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Identità Golose 2008 – 4° edizione – Consuntivo di quattro giornate di congresso



So benissimo che non sarò mai spettatore sereno e pacioso di Identità Golose, ma mi sto allenando almeno per riuscire fotografare i miei momenti. Ieri mattina ero uscito armato di macchina fotografica e tante buone intenzioni, ma in pratica sono rimaste nel taschino. Oggi conto di fare di più, il di meglio verrà nel tempo. Avrei voluto fotografare Gualtiero Marchesi mentre ripercorreva la sua vita in cucina, Claudio Sadler mentre ricordava quanto sia piccolo il sistema Italia all’estero, con i nostri cuochi subalterni in eterno ai francesi, Ciccio Sultano e Vincenzo Cascone alle prese con la loro Sicilia, Giovanni Guffanti e Massimo Bartolucci all’inseguimento dei profumi dei loro formaggi fino al più piccolo dei dettagli che magari svanisce rapidamente in testa ma che in quel frangente vorresti fissare nella scheda per rivedertelo e riviverlo con calma prima di andare a dormire. Purtroppo sono riuscito a seguire solo l’ultima parte della lezione di Massimo Spigaroli e Fulvietto Pierangelini, con il primo che ha lavorato la carne del secondo. Credo che nessuno sia uscito da un’ora di confronto con loro senza essersi arricchito di tutto il sapere che un culatello racchiude. Ma questo pensa valga per ogni relazione e rido quando sento qualcuno dire che appuntamenti come Identità sono poco più che passerelle gioiose. Lo dice chi non ha mai messo piede a Palazzo Mezzanotte.
E se questa newsletter uscirà durante i giorni di lavori con i resoconti di ogni momento, è grazie alla passione e alla competenza delle persone che vi lavorano e che ringrazio.

Paolo Marchi


Testi di Alessandra Meldolesi, Samuele Amadori, Andrea Pendin, Gabriele Zanatta.

"Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso", Ennio Flaiano




Milano, Lombardia. L’ombelico della gola

“Il congresso ha ancora voglia di crescere: quest’anno i relatori sono oltre 60, ma potrebbero essere di più e sparsi in tutto il mondo”. Questa la prolusione del papà del congresso, Paolo Marchi, pronunciata da un palco ispirato all’architettura frastagliata delle montagne abruzzesi. “Il primo giorno parlerà dialetto lombardo, da Milano al resto del mondo. Un omaggio alla grande tradizione meneghina e al suo sprint vincente, che a più riprese ha rivoluzionato la gastronomia, dai mostri sacri all’alta fascia dei giovani”. Tanti i focus nei giorni a seguire, l’Abruzzo, le famiglie, il Regno Unito, per smentire il cliché degli iberismi, alla ricerca di eccellenze rabdomanticamente scovate dal Brasile al nord Europa.
AM





