FATTI E
PERSONE L’export di agroalimentare non tradisce
mai. Anche adesso che il made in Italy manifesta segnali di stanchezza
Oggi un prodotto alimentare su cinque finisce sui mercati esteri. Nel
2012 i mercati internazionali hanno divorato agroalimentare italiano per
25 miliardi (+7% sul 2011) contro ii9 miliardi di import. Ma lo slancio
non si è esaurito: nel primo bimestre del 2013 l’export è
cresciuto ancora, secondo il Centro studi Federalimentare del 6,5% contribuendo
in misura determinate a trascinare la produzione industriale del 4,7%.
Che l’anno scorso si è attestata a 130 miliardi. “Con
i consumi italiani in retromarcia - osserva Filippo Ferrua, presidente
di Federalimentare - l’export rappresenta un’importante valvole
di sfogo e di redditività. E ci sono ancora margini per crescere”.
Nel 2012 l’incidenza dell’export sul fatturato totale ha sfiorato
il 20%. La più alta di sempre, ma inferiore a quella di Germania,
Francia e Spagna la cui quota oscilla tra il 22% e il 29%. Sul mercato
domestico invece prevale l’erosione dei consumi, anche se si è
lontani dal crollo degli altri settori industriali: in 5 anni la crisi
ha tagliato 20 miliardi di spesa alimentare e nel 2011-2012 il calo degli
occupati è stato di5mila addetti. “Finora - sottolinea Ferma
- le imprese hanno gestito questa situazione con il freno tirato sul turnover
e, per fortuna, non abbiamo grandi imprese con impegnativi processi di
ristrutturazione e Cig. Tuttavia non siamo certi che in futuro la situazione
non possa cambiare: già oggi sono scese dal 58 al 45% le aziende
che effettueranno investimenti nel prossimo biennio, non solo per sfiducia
ma anche perché l’accesso al credito è diventato più
difficile”. Ma dove cresce il made in Italy? Meno nella vecchia
Europa e di più in Nord America e nei mercati emergenti. L’anno
scorso nella Ue il made in Italy ha messo a segno un +4,9%, e negli Usa
il balzo è stato dell’8,9%; nei paesi emergenti le performance
sono volate (ma su valori assoluti contenuti): negli Emirati Arabi Uniti
(+42,4%), in Thailandia (+42,3%), in Messico (+35,6%) e in Arabia Saudita
(+30,5%). Un passo dietro Corea del Sud (+22,2%), Cina (+18,3%) e Russia
(+17%). Quanto alla merceologia, il vino è diventato il vero driver
del made in Italy, accanto al quale si collocano altri prodotti della
dieta mediterranea: pasta, verdura e frutta E altri ancora dello stile
italiano: formaggi (il Grana padano è il più venduto nel
mondo), dolciari, salumi e caffè. Nel 2012 su un valore della produzione
divino di 9 miliardi ne sono stati esportati 4,8 miliardi, oltre la metà.
Che rappresentano il 2O% dell’export agroalimentare, seguito dal
12% di vegetali e frutta, dal 12% di dolciari, dal 10% di lattiero-caseario,
dal 9% di pasta. Paradossalmente riusciamo a esportare in Nord Europa
anche la birra italiana (gli inglesi ne bevono il 60%): al di là
delle Alpi ne vanno oltre due milioni di ettolitri, oltre il 16% della
produzione. “Aiuta molto - sostiene Alberto Frausin, presidente
di AssoBirra (quest’anno il significativo esordio a Vinitaly) -
la diffusione del cibo italiano nel mondo e si porta dietro anche la nostra
cultura della birra. Un business che all’erario fornisce 4 miliardi
di entrate e assorbe dall’agricoltura tutta la materia prima disponibile”.
Ma ora anche i445 microbirrifici rendono più ‘italiano”
questo prodotto. Come spingere sull’internazionalizzazione? “Innanzitutto
- sostiene Ferma - rifinanziando l’Ice e accompagnando le Pmi sui
mercati lontani e riducendo le barriere non tariffarie”. Come avverrà
dal prossimo 28 maggio con la caduta delle barriere americane (dopo 15
annidi stop) per i salumi italiani a breve stagionatura. Il processo d’internazionalizzazione
delle imprese del food è trainato soprattutto dai big. Una bella
soddisfazione che segue gli anni bui in cui le multinazionali estere hanno
fatto un solo boccone di imprese e marchi noti come, dai casi recenti,
Gancia, Ar Alimentari, Salumi Fiorucci a Parmalat, Galbani, Cademartori,
Vallelata, Invernizzi, Bertolli, Carapelli e Sasso, Star, San Pellegrino,
Buitoni. Oggi c’è quasi un rovesciamento delle parti: l’abruzzese
De Cecco ha fatto shopping con il leader russo della pasta Pmk, l’altoatesina
Dr. Schär ha rilevato un concorrente spagnolo e ha realizzato uno
stabilimento negli Usa mentre il gigante del lattiero caseario Granarolo
ha ingoiato il gruppo francese Cipf Codipal, che porta in dote due impianti
industriali. “Cerchiamo - ammette Gianpiero Calzolari, presidente
del gigante cooperativo - mercati in crescita e con margini migliori di
quelli italiani”. Granarolo implementerà la sua strategia
sui mercati stranieri attraverso la neo costituita Granarolo International.
Eppoi il Salumificio Beretta ha appena ampliato un mega stabilimento in
Cina, in partnership con un produttore locale. “Era importante rispondere
tempestivamente - osserva Vittore Beretta, presidente del gruppo - a un
mercato in crescita tumultuosa. E in 12 mesi abbiamo realizzato lo stabilimento”.
Sul fronte dell’Est la veronese Zuegg ha aperto la campagna di Russia
con un polo - produttivo da 35 milioni per la produzione di semilavorati
di frutta (per gli yogurt e l’industria dolciaria) destinati ai
grandi clienti come Danone e Barilla, “che non potevamo più
servire dalla Germania” sostiene Oswald Zuegg. Funziona? “Certo
- conclude Zuegg - e forse già quest’anno raggiungiamo il
break even. Ma non trascuriamo l’export: l’anno scorso abbiamo
guadagnato il 10%”.
Torna all'indice di ASA-Press.com
|
|||