|
FATTI E
PERSONE
Il Manifesto della Cucina Nazionale Italiana
Martino Ragusa, noto gastronomo controcorrente, giornalista,
scrittore e umorista dopo 15 anni di professione medica, lancia il suo
decalogo, una proposta per dare una precisa identità alla cucina
italiana e per la quale conta di avere non solo consensi ma anche contributi
e osservazioni.
1. LA CUCINA NAZIONALE ITALIANA NON ESISTE.
Non esiste una cucina nazionale Italiana. Ce ne possiamo rendere conto
con una semplice associazione di idee: se pensiamo all’Emilia viene
in mente la cucina del burro e della carne. Ma se pensiamo alla Liguria,
anch’essa regione del nord e addirittura confinante con l’Emilia,
viene in mente la cucina dell’olio, del pesce e delle verdure. Cucina
continentale e cucina mediterranea, dunque, si incontrano nello stesso
ambito del nord Italia. Ma è difficile parlare anche di una cucina
regionale. Restando in Emilia-Romagna, basta varcare il fiume Sillaro
per passare da una cucina emiliana del burro, del maiale e delle lunghe
cotture in umido, alla cucina romagnola dell’olio d’oliva,
del pesce, del castrato e della brace. In Lombardia non accadrà
mai che un mantovano avvezzo ai piatti della bassa padana e della cucina
gonzaghesca senta come propria la cucina d’alta montagna dell’arco
alpino. Le Marche, poi, sono una vera e propria confederazione gastronomica:
a nord sono influenzate dalla Romagna, a sud dall’Abruzzo a ovest
da Umbria, Toscana e Lazio e a est dal mare, mentre solo nel centro (che
corrisponde al territorio di Macerata) si trova quella
che viene indicata come la più autentica cucina marchigiana. Questi
sono solo alcuni esempi che dimostrano quanto dubbia sia la stessa definizione
di cucina regionale. Oltre alle 20 regioni ufficiali, poi, ci sono le
tante microregioni italianefiere della loro identità gastronomica
ma difficilmente collocabili all’interno di una singola regione.
La Lunigiana, per esempio, è allo stesso tempo Liguria, Emilia
e Toscana, come dire che è tutte e tre e nessuna delle tre. Lo
stesso si può dire per il Montefeltro, la Garfagnana, il Sannio
e tanti altri territori a cavallo di due o più regioni dalle quali
traggono tradizioni gastronomiche per farle convivere o per ibridarle.
Infine ci sono territori interni a un’unica regione che vantano
una gastronomia talmente peculiare da non potersi indentificare tout-court
con quella della regione di appartenenza, come la Valtellina in Lombardia,
il Salento in Puglia, la Carnia in Friuli, le Langhe in Piemonte. Insomma,
l’Italia dei cento comuni e dei mille campanili è una Torre
di Babele gastronomica con una cucina capace di mutare aspetto a ogni
dozzina di chilometri. Una situazione estremamente stimolante per viaggiatori,
studiosi e buongustai, ma poco incoraggiante se si tratta di definire
cosa sia la cucina italiana.
Al momento, forse, l’unica definizione in grado di descrivere come
stanno le cose e capace di dimostrare la non contraddittorietà
del definito è quella di “Cucina locale italiana”.
Se per noi italiani è difficile pensare a una cucina nazionale
italiana unitaria, non è così per gli stranieri che invece
sembrano avere le idee molto chiare sulla nostra identità gastronomica.
Per loro le icone del mangiare all’italiana sono più o meno:
pizza, maccheroni, spaghetti, ravioli, salame, parmigiano, risotto, chianti,
espresso e cappuccino. Ma vanno ricordati anche gli “spaghetti alla
bolognese”, un piatto-fenomeno sul quale vale la pena soffermarsi.
Noi italiani gli spaghetti li mangiamo con tanti condimenti, ma non certo
con il ragù alla bolognese, con il quale preferiamo una pasta all’uovo
possibilmente fresca come le tagliatelle. All’estero e nei ristoranti
turistici italiani, invece, prosperano gli spaghetti alla bolognese, un
piatto-simbolo inventato per i turisti con la collaborazione di alcuni
ristoratori delle città italiane più battute dal turismo
di massa. Grazie a internet è possibile sbirciare in casa d’altri
per farci un’idea di come gli stranieri vedono noi italiani e, nella
fattispecie, la nostra cucina. A questo innocente spionaggio si presta
molto bene il sito anglofono www.videojug.com, un grosso portale di successo
specializzato soprattutto in video-ricette di cucina. Basta cliccare su
“How to make Spaghetti Bolognaise”
(http://www.videojug.com/film/how-to-make-spaghetti-bolognese
) per rimanere allibiti: fra le tante stranezze, il ragù viene
cotto nel forno e aromatizzato con un imprevedibile origano, il piatto
pronto viene poi finito con una generosa manciata di parmigiano grattugiato
e… una cascata di prezzemolo crudo.