Gualtiero Marchesi, 60 anni in 5 piatti


A dare il la al congresso Gualtiero Marchesi, grande direttore d’orchestra della cucina italiana, accompagnato dal suo ultimo solista, Fabrizio Molteni, chef dell’Albereta . Colmato il vuoto degli scorsi anni, dovuto alla sua assenza, alla vigilia dell’inaugurazione del Marchesino il grande lombardo ha sparso dal palco le perle del suo insegnamento.
M’arte, ovvero l’Arte culinaria secondo Gualtiero Marchesi. Protagonista del filmato iniziale la saletta per intimi con pochi tavoli, che si inchinano davanti al raro legno educato dall’acqua, come il piatto si inchina alla maestà della materia, in un servizio ad personam per piccoli gruppi.
Collaboratore da 10 anni, Molteni possiede l’intelligenza e il gusto per dare esecuzione allo spartito del maestro. La loro, spiega Marchesi, è una cucina in cui l’idea, che non può mai mancare, non deve essere uccisa dalla sua rappresentazione; la semplicità è il risultato di una ricerca che conduce al rispetto della materia, come nel cubo di pasta e fagioli ispirato alle sculture di Piero Manzoni, irrorato di zuppa di fagioli e cosparsa di pancetta croccante. Marchesi ha poi citato Heidegger: “L’arte è porre in opera la verità”, innanzitutto quella della materia.
Cinque i classici illustrati alla platea, fornendo spunti per un rapido sorvolo della filosofia messa a punto in tanti decenni di onorata professione: due dal repertorio di Bonvesin de la Riva, il ragù di rognone e animelle con salsa al foie gras e nocciole, imbastito su un canovaccio professionale francese per smarcarsi dalla casalinghitudine della ristorazione italiana del tempo, e il grande antipasto di pesce, approntato con vari ingredienti secondo il gusto del cliente e ispirato all’impiattato giapponese, antesignano della nouvelle cuisine. Fra i cavalli di battaglia franciacortini, il cubo di pasta e fagioli, il rosso e nero stendhaliano, altra contaminazione con le arti visive composto di gazpacho e coda di rospo al nero di seppia, e il risotto mantecato al succo di barbabietola con fonduta di Franciacorta e Grana Padano.
Profetica l’attenzione per i supporti, disegnati personalmente: dal piatto quadrato, per dare valore al quadro, al girello piccolo, centrale o spostato, forme sempre nuove che non derogano al principio del minimalismo. Nuovo il logo: con il segno meno a significare “meno cucina”. La cucina è prodotto e tecnica, più l’aura fra la tela e la vernice, ultimo elemento da attingere con umiltà.
AM




Sadler, creativo senza essere cattivo

Unico milanese fra i grandi cuochi attivi in città, Claudio Sadler è un professionista che non è mai rimasto chiuso fra quattro mura. Non solo per i suoi mille trasferimenti, tutti coincidenti con un restyling culinario, ma anche per l’attenzione agli aspetti manageriali della ristorazione, al centro dell’intervento nell’intreccio fra modernità e tradizione. “Non sono e non voglio essere un cuoco d’avanguardia, non sono così cattivo”, ha esordito Sadler, grande estimatore delle emozioni della memoria e della trattoria, che non rifiuta l’evoluzione solida e prudente.
È l’apoteosi di un gusto italiano esportato anche all’estero, fra i problemi di un marketing e di una commercializzazione spesso carenti, con il complemento di sollecitazioni visive e artistiche che mettono le ali all’immancabile sostanza. Il primo piatto presentato sul palco è stata una rivisitazione dei canederli con baccalà, borragine, zafferano e fiocchi di palamito secco, mix di origini trentine e influenze giapponesi ispirato al pesce che per definizione viaggia.
Sono fiocchi che si agitano a sorpresa come accade nella cucina nipponica, vivacizzando visivamente il piatto. Atto secondo per la milanesità di una cassoela moderna, piatto bandiera anche del comparto catering: la faraona farcita di verza con fonduta di topinambur, cavolo cappuccio e tartufo.
AM




Andrea Berton e le declinazioni del riso


Cucina della moda o moda della cucina? Un chiasmo apre l’intervento di Andrea Berton, cuoco che spende la sua autorialità gastronomica in un ristorante che non a caso di nome fa Trussardi alla Scala. L’evanescenza di certi circoli fashion non ha nulla a che spartire con la grande sostanza gustativa esibita sempre da questo ragazzo friulano per businessmen assortiti, designer, milanesi low-profile ma soprattutto gourmet dai palati difficili da ingannare.
Sul Palco della Sala delle Grida, come negli ambienti rosso fuoco che guardano Palazzo Marino e la Scala, ecco planare subito il crunch delle Chips di riso, ingrediente ancorato alla tradizione lombarda e milanese ma qui leggero e libero di svolazzare, dopo 5 ore di forno e soffiate da un olio super-bollente. Le varietà: zafferano, nero di seppia, paprika, merluzzo bianco e barbabietola rossa.
Secondo capitolo dalle risaie: rivisitazione della lasagna con sfoglie di riso, “esperimento scombinante già eseguito da Cracco, Cedroni, Bottura”. Particolare bertoniano: il fastidio per la consistenza morbida e grassa delle sfoglie servite calde da mammà. Lui le proietta nell’iperspazio inspessendone la consistenza e maritandole alle palline di ragù all’azoto liquido (!), che sciacqua carne cotta velocissima (15-20 minuti) per concentrare i sapori.
All’epilogo, terza interpretazione del riso, nel caso specifico venere – con i suoi profumi di lievito, pane, legno – e in sembianza di un’ostia, che col the affumicato dà lustro aromatico a un rombo, pesce che scuote le nostre fauci con tutta l’onomatopea espressa dal suo nome.
GZ





