto di scelte gastronomiche probabilmente no, diciamo però che un bel po' succubi delle convenzioni lo siamo in molti.
Ma torniamo al calo dei consumi; il prezzo che il commensale paga per la bottiglia di vino "obbligatoria" (la mezza bottiglia, salvo rare eccezioni, pare abbia residenza soltanto sugli Eurostar o sui voli a lungo raggio), è l'imputato numero uno. Il problema di raffreddare energicamente i prezzi è una necessità più che mai per coloro che, vinto il famoso pregiudizio di non mischiare i vini, gradirebbero ad esempio accompagnare un antipasto di pesce o di crudité con un sorso di un buon bianco secco, di proseguire con una pasta asciutta o un risotto sposandoli con il vino adeguato ai condimenti; e così vale per i secondi di carne o di pesce e magari per i formaggi e i dolci. Che fa il nostro commensale, si fa stappare una bottiglia per ogni portata? E poi, per pagare il conto accende un mutuo a tasso variabile?
Perché così stanno le cose. Ma non dappertutto, sulla scorta di ciò che fanno i wine bar (che sono ormai ristoranti a tutti gli effetti) qualche ristoratore comincia anche dalle nostre parti a proporre intelligentemente vino a bicchiere guadagnando rispettivamente in: simpatia, servizio, fidelizzazione, economicamente (per entrambe le parti), rotazione della cantina e, buon ultimo, favorendo lo sviluppo dei consumi.
Tornando all'oggetto di questa mia inchiestina, certo non esaustiva ma una sorta d'istantanea su uno spicchio della ristorazione nazionale, dal Nord al Sud, sentendo per ciascuna regione uno o due titolari/gestori, scegliendoli in modo davvero casuale tra stellati, "forchettati" e trattorie per capire qual è lo stato dell'arte in questo (apparentemente) trascurabile contesto. Verificare insomma se propongono, o quantomeno se servono a richiesta vino a bicchiere, oppure no. Come ho precisato, questa piccola indagine non ha quindi alcuna pretesa statistica, non è basata su un campione rappresentativo dell'universo della ristorazione pubblica: l'unico parametro è stato intervistare uno o due ristoranti per regione. Ecco stringatamente i risultati.
Parto dalla Valle d'Aosta; a una decina di km dal capoluogo, precisamente a Gignod (Ao), c'è lo storico romantico ristorante La Clusaz gestito da Maurizio Grange. "Niente vino a calice ma abbiamo parecchie mezze bottiglie di qualità in grado di soddisfare anche il singolo commensale. Solo occasionalmente, e se rimane qualche bottiglia aperta, serviamo a bicchiere". Scendo in Piemonte, precisamente nel Monferrato, alla Fioraia di Castello D'Annone (At) ristorante elegante con un bellissimo panorama. Vino a calice? "Volentieri a richiesta. Ovviamente non apriamo decine di bottiglie - spiega la patronesse Ornella Borgo - ma siamo in grado di accontentare la clientela". Chi scrive, ricorda un ristorante di Torino dove operava Piero Sattanino, primo italiano campione del mondo dei sommelier, dove già circa trent'anni fa serviva vini a bicchiere proposti su un pratico carrello contenente bottiglie adatte ai piatti in lista.
(Nota a proposito: a distanza di anni proprio in questi giorni ad Atene è stato proclamato come miglior sommelier del mondo un altro italiano, il milanese - di Paderno Dugnano - Enrico Bernardo che lavora al ristorante Le Cinq del Gorge V di Parigi).
Sempre in quel di Torino alla Barrique il carrello non c'è ma questo servizio non è disdegnato. Magari non è incoraggiato, tuttavia il personale di sala è disponibile a consigliare e a mescere il calice giusto in linea con il piatto scelto. A Genova, dal "mitico" Zeffirino il servizio di vino a calice c'è sempre stato, "Tuttavia - dice il maître - ultimamente a causa dei costi dobbiamo ammettere che questa tendenza di consumo si è amplificata notevolmente". Al San Giorgio di Cervo (Im) sono lapidari: vino a calice?. Proprio no, grazie.
A Brescia, come in gran parte delle Lombardia è il pesce il piatto più ordinato. Vale anche per il Canton del Vescovo che ha sede in un bel palazzo storico. Qui il vino a bicchiere è da sempre proposto e gradito. Specialmente negli ultimi tempi. La cucina del ristorante Montalcino a Milano non ha bisogno di spiegazioni, non potrebbe essere che quella tipica del Senese. La cura del servizio eccelle nel saper accostare perfettamente i vini al cibo. Va ovviamente da sè che il servizio al calice è normalissimo.