Possiamo storcere il naso, ma dobbiamo renderci conto che gli “Spaghetti
Bolognaise” sono un sincretismo tra due forti simboli della cucina
italiana: gli spaghetti, che non hanno bisogno di commenti, e la città
di Bologna, universalmente nota come “città dove si mangia
bene” e considerata quasi la patria della cucina italiana. Anche
quello dell’origano è un sapore-simbolo per via della pizza,
e agli stranieri importa questo, non controllare se in Italia lo mettiamo
nell’insalata di pomodori piuttosto che nel ragù. Anch’esso
è come un piccolo tricolore e come tale può essere piazzato
su qualsiasi piatto italiano. Il successo degli spaghetti alla bolognese
all’estero, comunque, è straordinario. Soprattutto nella
versione “in scatola”. Una recente ricerca del quotidiano
“La Repubblica” ci informa che gli inglesi ne consumano 670
milioni di scatole all’anno, come dire che perben due volte alla
settimana ogni inglese è convinto di mangiare italiano aprendo
una di
quelle scatole e magari accompagnandola con un cappuccino. Abbiamo tutto
il diritto di rimanere perplessi. Ma anche il dovere di domandarci se
non sia un po’ colpa di noi italiani che non abbiamo saputo fare
una comunicazione efficace sulla nostra vera cucina nazionale.
Anche da fenomeni come questo, comunque, possiamo imparare. L’anonimo
chef straniero ha sbagliato il risultato, che non risponde al vero gusto
italiano, ma è stato corretto nel metodo: riunire in un unico piatto
sapori-simbolo italiani, dal ragù alla bolognese del nostro settentrione
agli spaghetti che evocano Napoli, con la partecipazione dell’immancabile
parmigiano e la partecipazione straordinaria del meridionalissimo origano.
E’ legittimo immaginare che se al posto dell’anonimo chef
d’oltralpe, inventore degli spaghetti alla bolognese si fosse impegnato
in questo senso e con lo stesso metodo uno chef italiano, forse oggi potremmo
essere noi a proporre un piatto-simbolo al resto del mondo. Non è
impossibile. Una cosa simile è successa negli anni sessanta quando
Giuseppe Cipriani inventò il Carpaccio, ormai conosciutissimo all’estero.
Più di recente, Gualtiero Marchesi con il suo Raviolo Aperto ha
dato un altro magnifico esempio da seguire.
2. GASTRONOMIA DOMESTICA.
Per la verità molti nostri chef si sono messi già al lavoro,
più o meno consapevolmente, per scrivere il ricettario della cucina
nazionale italiana (e non si tratta della “ nuova cucina italiana”),
che potrà convivere in tutta serenità con la cucina tradizionale,
viste le differenze che emergeranno anche da questo scritto. La cucina
nazionale che si va delineando è soprattutto ecumenica, caratterizzata
dall’incontro di prodotti di ogni parte d’Italia; è
quindi molto più agile di quella locale ma mantiene la ricerca
entro i limiti di un’italianità sempre riconoscibile, evitando
di porsi in posizione di rottura rispetto alla tradizione e lasciando
alla cucina di pura ricerca le audacie di modello spagnolo. Nel loro lavoro
di rinnovamento e ri-costituzione, però, i nostri chef sono lasciati
soli con la loro creatività e il loro buon senso. Non dispongono
di un’autorità super partes che possa soccorrerli con linee
guida, come avviene per esempio in Francia dove l’identità
della cucina è da sempre una seria questione di Stato. Questo non
vuol dire che manchino di un solido punto di riferimento che c’è
ed è molto più severo di una congrega di dotti accademici.