Scarello e il cervo marinato che fa l’aerosol


Emanuele Scarello è uno chef, creativo sì, ma molto legato al suo territorio, il Friuli. A Identità Golose ha parlato delle marinature della carne. Ma non quelle consuete, a base di sale: ha pensato bene di sfruttare il miele, grande prodotto del suo territorio a volte un po’ dimenticato in cucina. Il miele è una sostanza complessa: se il sale disidrata, il miele arriva a obiettivi più ambiziosi. Se viene utilizzato sotto vuoto e alla temperatura di 4°C.
Scarello ha scelto una sella di cervo divisa in due. Questa ha preso due binari: miele di rosmarino e sale di Pirano, istriano. A tutti e due i tagli è toccata una marinatura di sei ore. Con il sale la carne si riduce e indurisce, con il miele rimane più morbida e gustosa. Con il sottovuoto si riesce a gestire la marinatura al miele, perché la carne perde liquidi ma non si asciuga come con il sale. Dodici minuti di cottura a bagnomaria, 65 gradi. Poi Scarello ha acceso il suo bizzarro marchingegno.
“E’ da un po’ che faccio esperimenti con il termovap – spiega lo chef -. Li ho iniziati dopo una cura termale. Vaporizzo un distillato, al posto della classica soluzione. E il profumo investe la carne”.
Cervo e miele sono prodotti del bosco, di quel territorio dalle molteplici facce che è il Friuli. Il piatto viene servito con un purè di sedano rapa e una mostarda di bacca di rosa canina. Non è una cremonese, non è così dolce e piccante, prende forza grazie all’aceto, come vuole la tradizione.
Prima di essere impiattata la carne viene messa sotto una pellicola e investita dalla vaporizzazione con il termovap. Aprendo si forma una miscela acqua e distillato. Microgocce e profumo molto forte. Ma molto gradevole. E così il cervo (ma soprattutto noi) ci godiamo un aerosol molto particolare.
SA




Corrado Assenza: note di miele


Il Corrado che si presenta a Identità Golose è sempre più la dimostrazione del connubio vincente col suo territorio, alla ricerca di un rapporto basato sulla memoria della sua infanzia.
Un sogno ancestrale, quello dell’unione tra la natura della terra e la sapidità del mare, che utilizza il pesce d’altissima qualità mescolato alle variazioni sensoriali del miele.
Vari tempi di marinatura vengono impostati partendo da mieli monoflorali aromatizzati con spezie, frutta o erbe per animare il profilo aromatico del piatto.
Si parte con lo sbuffo d’acqua marina, utilizzando delle neonate di triglia leggermente marinate con Mielarò, un miele di arance aromatizzato con pepe bianco e zenzero, abbinate con l’alga kombu e un gelato fatto con origano fresco e polvere di peperoncino. La sapidità mira al rispetto più totale delle materie prime di qualità.
L’esaltazioni di sapori, pari alle variazioni delle marinature col sale, continuano col gambero marinato in un miele aromatizzato con zafferano di Navelli, messo su una tarteletta al tè verde abbinato con un gelato fatto a partire da un’insalata di arance, cipollotti, finocchietto, olio e completato con un sale nero di Cipro.
Queste mielature si adattano anche con la cottura, a partire da miele naturali di fiori d’arance, echeggiando il trionfo della Sicilia, con due preparazioni: prima un dentice e poi uno sgombro miele-marinati cotti in olio di oliva di Noto alla temperatura di 60°, sfidando giochi di texture sensazionali.
AP




