|
EVENTI
Risotto superstar – Febbre
Gialla – Risotto di Milano e una sua storia
Oggi, 21 gennaio, Paolo Marchi titola “Critici bocciati, i golosi
votano un altro risotto”.
Nella giornata dedicata alla cucina italiana del mondo che cade ogni 17
gennaio, quest’anno è stato il turno del Risotto, fatto coincidere
dai cuochi italiani nel mondo con il Risotto allo zafferano, che una giuria
di esperti ha celebrato aggiudicandone la bontà al cuoco Silvano
Prada del Four Seasons.
Il Risotto milanese, che nella seconda
parte dell’Ottocento era noto come “Minestra di Milano”
nelle citazioni londinesi e non si poteva confondere con il “Riso
Piemontese” della letteratura gastronomica francese che ne attribuiva
la denominazione alla particolare coltura del riso, è stato oggetto
di confuse informazioni, sulle quali lo stesso Giuseppe Verdi intervenne
a darne definitiva testimonianza per competenza a Parigi. In questi mesi
il professore Alberto Salarelli, (tel. +39-0521-902272 (office) e-mail:
alberto.salarelli@unipr.it)
della Dip. dei Beni Culturali e dello Spettacolo - Sez. Beni Librari,
dell’Università di Parma risponde ad una lettera d’auguri
e di aggiornamento sul suo impegno di studio sul Risotto, anzi del Risotto
alla Milanese indetto per la comunità gastronomica di tutto il
mondo, mi ha stimolato a richiamare dai miei archivi d’autore i
libri, libretti, conferenze e memorie sul tema “Storia e Tradizioni
del riso italiano a tavola”, in parte accessibili anche sul web,
in particolare nel sito www.oliopepesale.com, che conserva le comunicazioni
della Delegazione Milano Internazionale della AIC, ricche di informazioni
e documenti sul tema e sulle manifestazioni di successo organizzate con
Il Comune di Milano e con la Regione Lombardia a ridosso del 2000.
Il 1° tomo di Oryza è esaurito, stampato in 300 copie il 25.02.2001,
da Reggiani SpA Varese – Stampa digitale, per Lo Scalzo Associates
e Accademia Italiana della Cucina. Il Secondo tomo… finalmente è
in fase di preventivo di stampa, dopo 4 anni d’archivio e di altre
indagini, in parte riflesse nella presentazione fatta a Borgomanero, Novara,
nel 2007, su Risi e Panici.
Ho chiesto un aggiornamento al professore in quanto sono stato stimolato
dalle favole comparse sabato scorso sul primo giornale d'Italia, di cui
riproduco l’articolo, e dalle opinioni di un candidato alla classifica
di primo chef d'Italia... che di tanto in tanto baldanzosamente "spara"
in quanto la stampa "fa eco"… D'altro canto, anche il
grande Escoffier non aveva capito nulla di “risotto”, tesi
che dimostro nel 2° Tomo di Oryza e che ho avuto modo di commentare
personalmente con il nipote del grande chef in occasione di un incontro
alla Fondazione Escoffier a Villeneuve Loubet, Nizza di qualche anno fa.
Ritengo didascalica questa brevissima antologia dei due articoli apparsi
in data 17.01 su Il Corriere della sera e Il Giornale in quanto rivelano
approcci di divulgazione e comunicazione di differente impostazione. Ho
aggiunto dai miei archivi il testo di una recente conferenza sulle origini
della Minestra di Milano che ha fatto agio nella seconda metà dell’Ottocento
sulla denominazione di Risotto per giustificare la fatica dell’attraversamento
delle Alpi, che si doveva fare in carrozza! Il viaggio venne fatto da
sir Habram Hayword, per incontrare Alessandro Manzoni, e visitare Milano,
che ne ha pubblicato la cronaca in un interessante testimonianza, ripresa
e ripubblicata dalle edizioni Viennepierre, Milano, pochi anni fa.
E.LS
La
storia del Risotto, a parere dello scrivente, ha un filo di collegamento
diretto con quella della Minestra di Milano, conseguente alla variante
di preparazione di soffritto introdotta e citata nella prassi cucinaria
lombarda dal maceratese Antonio Nebbia (Il Cuoco maceratese, 1781) e dal
trentino Don Felice Libera (L’arte della cucina, ricette di libri
e di dolci, manoscritto trentino del XVIII secolo attribuita al 1780).
In Oryza – 1° Tomo – è presente un capitolo con
storia e antologia di ricette che ne rappresentano l’intera evoluzione
fino ai giorni nostri. La ricetta di riferimento moderna e storica è
ripresa dalla ripubblicazione anastatica delle opere di Ottorina Perna
Bozzi, che fa seguito alle primissime ricette popolari e borghesi condite
con “cervellato milanese”, il cui uso cessa nella prima metà
dell’Ottocento.
E.LS
Risotto "alla milanese"
(ris giald)
(da Ottorina Perna Bozzi - da Milano in cucina, commentata per il ricettario
della Lombardia, Accademia Italiana della Cucina, 1998-99)
Fino al 1909, quando Milano era ancora
dei Milanesi, ho sempre mangiato risotti senza vino né birra (orrore),
come dalle ricette del 1809, 1821, 1843. Il "cervellato" non
si trova più e viene sostituito dal midollo o dal sugo d'arrosto(19)
I pistilli di zafferano, garanzia di zafferano autentico, si possono trovare
dagli erboristi o nelle zone di produzione, a San Gavino in Sardegna e
all' Aquila in Abruzzo... (Ottorina Perna Bozzi)
(Oryza: Nota 19) Giuseppe Sorbiatti, nel
1866, cuoco lombardo, consiglia di arricchire il riso allo zafferano con
sugo d'arrosto, ossia del famoso "gras de rost", versione meneghina
della prestigiosa "demiglace" della grande cuisine. Questo suggerimento,
sottolineato da Massimo Alberini, fa parte, come bene divulga Ottorina
Perna Bozzi, dell’abitudine di avere sempre disponibile il fondo
degli arrosti, soprattutto nelle cucine della borghesia, use a questo
tipo di cotture da parte delle cuoche di casa.