C’è, ma non è esterno, perché è quanto
hanno interiorizzato della cucina delle loro mamme, nonne e zie. Non importa
poi quanto i ricordi siano autentici o idealizzati, veri o falsi. Sappiamo
bene che la realtà soggettiva-interiore non coincide mai esattamente
con quella oggettiva-esteriore, ma è quello che riesce a rimanere
una volta che sono trascorsi gli eventi reali. Ed è in grado di
insediarsi nella mente anche per tutta la vita, nel caso quell’esperienza
meritasse di diventare costitutiva della personalità. Nel caso
di chi fa della cucina il proprio lavoro, abbiamo ragione di ritenere
che le esperienze di gastronomia domestica dell’infanzia si integrino
in modo costitutivo a formare il Super-Io professionale del cuoco. Sono
proprio tali esperienze a costituire quell’accademia interiore in
grado di fornire linee guida e alla quale rendere conto.
Come avviene sempre in tutte le vicende riconducibili al Complesso di
Edipo, i guai cominciano nel momento dell’emancipazione e dell’autoaffermazione.
L’atteggiamento emotivo del figlio in evoluzione è necessariamente
ambivalente: non può odiare e uccidere il genitore senza, allo
stesso tempo, amarlo e desiderare di tenerlo in vita più di ogni
altra cosa. Non può proporre il nuovo senza affrontare il vecchio
per distruggerlo. Ma deve anche incontrare amorevolmente quel vecchio,
soccorrerlo salvarlo e conservarlo. Tutto questo è irrazionale,
ma non per il meccanismo psicologico dell’ambivalenza affettiva:
in Italia, dunque, la cucina è una madre generosa e autorevole.
E ciò è talmente vero che, laddove le tradizioni di gastronomia
domestica e il mammismo sono meno potenti, gli chef nascono già
orfani, emancipati e liberi di lavorare alla
costruzione della loro identità senza troppi controlli interiori.
In questi casi, il prezzo da pagare per l’affermazione di tale identità
è, però, molto più alto, mancando quella censura
interna che è molto più severa ed efficace della critica
esterna. Per tutto ciò lo chef creativo italiano è condannato
(ma forse piacevolmente) a camminare su un filo, sospeso tra tradizione
e innovazione: crea, inventa, osa, ma poi, inesorabilmente, arriva per
lui il momento più temuto, quello del confronto con la sublime
semplicità di un risotto con lo zafferano, con l’equilibrio
insuperabile di un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico. E deve
poterlo reggere. Ho visto tanti celebrity-chef d’avanguardia cenare
con un piatto di pasta al sugo alla fine del loro lavoro, proprio come
quando erano figli di famiglia, con una madre che proponeva e imponeva
la sua cucina. Quasi fosse un rito riparatore della trasgressione appena
compiuta, una riconciliazione con la madre-cuoca interiorizzata, un rifornimento
di energia affettiva per il successivo slancio creativo.
3. LA NUOVA CUCINA NAZIONALE È NEO-TRADIZIONALE
E GLOCALE.
Procedendo come i funamboli sul filo dell’ambivalenza, i cuochi
italiani hanno individuato la strada della rivisitazione dei piatti tradizionali
con la sperimentazione di nuovi accostamenti mai tentati tra i prodotti
di luoghi italiani anche molto lontani tra loro. L’operazione si
iscrive nella recente “scoperta del territorio” che ha portato
alla conoscenza, valorizzazione e circolazione per tutta Italia dei nostri
innumerevoli prodotti di nicchia. Ne è conseguita un’espansione
mentale e pragmatica del territorio che dalla dimensione locale si è
espanso fino a quella nazionale. Il prodotto locale ha cominciato a circolare
e ad essere conosciuto, usato e apprezzato lontano dal luogo di origine,
è diventato globale o “glocal” (secondo la definizione
di Russel Robertson). Occorre però specificare che in questo caso
si tratta di una miniglobalizzazione perché il “globale”
cui mi riferisco è delimitato dai confini nazionali con solo qualche
concessione molto ragionata al vero esotismo, inteso sia in termini di
prodotti, che di procedure e concezioni del pasto.
Come si diceva, raramente l’innovazione è proposta come alternativa
distruttiva della tradizione. Si tratta piuttosto di riletture sprovincializzate
delle ricette locali, capaci di convivere con queste come con la cucina
di pura ricerca, e con nessuno che possa giustificatamene gridare all’iconoclastia.
Almeno questo è quanto ho potuto constatare di persona durante
un viaggio di due anni netti attraverso i ristoranti di tutta Italia.
