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FATTI E
PERSONE
Alta cucina in carcere
In oltre 60 penitenziari sanno farla
A Napoli i corsi per diventare pizzaioli, mentre a Torino, nella casa
circondariale Lorusso e Cutugno, c'è una torrefazione rinomata
che lavora chicchi di caffè presidio Slow Food e seleziona cacao
per poi fornire miscele tostate e ''sbarrette'' cioccolato ai negozi più
in voga nel mondo gourmet. Crescono la produzione alimentare di provenienza
carceraria, e l'attenzione del pubblico, ma anche della critica di settore,
per il fenomeno che ormai trova esempi in oltre 60 penitenziari italiani.
In alcuni casi con produzioni squisite, come la pasta di mandorla realizzata
dai detenuti di Siracusa o la 'cucina galeotta', tema della gara odierna
tra detenuti della casa circondariale di Rebibbia, a Roma.
Secondo una recente rielaborazione Gambero Rosso, su dati Aiab, in una
sessantina di penitenziari sono circa 400 i reclusi impegnati nel food
& wine, ai quali vanno aggiunti i circa 220 delle colonie agricole,
dalla Sardegna all'isola di Gorgona, che rappresentano il 4,4% della popolazione
carceraria che lavora. A questi numeri si devono aggiungere le aziende
agricole, le Onlus, le cooperative che ospitano ex carcerati e detenuti
in articolo 21, quelli che svolgono attività lavorative fuori dell'istituto.
Numeri non 'ristretti' dunque, che comprendono anche attività artigianali,
di ristorazione e del catering. Nel pieno rispetto delle tipicità
di territorio. A Sulmona per l'aglio rosso, a San Gimignano per lo zafferano,
le uova di quaglia a Milano Opera, e ovviamente a Pozzuoli per il caffè
'Lazzarelle'. Con nomi di fantasia che indicano tanta libertà almeno
di pensiero, come i vini del carcere di Velletri: Fuggiasco, Le Sette
Mandate, Recluso, Fresco di Galera. E il 'Valelapena', un corroborante
vino rosso frutto della vigna di un ettaro nella casa circondariale G.
Montalto ad Alba (Cuneo). (www.ansa.it)
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