FATTI E PERSONE

Se la crisi fa germogliare la città

E se invece di un vaso di begonie o di violette in salotto ci fosse un bel pomodoro rosso? Pare che a New York la cosa stia venendo di moda. Tra l’altro così si ottiene veramente il "chilometro zero": si produce e si consuma nello stesso luogo. Anche le piante da frutto, anche gli ortaggi, anche le insalate, i limoni, le fragole o i mirtilli hanno una loro bellezza ornamentale. E inoltre consentono alla popolazione urbana di ricordarsi da dove viene il cibo. Lo stesso dicasi delle api. Nelle grandi città tedesche nel corso degli ultimi anni si è molto sviluppata la produzione di "miele urbano". Solo a Berlino ci sono oltre 500 apicoltori e ad Amburgo vivono circa 50 milioni di questi graziosi insetti.

Ci troviamo di fronte a un fenomeno in espansione: l’agricoltura urbana. Sembra una contraddizione, ma non è così. Si tratta al contrario di uno sviluppo inevitabile e secondo alcuni auspicabile oggi, quando tutto il mondo sta divenendo città. Un impulso importante a questo fenomeno è venuto da quanto accaduto a Cuba. Qui gli orti urbani si sono diffusi, sostenuti dal governo, a partire dal crollo dell’Unione Sovietica, che interruppe improvvisamente il flusso di fertilizzanti, pesticidi, carburanti, lasciando una metropoli come l’Avana in condizioni difficili. Il fenomeno ha preso piede e già nel 2010, nelle città cubane sono state raccolte 362 mila tonnellate di prodotti agricoli, dando lavoro a 300 mila persone.
L’organismo intergovernativo europeo Cost, per la cooperazione nella scienza e nella tecnologia, ha lanciato lo scorso anno Action Urban Agriculture Europe (Uae), promuovendo una rete di ricercatori in tutto il continente e nel giugno 2013 questo ha dato luogo alla "Dichiarazione di Barcellona". Vi si sostiene che l’agricoltura urbana sia un elemento che possa favorire lo sviluppo di tutto il comparto agricolo oltre che una «risorsa che può migliorare la qualità della vita nelle città».

A Zurigo opera Urban Farmers, un gruppo che promuove l’agricoltura biologica urbana. Il suo motto è good food from the roof, «buon cibo dal tetto»: ogni tetto può diventare un orto. Recentemente in un giardino privato a Copenaghen è spuntata la Invisible garden house, tre strutture a gazebo in polipropilene alte circa tre metri. Dall’inizio della primavera alla fine dell’autunno ci si può stare godendo di un microclima interno "estivo" grazie all’effetto serra, e coltivando piante da orto.

E come nelle campagne si possono anche allevare animali. A Londra dalla seconda metà degli anni Settanta opera Mudshute Park and Farm, 32 acri di terreno dediti all’allevamento di galline, maiali, pecore, asinelli, oche: si autodefinisce come il più grande allevamento urbano in Europa.

Là dove i livelli di vita sono buoni, l’agricoltura urbana consente di riavvicinare i cittadini all’attività agricola: per esempio permette ai bambini di vedere crescere le piante e di coglierne i frutti, apprezzando così il ciclo della natura che sostiene la vita. Perché «i piccoli di oggi non sanno che la farina viene dal grano e che questo è una pianta» dice Camilla Hammer, responsabile della fattoria posta nei giardini di Battery, sulla punta di Lower Manhattan, circondata dal panorama dei grattacieli. Su un acro di terreno (circa 4 mila metri quadrati) crescono pomodori, lattuga, piselli, fragole, menta, rosmarino, cavoli che poi finiscono nel ristorante annesso o sono dati alle scuole vicine. Ma lo scopo non è commerciale, bensì pedagogico: mostrare che cos’è l’attività agricola ai ragazzi nati e cresciuti tra i palazzoni.