I piatti che vorrei costituissero la cucina nazionale italiana li ho già
incontrati e assaggiati in tutta Italia. Sono piatti neo-tradizionali,
caratterizzati da una ricerca a trecentosessanta gradi ma mai estrema,
su prodotti, accostamenti, metodi di cottura nuovi e tradizionalidimenticati
e criticamente rivisitati. Per esempio, i cuochi meridionali ormai usano
molto volentieri la pasta fresca all’uovo e quella ripiena di tradizione
settentrionale, il riso di nicchia, l’aceto balsamico tradizionale
di Moderna e Reggio Emilia, il Parmigiano Reggiano Stravecchio, il Bitto
e il Castemagno. Ovviamente questi prodotti vengono coniugati con non
poco lavoro di ricerca a quanto offre il sud. Allo stesso modo, i loro
colleghi del nord hanno cominciato a usare la pasta di grano duro artigianale,
caciocavalli, bottarghe di muggine e di tonno, i ricci di mare, gli oli
dei frantoi a sud di Napoli e il sale delle saline trapanesi. Anche i
metodi e gli strumenti di cottura sono entrati virtuosamente in un circuito
di scambio: al sud sono state scoperte le virtù della pietra ollare,
al nord le cotture lentissime in olio extravergine di oliva. E così
via, lungo una linea vincente perché è aderente al gusto
italiano, è attenta più alla bontà delle materie
prime che alla complessità delle procedure e finalmente vede lo
chef calato nel ruolo di gastronomo.
4. DOPO ARTUSI.
I cuochi italiani più o meno consapevolmente impegnati in questo
nuovo Risorgimento sembrano riprendere, con i fatti, l’opera di
Pellegrino Artusi, che nel suo celeberrimo “Scienza in cucina e
l’arte di mangiar bene” del 1891 realizzò la prima
sintesi della cucina italiana. L’”Artusi” è un
vero e proprio tentativo di formulazione di una cucina nazionale fondata
sullo scambio interregionale senza il sacrificio delle identità
locali. Proprio quello che noi auspichiamo adesso, riprendendo il discorso
là dove si era interrotto con l’intento di renderlo il più
possibile completo e di colmarne le tante lacune. l’Italia unitaria
rappresentata dalle ricette di Artusi, infatti, è pesantemente
parziale: ha per epicentro un triangolo tosco-emiliano-romagnolo i cui
vertici sono Bologna, Firenze e Forlimpopoli e si estende solo alle città
che il gastronomo romagnolo conobbe viaggiando in diligenza o con il treno.
A nord fino a Trieste e Torino, a sud fino a Napoli. Nel libro non figurano
ricette di Marche, Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, né
vengono citate tali regioni. E’
un’Italia con un sud che si ferma a Napoli, con l’eccezione
della Sicilia che compare con tre piatti. E’ chiaro che bisogna
completarla.
5. IL CUOCO BRICOLEUR.
Un cuoco come quello finora descritto incarna la figura del bricoleur
di Claude Lévi-Strauss, che lavora per trasformare l’esistente
per riorganizzarlo senza distruggerlo, figuradallo stesso Lévi-Strauss
contrapposta a quella dell’ingegnere che guarda subito avanti e
punta direttamente all’innovazione sulla base di un progetto studiato
a tavolino. Il bricoleur, per prima cosa si guarda intorno e indietro,
si concentra su quello che vede e incontra. Studia il suo uso originario
e immagina un uso nuovo e magari impertinente, cioè non-pertinente
all’uso consueto, lavora sull’ esistente e sul già
fatto, per riproporlo diverso e migliorato in un’ottica squisitamente
evoluzionista. Ma non sa già esattamente cosa produrrà;
può intuirlo, cercare di prevedere gli effetti, immaginare un possibile
risultato. Ma in pratica sperimenta al momento. I cuochi italiani, ai
quali mi sono finora riferito, incarnano l’immagine del bricoleur
di Levi- Strauss. Osservano, raccolgono, assemblano, sperimentano e infine
investono sui loro risultati con una buona quota di rischio personale.