Davide Oldani e la trippa una e trina


Nel nome della cucina povera, Davide Oldani ha deciso di tentare l’ennesima sfida al portafogli. Regina del suo intervento la trippa, sontuoso trat-d’union fra cucina poverissima e quinto quarto alla moda, qui scomposta in nido d’ape, chiappa e foiolo contro la confusione della classica busecca (“nella quale - racconta Davide – da piccolo andavo sempre a pescare il pezzo più spesso”).
Il principio guida infatti è separare, secondo gli insegnamenti della nouvelle cuisine e della destrutturazione odierna, valorizzando il punto forte del prodotto, la carnosità. Tanto per cominciare il trancio di nido d’ape con sugo leggero di vitello e scarola, un inno alla consistenza e all’identità anche visiva del prodotto; poi la chiappa, più liscia, valorizzata da una cottura croccante; per finire il foiolo in raviolo, la cui consistenza tenue viene esaltata da un ripieno al naturale.
Tutti tagli precotti con accorgimenti ad hoc e cotture morbide, per traslare le emozioni della trattoria nel mondo rarefatto della citazione. Per finire un classico di Oldani: il soufflé al profumo di tartufo bianco con la crema pasticciera, vecchio piatto del Giannino ripensato portando fuori il profumo di tartufo sotto la forma un po’ osé dell’aroma. Nel prossimo futuro si preannunciano suppellettili 100% D’O, dai bicchieri alle posate.
AM




Enrico Bartolini, un cuoco Oltre(pò)


Cuoco anti-bamboccione per antonomasia, Enrico Bartolini si è confermato enfant prodige della cucina nazionale. Dopo Oldani, anche lui ha scelto di cimentarsi con il quinto quarto, una passione sempre più egemone nella ristorazione italiana. In questo caso si è trattato di rognone, cotto arrosto ma a bassa temperatura fino a 58 °C a cuore, con l’accompagnamento di patate facoltativamente sifonate, verbena e porri. A seguire l’oca, un must del territorio con marinatura, due tipi di cottura e la finitura nel suo grasso (utilizzato anche per le patate, contorno simmetrico al rognone), più il tocco di noblesse del foie gras poelé in una sorta di Rossini da cortile. Un piatto molto tradizionale, punto fermo del ristorante, quello che “più mi soddisfa fra i denti, perché l’oca si esprime nella sua solida franchezza. L’Oltrepò è un t! erritorio ancora ricco di sorprese da scoprire, soprattutto per un toscano come me”, conclude lo chef, millimetrico maestro di cotture ad hoc e grande fan di una cucina di consistenze.
AM





Sultano e l’ambigua sensualità del barocco


Un’incursione extraterritoriale è stata compiuta da Ciccio Sultano, autentica quintessenza della Sicilia che ha calamitato le energie regionali in direzione innovazione. Il regista Vincenzo Cascone ha presentato sul palco un filmato dedicato alla nascita di una ricetta del Duomo: gli spaghetti home made con le lenticchie, il corallo dei gamberi rossi e le cozze (più un tocco di panna in omaggio ai monsù), serviti in antipasto per la loro potenza iodata. Aperto da un Ciccio con coppola e fiasco di rosso in piena atmosfera neorealista, ripreso a sorpresa nella sua cantina sulla lavabiancheria, racconta lo sviluppo di un’ispirazione in chiave siculo-barocca, stile che è anch’esso un prodotto del territorio contro l’appiattimento delle mode minimaliste. A seguire l’ambiguità del polpo con la sensualità della burrata di Andria, surrogato ! politically correct della panna: una storia d’amore suggellata dal carbone del barbecue e dalle chips di topinambur, con lo zampino paraninfo di molti altri ingredienti, dal peperoncino all’insalata di arancia...Hanno strappato il plauso e le lodi di Corrado Assenza, nella ricerca condivisa di una sintesi fra radici femminili e attualità sotto il segno della cultura isolana.
AM