Altrove cambiano i fini delle colture metropolitane: per esempio a Detroit molti spazi abbandonati a seguito della deindustrializzazione sono riconquistati dall’attività agricola perché questa consente di rivitalizzarli, altrimenti sarebbero lasciati alla decadenza di baraccopoli dove sopravvivono i disoccupati. In questo modo le coltivazioni urbane riempiono quelli che sono chiamati food desert: quartieri emarginati, dove, mancando la convenienza di aprire attività commerciali, non ci sono negozi o supermercati e quindi è difficile procurarsi il cibo. Anche un piccolo terreno può riempire le giornate, e le pance, di molti. Del resto già durante la grande depressione del ’29 negli Stati Uniti milioni di persone si impegnarono a usare gli appezzamenti liberi nelle città per produrre il cibo che altrimenti scarseggiava. Durante la seconda guerra mondiale si chiamavano victory garden gli orti urbani che soddisfacevano al 40 per cento del fabbisogno nazionale di prodotti alimentari. Perché, se c’è una componente estetica nell’attuale rinascita dell’architettura urbana, e anche una componente educativa, più importante è il fatto che essa può rispondere a reali necessità di sopravvivenza.

Come spiega il primo rapporto recentemente pubblicato dalla Fao sull’agricoltura urbana ("Growing greener cities in Africa"), la popolazione urbana del continente nero cresce più rapidamente che in qualsiasi altra parte del mondo e si prevede che per il 2020 nella zona subsahariana raggiungerà i seicento milioni, il doppio di quel che era nel 2010. E i tantissimi neoinurbati (oltre 200 milioni di persone) ingrossano sconfinati slum, dove la malnutrizione è particolarmente grave. «I leader africani – si legge nel rapporto – devono muoversi subito per deviare il processo di urbanizzazione dal suo cammino attuale, per indirizzarlo verso città più "verdi", che garantiscano cibo sano, lavori accettabili e un ambiente pulito». L’agricoltura urbana può ottenere questi risultati.

Anzitutto i frutti e gli ortaggi prodotti in città possono essere immediatamente consumati: non si perdono tempo e soldi per i trasporti dalle campagna, durante i quali le condizioni climatiche li possono danneggiare. Inoltre si creano aree verdi ben tenute e controllate dove altrimenti ci sarebbe abbandono e per creare il "compost" con cui si fertilizzano i terreni si possono utilizzare molti degli scarti, che così diventerebbero una risorsa.

Per esempio a Nairobi, capitale del Kenya, i residenti negli ultimi 40 anni sono passati da circa mezzo milione a 3,3 milioni. Spontaneamente lungo le strade e le ferrovie si sono sviluppati gli orti urbani: si stima dal 30 al 40% delle famiglie si sia impegnata in qualche attività agricola per l’autosussistenza. In Mozambico la grossa ondata di urbanizzazione è avvenuta negli anni ’80, quando infuriava la guerra civile. Per rispondere ai bisogni di questa gente il governo ha favorito il diffondersi dell’agricoltura urbana, tramite l’organizzazione di cooperative e la designazione di alcune aree urbane come "verdi", ovvero destinate alla coltura.

Nella capitale, Maputo, oggi operano 13 mila agricoltori urbani su 2300 acri di terreno e il loro introito medio giornaliero è di 4 dollari: molto al di sopra del limite di povertà, che è in quel Paese di 0,5 dollari al giorno.

Ma la crescita dell’agricoltura urbana comporta anche qualche problema, come sostiene Mobido T. Traoré, vicedirettore del dipartimento per la protezione dell’agricoltura e del consumatore della Fao, la novità segnalata nel rapporto è che «la produzione e il commercio di frutta e ortaggi dà di che vivere a migliaia di abitanti delle città africane e fornisce alimenti per milioni di loro. Ma questo in molte città sta divenendo insostenibile perché l’uso eccessivo di pesticidi sta inquinando le acque». Ergo: in prospettiva l’agricoltura urbana è una via per migliorare sostanzialmente la vita nelle città. Ma è importante che gli agricoltori urbani siano ben consapevoli di quel che fanno, così che la qualità dell’ambiente e della vita sia rispettata.

(Leonardo Servadio - www.avvenire.it)

 


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