Il cuoco-bricoleur assomiglia molto alle madri di famiglia che soprattutto
nel nostro passato si adoperavano per far quadrare il conto dei pasti
quotidiani. La differenza è che nel loro caso il bricolage era
dettato più dalla necessità che dalla volontà di
sperimentazione e di reinvenzione. Le cucine povere, le cucine di guerra
e di sopravvivenza sono sempre state laboratori di ricerca nelle quali
l’attività di bricolage era intensissima, perché unendo
un ingrediente insolito a uno monotono se ne ricavava un piatto finalmente
nuovo e più gradito. Si pensi ai tanti condimenti che hanno variato
in mille modi la solita polenta dei contadini del nord Italia. O, nel
sud, l’imitazione dell’alimentazione ricca, con la sostituizione
di un ingrediente costoso con un equivalente povero. Per esempio, le “Sarde
a Beccafico” siciliane che imitano nella forma i pregiati uccelli
una volta esclusivi delle mense aristocratiche.
Oggi le motivazioni della ricerca sono cambiate, non sono più economiche
ma attengono alla voglia di sperimentare e inventare. Il campo di ricerca
di oggetti idonei al bricolage, poi, si è esteso moltissimo: parte
dalla cucina, dall’orto o dal mercato sotto casa e arriva ad abbracciare
tutto il mondo. Ma è sempre bricolage, esattamente come quello
di un tempo che ha inventato la nostra attuale tradizione; anche se oggi
bisogna fare i conti con un rischio in più: godere, infatti, delle
citate numerosissime nuove possibilità può indurre il cuoco
bricoleur a correre più che mai il rischio dell’assemblaggio
disarmonico. Perciò deve paradossalmente lavorare ancora d più
per acuire in modo deciso la sua sensibilità, perché con
il moltiplicarsi degli ingredienti si è moltiplicato anche il pericolo
dell’accozzaglia. In questo caso può soccorrere un metafora
musicale e potremmo parlare di cuoco-direttore d’orchestra dotato
di un buo orecchio e capace di puntare alla sinfonia sapendo riconoscere
le cacofonie nel piatto Ad ogni buon conto, è proprio da questo
lavoro di bricolage intenso che può nascere la cucina nazionale
italiana. Tutto sta all’abilità del cuoco bricoleur che deve
saper trovare i prodotti italiani giusti e saperli unire con opportune
procedure preferibilmente di tradizione nostrana, filologica o rivisitata,
ri-destinandoli a strutture finali sprovincializzate e riconoscibili come
italiane dalla sensibilità collettiva. Trattandosi di cucina e
per esigenza di onestà intellettuale non possiamo qui ignorare,
perché sono parecchi e alcuni anche bravissimi, i “cuochi-ingegneri”,
quelli cioè che, per richiamare Levi-Strass, puntano direttamente
all’innovazione. A differenza del bricoleur si prefiggono un risultato
preciso, cercano la scoperta pianificandola “a priori”. Agiscono
con un metodo squisitamente scientifico: sulla base di un progetto, applicando
alla cucina principi e metodi della fisica, della chimica e di altre scienze
esatte. Basta pensare alla cucina molecolare o all’uso di tecnologie
e strumenti sempre più nuovi e sofisticati volti alla trasformazione
di consistenze e colori. Le materie prime vengono trattate come mai lo
sono state in passato: lo stoccafisso diventa un gelato, la verza una
candida spuma, le ortiche diventano materia prima per l’estrazione
della clorofilla che andrà a colorare nuove consistenze. Ben vengano
perché la ricerca è sempre la benvenuta, ma non sono loro
che mi vengono in mente quando penso a una cucina nazionale italiana.
6. UNA CUCINA SANA
Ormai si conosce molto degli effetti degli alimenti sulla salute. Pur
senza medicalizzare la tavola, è irrinunciabile perseguire il principio
di una cucina che sia apportatrice di salute non un pericolo per essa.
La rivisitazione della tradizione è un’ottima occasione per
alleggerire i piatti là dove ce ne fosse bisogno. In Italia abbiamo
la fortuna di avere dalla nostra parte abitudini alimentari, prodotti
giusti e clima. La cucina nazionale italiana deve saper trasmettere un
messaggio preciso di salubrità.
