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FATTI E
PERSONE
Vino e alimentare italiano: l’export raddoppierebbe senza dazi e
peste suina
Senza i dazi imposti dagli altri
Paesi alle merci che esportiamo, l’agroalimentare italiano potrebbe
raddoppiare il suo fatturato. Se inoltre riuscissimo a debellare la peste
suina, endemica in alcune regioni come Sardegna, Sicilia e Calabria, l’export
di cibi e vini made in Italy potrebbe arrivare a 60 miliardi di euro nel
2020, contro i 43 miliardi previsti, ovvero oltre 2 miliardi di esportazioni
in più all’anno.
L’unica via d’uscita sarebbero nuovi negoziati per il libero
scambio fra singole nazioni e fra Unione europea e altre nazioni, per
superare il protezionismo doganale, forte soprattutto in Cina, India,
Brasile, Giappone, Turchia, Argentina e Usa.
L’allarme viene da Federalimentare e lo rilancia Emanuele Scarci
sul Sole 24 Ore:
“Qualche volta le grandi imprese italiane delocalizzano nei paesi
protetti per aggirare le barriere erette: si pensi a Barilla e Rana negli
Usa, ai salumi Beretta in Cina, a Perfetti in India.
«Il protezionismo colbertista nei nuovi mercati – sottolinea
Filippo Ferrua, presidente di Federalimentare – è particolarmente
pesante per il made in Italy –. Per esempio in India i dazi medi
arrivano al 35%, in Thailandia al 26%, in Cina al 17% e in Argentina al
15%. Ma ancora più pesanti sono le barriere non tariffarie».
«Bisogna spingere – interviene Daniele Rossi, dg di Federalimentare
– sul pedale delle negoziazioni tra paesi e, in alternativa, sulle
negoziazioni con la Ue. Per esempio, l’accordo di libero scambio
Ue-Corea del Sud, entrato in vigore recentemente, è esemplare sulle
possibilità di eliminare le barriere commerciali»”.
Scarci riporta i dati della Commissione europea, che fanno capire come
siamo fra i Paesi più penalizzati dal protezionismo, soprattutto
per quanto riguarda il vino:
“Nel 2012 il vino tricolore ha pagato alle frontiere dei principali
paesi dazi per 269 milioni su circa 2,22 miliardi di export (il 12% medio):
per lo più in Paesi dove la cultura del vino è in sviluppo,
come Russia (41 milioni), Cina (10) e Brasile (8) ma anche in mercati
consolidati come Giappone (26 milioni) e Svizzera (25). Nei Paesi sviluppati
il mercato del vino è liberalizzato ma nell’Est e in Asia
le barriere sono un vero problema: dal 15% della Cina si passa al 20%
della Russia, dal 21% del Giappone al 60% della Thailandia. Ingiustificabile
poi il 150% dell’India. E decisamente protezionista la barriera
del 26% eretta dal Brasile.
Un bel guaio per l’Italia che è il secondo esportatore mondiale
di vino: 4,6 miliardi l’anno scorso ma solo il 4,7% finisce sulle
tavole di Asia e Australia e l’1,3% in Sud America; la metà
si ferma nella Ue e il 33% varca l’oceano per il Nord America. «Io
però – interviene Luigi Scordamaglia, ad di Inalca-Cremonini
– porrei l’accento sulle barriere non tariffarie perchè
queste sono più nocive e persistenti dei dazi. Auspico che il negoziato
di libero scambio con gli Usa risolva questo grave problema»”.
Non è solo colpa degli altri se il nostro export di alimenti e
bevande non fa “boom”. La peste e la malattia vescicolare
suina non è stata sconfitta – un marchio che pesa molto sulla
libera circolazione dei nostri prodotti – perché agli allevatori
fanno comodo gli incentivi:
“Nonostante gli ostacoli l’agroalimentare italiano vola sui
mercati esteri (anche perché recupera un ritardo storico): nel
primo quadrimestre l’export ha raggiunto 8,2 miliardi con un’accelerazione
di quasi il 9%. Ma il suo slancio è frenato in diversi Paesi sia
dai dazi, che ricaricano dal 15 al 35% i prezzi, sia da impedimenti sanitari,
in parte giustificati, per esempio, dalla malattia vescicolare del suino
e dalla peste suina africana, localizzate in Calabria, Campania e Sardegna.
Secondo alcuni osservatori il fenomeno (debellato persino in Marocco e
Algeria) persiste per convenienza: gli incentivi garantiti dalla Regione
Sardegna per i suini morti di peste sono superiori al valore dell’animale.
E gli allevatori non vi rinunciano, con l’indulgenza dei veterinari”.
(www.blitzquotidiano.it)
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