Crippa, un premio all’eleganza

Anche l’intervento di Enrico Crippa è stato dedicato alle carni, nelle sue basi spesso trascurate e bistrattate, a cominciare dalla rosolatura, “che non si vede mai nei congressi”. Ecco quindi il filetto di agnello sanbucano con latte di capra, limone e bietoline. A seguire la lepre cacciata cotta in un burro aromatizzato con ginepro e cannella, la cui polpa quasi evanescente dal gusto deciso sfumava nel brandy, con il tocco territoriale delle nocciole di Langa, due salse di barbabietola e olive nere, trevigiana, germogli di barbabietola e getti di achillea. Poi il piccione allo spiedo con la marmellata cruda di cavolo rosso, reminescenza della selvaggina di Antoine Westermann senza pleonasmi speziati, trasportati piuttosto all’esterno, e il maialino da latte con cicoria, cipolle, radici di Songino e purea di stachys, verdurine asiat! iche in realtà già presenti negli orti dei Savoia. Partendo dalle basi di cui parlava Gualtiero Marchesi, un intreccio di territori e di ispirazioni che fioriscono negli impiattati impressionistici e nelle sottigliezze della riflessività. Piatti che sono valsi a Enrico il premio Identità Golose alla creatività in cucina.
AM




Stefano Baiocco e l’anarchia delle erbe


E’ il giovane druido della cucina italiana: fino a 130 erbe aromatiche sono piantate nel suo orto, sulla scorta degli insegnamenti di Andoni Luis Aduriz. Hanno rappresentato uno dei temi del suo intervento, intitolato alla mise en place, un momento che dall’accezione più scontata si prolunga oggi indietro nel tempo, mettendo radici nel territorio e nelle pratiche della cucina. Una consuetudine che è anche disciplina e armonia con la natura, insomma stile di vita.
Per antipasto ecco quindi una “semplice” insalata di germogli, erbe aromatiche e fiori commestibili, quasi interamente coperta dalla produzione del ristorante, con una spolverata finale di segatura di patate. Affascinante la tavolozza di petali e foglie srotolata di fronte al cuoco, a testimonianza della passione autentica della brigata, mentre il sapiente movimento delle pinze componeva una volubile e aleatoria architettura (ciò che Baiocco ribattezzava “anarchia”).
Poi un piatto composto di coregone del Garda, pomodoro verde e pepe della Tasmania; capperi disidratati in un caramello di tre zuccheri a mo’ di finta pelle; spuma di olive con infusione di noccioli presentata nelle sembianze di tartufi; crema di limone, bonbon di pasta soffiata e qualche fiore.
AM




Pierangelini jr, Spigaroli e il sistema qualità del maiale


Entrambi vengono da una ristorazione di qualità, entrambi sono allevatori di maiali autoctoni, la Cinta Senese da una parte e il maiale nero parmigiano dall’altra, entrambi sono legati da forti ideali per la qualità del cibo e per questo si sono cercati da subito, per rivalutare assieme i suddetti salumi.
L’esperienza di Fulvietto Pierangelini – figlio di Fulvio - e la genetica geniale di Massimo Spigaroli hanno portato alla creazione di sensazionali insaccati, partendo con un progetto che non tralascia nessun particolare, soprattutto nelle importanti fasi di allevamento e norcineria. Bisogna attuare attenzioni industriali per mantenere una qualità elevata in ogni fase, che segue i normali cicli di vita non sconvolgendo la natura.
La Cinta non sopporta assolutamente lo stress, facilmente riscontrabile negli allevamenti industriali, e ha bisogno di percentuali inferiori di sale per non compromettere le testure.
Questa razza ha bisogno di oltre tre anni di allevamento per raggiungere un peso idoneo alla produzione di salumi di qualità, contro l’anno dei prodotti industriali.
Per l’occasione è stata smontata un’intera coscia di maiale e per ogni pezzo è stato spiegato il miglior utilizzo . La parte del culatello, rifilata e legata, è stata approntata per la stagionatura, fatta esclusivamente in inverno analizzando la cantina per la cruciale biodiversità delle muffe nobili.
AP