7. ESOTISMI
Esattamente come fa l’odierno, anche l’antico bricoleur si
è dovuto cimentare con nuovi ingredienti. La patata, il mais, il
pomodoro, il peperone, il peperoncino e prima ancora il riso, la melanzana,
gli agrumi e tanti altri cibi e condimenti erano esotici come oggi lo
sono l’igname e il litchi. Tutti questi prodotti dimostrano quanto
sia possibile l’assimilazione e la naturalizzazione, visto che sono
diventati pilastri della nostra tradizione. Oggi il cuoco bricoleur dispone
del mondo intero, sta a lui individuare quale ingrediente benché
esotico, sarà capace di ben figurare in un piatto italiano e acclimatarsi
nella nostra cucina. Per esempio, nella sua opera di bricolage potrà
decidere di accostare la salsa d soia al pesce. Mentre nello stesso momento,
dall’altra parte del mondo, un suo collega giapponese compirà
la stessa operazione abbinando al medesimo pesce il nostro aceto balsamico
tradizionale di Modena e Reggio. Chi avrà fatto il bricolage migliore?
Come al solito sarà quel galantuomo del tempo a giudicare. Perché
si può fare di tutto, ma non si può decidere per quanto
tempo quel “tutto” che si è fatto riuscirà a
sopravvivere. L’Italia è talmente generosa di prodotti d’eccellenza
che vale la pena riflettere bene prim di usarne uno esotico che magari
ha già un equivalente nostrano di qualità mille volt superiore.
E non solo perché c’è il pericolo reale che il nuovo
scacci il vecchio (così successo al miglio soppiantato dal mais
nella polenta, alla rapa sostituita dalla patata ecc ma perché
è molto probabile che quel piatto in breve tempo sarà tranquillament
dimenticato vanificando il lavoro di ricerca. Oltre alla sua intrinseca
bontà, la prima qualità che deve avere un prodotto esotico
è quella di non essere un succedaneo di un prodotto nostrano migliore:
ozioso, quindi, usare la curcuma per colorare di giallo i cibi quando
abbiamo lo zafferano purissimo dell’Aquila molto, ma molto più
pregiato; la seconda è che sia almeno vagamente compatibile con
ilgusto italiano, quindi che abbia un minimo di possibilità di
carriera nella nostra cucina. A questo proposito non va dimenticato che
l’Italia non ha un passato coloniale e la nostr cucina tradizionale
ha meno familiarità con i prodotti esotici di quanto ne abbiano
Francia,
Inghilterra e Spagna.
8. IL PRANZO ALL’ITALIANA.
Il pranzo all’italiana, con primo e secondo come portate principali
ed eventuali antipasto dessert, nei ristoranti è affiancato sempre
più spesso dal menu-degustazione composto da numerosi, piccoli
assaggi. La cucina nazionale italiana non può riconoscersi in una
degustazione che annulla l’ordine
delle portate e la loro importanza, che cancella le differenze tra dolce
e salato “ex abrupto”, come se fosse veramente una novità
senza tenere conto della lunga tradizione italiana in fatto di preparazioni
in dolceforte e in agrodolce. Finger food, snack, tapas, morphings, ecc.
hanno tutto il diritto di farsi apprezzare e degustare, ma non si può
predicarli come sostituivi del pasto all’Italiana. Va comunque tenuto
conto dell’evoluzione delle abitudini. E ben venga una struttura
del pasto come quella che ormai si va sempre più affermando e che
vede come tratto principale la restaurazione dell’antipasto, l’ex
grande assente della cucina italiana, a parte il Piemonte. L’antipasto
è ormai da considerare una portata principale, è il biglietto
da visita dello chef e sua piccola, gradita fiera delle vanità.
Viene sempre più proposto “d’ufficio” in numerose
piccole porzioni che assomigliano a un mini-menù degustazione,
senza però la pretesa di proporsi come pasto esaustivo.
E’ chiaro che un antipasto così concepito non ha niente a
che vedere con il vecchio “antipasto all’italiana” di
salumi nazionali. Gli insaccati compaiono, ma solo quelli di nicchia (anche
di pesce) accostati a piccole specialità da forno e spesso “interpretati”
in cucina con creme di formaggi locali, polentine, verdure, frutta. Molti
assaggi sono ex secondi accorpati negli antipasti dopo l’inevitabile
riduzione delle porzioni. Un antipasto così strutturato dà
di solito la possibilità di accedere a un’altra sola portata
principale o un primo o un secondo. Si spera un primo, visto l’attaccamento
degli italiani alla pasta, e visto che i secondi sono già stati
citati nell’antipasto. Di solito segue il
Dessert Questa è una formula ancora aderente al pasto italiano,
del quale è un’evoluzione e può
essere alternativa al pranzo tradizionale.
9. LE DENOMINAZIONI DEI PIATTI.
I piatti italiani godono sempre più di lunghe denominazioni descrittive.