Risalgo lo Stivale per andare in Trentino Alto Adige prima di spostarmi nel Triveneto e ridiscendere in Emilia Romagna e poi più giù. Quindi, a Bolzano a due passi dalla graziosa piazza delle Erbe c'è l'antico ristorante Vögele che nelle serate invernali, pur restando ristorante a tutti gli effetti, diventa un animatissimo wine bar. Cantina ampia e articolata con prevalenza di etichette atesine. Vino a calice per tutti unitamente a dosi massicce di musica e cordialità. San Michele all'Adige (Tn) è sede di uno dei più qualificati istituti enologici nazionali. Per studenti, docenti, turisti e buongustai il ristorante è Pino. Scontato il fatto che si serva vino a calice. E' scritto persino sui menu!
Sconcertante, per certi versi, la risposta ottenuta a Padova dal personale dell'Antico Brolo. "Noi siamo un ristorante quindi a tavola niente calicini".Fiore a Venezia si affaccia sul Canal Grande, molto noto anche tra i turisti provenienti da ogni dove. A tavola pressoché obbligatoria la bottiglia, insistendo parecchio forse un solo bicchiere lo servono. Magari per il dessert.
Non proprio volentieri, tuttavia a richiesta si può avere del vino a calice al Bagatto di Trieste, ristorante di pesce ben quotato. Normale invece la mescita a calice in quel di Cormons (Go) al ristorante Cacciatore della Subida in posizione splendida nel cuore del Collio.
Nella dotta e grassa Bologna ecco una delle poche autentiche trattorie familiari sopravissute, la Gigina. Tante bottiglie, tanto sfuso "della casa" il solo consumabile a calice. Dalla trattoria casalinga ad un autentico "tempio" della gastronomia dove officia Filippo Chiappini Dattilo. Sono a Piacenza, il locale è l'Antica Osteria del Teatro. Bicchieri, anzi bicchierini ma solo per vini da dessert altrimenti tante ottime bottiglie.
Vino a mescita? Che domanda, certamente si al Coco Lezzone di Firenze, "trattoriaccia" - detto in termini positivi - ritrovo di studenti (sempre meno per via della lievitazione dei prezzi) e allegre brigate. Il sommelier del Ninan, sofisticato ristorante di Carrara che vanta una cantina ricca di oltre 500 vini non favorisce i consumi a mescita, tuttavia a richiesta uno strappo lo fa. "Certo che si - dicono alla Rusticanalla di Jesi - per noi la mescita a bicchiere è cosa normale". Chiamandosi Bacco Felice, graziosa trattoria di Foligno, la piena disponibilità di servizio è d'obbligo. Vino a calice certamente, in particolare quello delle varie aziende produttrici di Sagrantino. Al ristorante Veranda del raffinato hotel Maga Circe di San Felice Circeo (Lt) il vino a bicchiere lo servono, ma solo agli ospiti stranieri perché "loro sono abituati così. Gli italiani, che sono la maggior parte dei nostri ospiti, non si sognerebbero mai di non ordinare una bottiglia!". Da Toto alle Carrozze tipico ristorante situato nel centro di Roma, il servizio di vino a calice è consolidata consuetudine. Alla trattoria tradizionale Matriciana dell'Aquila, che più tradizionale non si può, con la succulenta coratella d'agnello si può ordinare un "quartino" di vino locale sfuso. Essendo la Cantina del Porto di Termoli (Cb), oltre che un elegante ristorante anche una ben fornita enoteca, nessun problema a tavola per avere una corretta successione di vini a calice associati al piatto. Solo vini in bottiglia senza discussione vengono serviti da Zia Carmela a Montella (Av). Tutto il contrario di ciò che succede a Napoli da Rosolino, elegante ristorante sul mare dove il vino a calice viene servito, specie in questo periodo, normalmente. Francesco Vincenti titolare della Pignata di Bari è esplicito, "vino a calice a richiesta, ma sovente siamo noi stessi ad offrirlo gratuitamente a qualcuno che beve solo …acqua". Al Novecento di Melfi (Pz) sono assolutamente in linea col nome che portano. Quindi vino a calice: naturalmente si. Espliciti al London Bistrò di Reggio Calabria. "Ai nostri tavoli comanda il cliente anche per il vino, bottiglie intere, mezze bottiglie o solo un calice. Sceglie lui". Al ristorante Mandarini di Palermo inserito in un romantico giardino di agrumi il servizio di vino a calice esiste seppure limitatamente a vini locali. Più o meno lo stesso discorso vale, a Cagliari, per il simpatico ristorante del centro storico Buongustaio dove servono sì vino a calice, ma solo quello sfuso della casa o come dicono da quelle parti, il vino della "proprietà".
Il mio giro d'Italia alla scoperta del calice si, calice no, è concluso. Ricordo che si è trattato di una semplice istantanea su uno spicchio della ristorazione nazionale. Tuttavia, una considerazione si può trarre: se prima dei pesanti cali dei consumi la ristorazione tendeva a non fare concessioni sul servizio dei vini (in altri termini c'era l'implicita obbligatorietà di ordinare bottiglie intere) ultimamente, magari obtorto collo, la musica sta cambiando.

Giuseppe Cremonesi


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