Ivan Musoni e il salame antologico

Ivan Musoni lavora sul crocevia fra quattro regioni. E il salame di Varzi nasce proprio da questo incrocio di culture, un prodotto che presenta carni di vario tipo al suo interno: prosciutto, coppa, pancetta, spalla, gola e lonza di un maiale che esce un po’ dal disciplinare per via delle sue dimensioni. Un salame nobile, perché per ottenerlo il prosciutto viene eliminato e altre parti dell’animale scompaiono. In pratica un’antologia del maiale.
Per preparare questa meraviglia dell’Oltrepò le carni vengono smontate dalla coscia, che viene aperta. Il magro viene cubettato per poi venire macinato fine. Gli scarti diventano salsiccia da griglia e cotechino. Il grasso viene selezionato e a sua volta inserito nella pasta da salame. Rappresenta il 22-23 per cento del salame.
La spalla è la parte più complessa da mondare, perché più ricca di tendini. Poi vengono tutti gli altri tagli, più o meno grassi. Nell’impasto va un infuso lavorato con vino e aglio e pepe, una concia dalla quantità molto soggettiva. Poi avviene la lavorazione vera e propria, con i cubetti di carne che vengono impastati con il sale. Poi arriva l’infuso a lavare il maiale. Venti minuti di lavoro. A questo punto la pasta conciata viene inserita in due budelli “cuciti”.
Ne viene un salame soffice, che pian piano sarà nobilitato dalle muffe. E voilà, dopo un po’ di mesi è pronto da sciogliere in bocca. Che sia muleta (due mesi di stagionatura), cucito e cortegiano (un mese).
SA



Tepedino e Leoni, ovvero dell’etica del pesce


Le attuali frodi ittiche si basano sempre più sulle imitazioni che arrivano dall’estero, incrementate per soddisfare la grande domanda di pesci con esemplari in gran parte allevati. Tutto per una questione di costi. Marcello Leoni del ristorante bolognese Il Sole a Trebbo di Reno ha preparato 2 piatti: un brodo profumato al rombo, fatto con le carcasse e la pelle del pesce per tesaurizzarne “l’odore”, e dei finti spaghetti con le telline, la cui essenza sensoriale viene incorporata a bassa temperatura, evitando grazie alle trasglutaminasi l’utilizzo della farina.
Secondo Marcello “è importante saper distinguere un prodotto ittico da un altro, per un discorso di coerenza di acquisto e per un rapporto veritiero tra consumatore e venditore.” Affidandosi all’esperta Valentina Tepedino non è difficile per un ristoratore riconoscere un pesce da un altro, partendo dal semplice esame morfologico o del colore. Bisogna anche sfatare alcuni falsi miti sulla freschezza, focalizzandosi non solo su occhio e branchie , ma anche sul muco nel pesce, che purtroppo la maggior parte delle volte viene lavato via dai venditori. Informarsi e saper scegliere significa contribuire a combattere la perdita di biodiversità marina.AP




Guffanti Fiori e Bartolucci: un carrello sulla Lombardia


Lombardia terra di grandi tradizioni casearie. E Carlo Guffanti della Guffanti di Arona e Massimo Bartolucci, maitre del bistellato Villa Crespi di Orta San Giulio (No), la raccontano con grande passione. Grana Padano, Provolone, ma anche famigerati erborinati come lo strachitun o i caprini dalle mille facce, come quelli della Valcuria. Per non parlare di stracchini, taleggi e brescianelle. Ne presentano una aromatizzata ad acquavite e crusca. Mica male. Ecco anche i grandi formaggi di montagna, come il bitto o il quartirolo. Una passerella che rimbalza tra le sponde dei laghi dei due. Le condizioni climatiche sono un primo elemento da considerare per la composizione di una buona selezione: se si ha a disposizione un bel giardino, attenzione a dove batte il sole…
Fra pranzo e cena il consiglio è riportare le forme in luogo fresco, per evitare problemi. Se si ha un carrello corposo non è cosa da poco, ma un lavoro faticoso e da mettere in conto. La paratura consiste nell’eliminazione dello strato invecchiato del formaggio: la forma sarà molto più appetibile al cliente. L’occhio, si sa, arriva prima del gusto. I menu degustazione sono consigliati, e così i percorsi “guidati” in cui si va dal basso all’alto, dall’insipido (si fa per dire) al sapido.
La scelta di Guffanti-Bartolucci cade sul prodotto artigianale, con il latte crudo in prima fila.
Infine, gli abbinamenti. I due consigliano la birra St. Thomas, perfetta con formaggi importanti e anche erborinati.
SA