I vantaggi sono quelli dell’informazione puntigliosa al cliente
su ciò che mangerà. Ma non mancano gli svantaggi, a cominciare
dall’impossibilità di memorizzare una denominazione così
lunga. Con due conseguenze: l’impossibilità di chiedere una
seconda volta quello stesso piatto la difficoltà di accesso di
quella preparazione in un repertorio condiviso. La cucina diventa qualcosa
di effimero, di legato all’esperienza di una sola volta e non può
più essere riproposta da altri, né storicizzata. E questo
mi sembra un danno gravissimo Probabilmente il Carpaccio, piatto d’autore
e stabilmente insediato tra le ricette italiane da qualche decennio, non
avrebbe avuto la medesima fortuna se avesse avuto un lung nome descrittivo
al posto di quello che ha: sintetico e altamente evocativo di italianità.
Pesante anche la cancellazione proditoria delle denominazioni tradizionali
a vantaggio dinuovi e articolati nomi-descrizioni: per esempio, i tortellini
che in caso estremo diventano: Piccoli fagottini di sfoglia gialla sottile
ripieni alla moda della bassa emiliana La soluzione di buon senso sembra
quella di lasciare in pace le denominazioni tradizionali e individuare
nomi o creare neologismi sintetici per i nuovi piatti – come nel
caso del Carpaccio – magari accompagnati da un sottotitolo che a
quel punto può essere lungo quanto si vuole.
10. IL GUSTO ITALIANO
L’ultimo paragrafo riguarda un argomento sfuggente e ineffabile.
Come si può definire il gusto italiano? E prima ancora, come si
può definire il gusto? Di certo non è solo quanto attiene
alle papille gustative e alle aree del cervello deputate a elaborare le
afferenze sensoriali in arrivo da queste. Il gusto, sia quello personale
che quello collettivo, è il punto di arrivo momentaneo - perché
in continua evoluzione nel tempo e nello spazio – di una cultura
comune, di percorsi antropologici, di situazioni geografiche, di vicende
storiche, di condizioni socioeconomiche, di immigrazioni più o
meno permanenti e di temporanee emigrazioni turistiche. E poi di una serie
di esperienze socialmente condivise determinate da tradizioni, abitudini,
necessità, mode, emozioni, preferenze, ritualità, religioni.
Così definito, il concetto di gusto risulta assai utile al nostro
ambizioso progett di definire una “cucina nazionale unitaria”;
le due parole “cucina italiana” hanno, infatti, un alt potenziale
simbolico, emotivo, evocativo e sono idonee a generare associazioni di
idee immediate ma che spesso conducono a specialità locali (pizza
napoletana, lasagne emiliane, fiorentina, cassata siciliana, risotto alla
milanese): è l’ennesima prova che le cucine italiane sono
tante; ma le differenze forse sono meno di quanto noi italiani - gastronomicamente
contradaioli- ne possiamo percepire. In verità, a sottendere tutte
le cucine locali c’è un denominatore comune esteso dalla
catena alpina fino a Lampedusa. E’ l’atteggiamento italiano
verso il cibo. O, se vogliamo, il “Gusto Italiano” Per esempio:
nelle case di Lampedusa e di Aosta si mangeranno cibi diversi, ma l’atteggiamento
del cuciniere di Aosta nei confronti della pasta sarà molto più
simile a quello del cuciniere lampedusano, distante duemila chilometri,
rispetto all’atteggiamento del cuciniere francese che sta cucinando
a un tiro di schioppo. Entrambi, l’aostano e il lampedusano, porranno
una speciale cura nella scelta del tipo di pasta (secca, o fresca o all’uovo)
e del formato da abbinare al sugo, la considereranno come piatto a se
stante enon un contorno, ci berranno sopra preferibilmente il vino e soprattutto
staranno entrambi molto, molto attenti ai tempi di cottura.
Proverò a sintetizzare in 12 punti
i possibili tratti costituitivi del gusto nazionale italiano:
1. La centralità della pasta.
2. La centralità del vino e l’attenzione ai corretti abbinamenti.
3. L’attaccamento al pasto all’italiana, fondato sulle due
portate principali: il primo e il secondo.
4. La preferenza per il pasto caldo (anche come conseguenza dell’amore
per pasta, riso, polenta e minestre).
5. L’irrinunciabilità del pane. Proposto in tante forme e
ricette quanti sono i campanili e ovunque amato.
6. L’amore per i formaggi, confortato dalla sapienza dei casari
italiani che ne propongono numerosissime qualità.
7. La passione per l’olio extravergine di oliva. Prodotto in tutte
e 20 le regioni italiane, compresa la Valle d’Aosta.
8. La speciale cura nella scelta dell’ingrediente principale per
le preparazioni più amate: la giusta qualità di pomodoro
per fare il sugo, di basilico per fare un pesto, di farina gialla per
fare la polenta, di riso per fare un risotto.
9. La valorizzazione del “fresco” e del “fatto in casa”.
Va di pari passo con l’attenzione pe una cucina sana e la diffidenza
verso preparati industriali di scarso valore gastronomico se confrontati
ad analoghi casalinghi o artigianali.
10. Il grande valore relazionale e culturale attribuito cibo .
11. L’amore per la varietà. Impossibile definire gli italiani
come prevalentemente carnivori o vegetariani, ecc. Cereali, carne, pesce,
formaggi e latticini giocano tutti ruoli da protagonisti nella mensa italiana.
12. La ricerca del raggiungimento del massimo risultato con il massimo
della semplicità.
Questo è il mio contributo per la
costituzione di una cucina nazionale italiana. E’ una
proposta ed è aperta. Attende di essere arricchita e migliorata
dai cuochi, dai
gastronomi, dagli italiani interessati a questo progetto e che hanno qualcosa
da dire o
da fare perché possa realizzarsi al meglio (martino@ilgiornaledelcibo.it).
LA CUCINA NAZIONALE ITALIANA DEVE:
1) Avere una identità forte, riconoscibile e improntata al gusto
italiano. Deve sapersi distinguere dalla cucina locale così come
dalle nuove cucine di pura ricerca, dalle cucine straniere e da quelle
esotiche.
2) Individuare come sua massima ispiratrice la cucina tradizionale-locale
italiana, povera o ricca, di corte o di popolo o di strada (cucina neo
tradizionale).
3) “Usare” a piene mani il territorio italiano quale massimo
fornitore di materie prime (cucina glocale). Prodotti e i saperi gastronomici,
procedure e metodi di cottura di tutto il territorio nazionale devono
essere accostati e mescolati con sapiente criterio e corretto equilibrio
all’interno del medesimo piatto-progetto.
4) Ispirarsi al lavoro del cuoco bricoleur, come descritto nel manifesto
5) Ispirarsi alla semplicità, puntando alla valorizzazione dei
prodotti ed evitando di nasconderne i sapori con eccessive coperture.
6) Rispettare la centralità della pasta, dell’olio extravergine
di oliva, del pane e del vino.
7) Rispettare la grande varietà che da sempre distingue la mensa
italiana. Cereali, pesci, verdure, carni e frutta devono essere presenti
nelle ricette senza preclusioni, per esempio, verso le carni rosse.
8) Essere una cucina sana. Deve essere attenta ai progressi della scienza
dell’alimentazione e della dietologia e deve saperli applicare.
9) Essere aperta al rinnovamento ma allo stesso tempo difendersi da mode
falsamente innovative perché effimere, confusive e snaturanti il
gusto italiano.
10) Proporre piatti riproducibili, la cucina è sempre artigianato,
a volte di livello talmente alto da somigliare all’arte, ma non
è un’opera d’arte e a differenza di questa, un piatto
deve poter essere sempre riproducibile da altre persone. Il “Raviolo
Aperto” di Gualtiero Marchesi è un esempio magistrale.
11) Proporre piatti storicizzabili. Ogni nuovo piatto, deve avere la possibilità
di diventare un piatto tradizionale di domani.
12) Proporre piatti con nomi anch’essi storicizzabili e quindi ricordabili.
13) Tenere in considerazione il pasto all’italiana e non sostituirlo
con i menu - degustazione. Allo stesso modo il pasto all’italiana
non dovrà essere sostituito da Finger food, snack, tapas, morphings
cui va dato il valore di fuori pasto.
14) Importare dall’estero, vicino o esotico, solamente prodotti
che siano armonici con il patrimonio gastronomico nazionale, non in contraddizione
con il gusto italiano, che siano assenti in Italia o apertamente superiori
a prodotti italiani equivalenti. Lo stesso criterio vale per le tecniche
e gli strumenti di cucina.
|
|
|