Ricetta attuale
Ingredienti per sei persone:
Dodici pugni di riso (carnaroli, arborio o vialone), 50 g di burro, 30
g di midollo tritato, 2 cucchiai di grasso d'arrosto (1) di manzo chiaro
e scuro, 1-2 litri di brodo bollente ristretto (el brodon), una cipollina,
mezzo bicchiere di latte o panna o un pezzetto di burro crudo, un ciuffo
di pistilli di zafferano o una bustina di zafferano, Parmigiano Reggiano
o Grana Padano grattugiato
(1) - Se manca il grasso di arrosto, mettere
60 g di midollo di bue tritato invece di 30. Si possono aggiungere 20
g di funghi secchi oppure 1 tartufo bianco affettato sopra il risotto
al momento di portarlo in tavola. Parmigiano abbondantissimo.
Mettere in una casseruola il midollo, il
burro, il sugo di arrosto e la cipolla affettata sottile; lasciatela cuocere
dolcemente a fiamma bassa per farle prendere un colore dorato. Versare
il riso e rimescolarlo bene perché possa assorbire il condimento.
A questo punto alzare la fiamma e iniziare a versare sul riso il brodo
bollente, a mestoli, vero e non di dado, continuando a rigirare con un
cucchiaio di legno. Man mano che il brodo evapora e viene assorbito, continuare
a cuocere sempre a fuoco forte e aggiungerne dell'altro a mestoli fino
a cottura ultimata, stando attenti che il riso resti al dente (da 14 a
18 minuti). Cotto che sarà per due terzi, lo tingerete con lo zafferano
sciolto nel brodo.
Tenere conto che una volta si usava lo zafferano in pistilli, e perciò
si metteva ai due terzi di cottura per dargli il tempo di sciogliersi,
ma che, se è in polvere, conviene metterlo all'ultimo per non disperderne
il profumo.
I funghi, tenuti a bagno 30 minuti prima, si mettono col riso.
In ultimo aggiungere un pezzo di burro, un bicchiere di latte o di panna.
Il risotto va tenuto piuttosto liquido (all'onda), ossia i chicchi devono
essere ben staccati, ma legati fra loro da un insieme cremoso.
Si serve con vino rosso(*), a differenza delle altre minestre. I veri
milanesi lo mangiano col cucchiaio.
(*) I "brianzoli" e i "milanes
arios" bagnano il riso con vino rosso, prima di aggiungere il brodo.
18.01. 2009 - Lettera dal professore Alberto
Salarelli, Dip. dei Beni Culturali e dello Spettacolo - Sez. Beni Librari
- Universita' di Parma (Italia) - Via D'Azeglio 85 - 43100 PARMA
tel. +39-0521-902272 (office) e-mail: alberto.salarelli@unipr.it
Caro Lo Scalzo,
che piacere risentirla! Ricambio di cuore gli auguri per l'anno appena
iniziato che - ho letto pochi minuti fa l'articolo di Paolini sul Domenicale
- si apre all'insegna del risotto. Molto bene!
La lettura di Oryza (volume che poi ho recuperato sia alla biblioteca
dell'Accademia Italiana della Cucina, sia in quella della Barilla a Parma)
è stata a tal punto illuminante che la mia ricerca sulle origini
del risotto si è ampliata ben oltre le mie aspettative. Direi che
è un buon segno. Ormai comunque mi manca più o meno l'ultimo
capitolo, quello dedicato al Novecento. Conto di terminare la redazione
in tempi brevi: mi piacerebbe che la ricerca venisse pubblicata entro
l'anno, appunto
per festeggiare la ricorrenza risottifera.
Ad ogni modo la terrò aggiornata. Già che ci sono Le chiedo
una cosa: fra i vari testi nei quali mi sono imbattuto, si citano due
opere che non ho reperito in nessuna biblioteca e in nessuna bibliografia
specializzata:
- La cuciniera che insegna il buon gusto a cucinare alla casalinga, almanacco
dilettevole e istruttivo per l'anno 1809, Milano, Giuseppe Borsani, 1808.
- Il cuoco di buon gusto ossia modo facile per cucinare alla portata tanto
de' servitori di campagna, che di città, come pure delle serventi,
e di qualunque altra persona che dilettasi di cucinare, Milano, Pulini,
1808.
Sono entrambi citati nel portale "www.culturagastronomicaitaliana.it"
al quale mi sono rivolto per avere lumi che sto ancora attendendo. Lei,
per caso, sa dove potrei consultarli? Li vedo menzionati entrambi da Benporad
nella sua "Storia della gastronomia italiana", eventualmente
mi rivolgerò direttamente a lui. Un saluto cordialissimo, A. S.
La risposta:
Carissimo, le farò sapere, intanto ho preavvertito Claudio e Simona
Benporat della sua ricerca... Claudio aveva oltre 700 opere storiche..
E forse sono tante di più... Se posso esserle utile a Milano, ad
esempio proverei a chiedere anche a Eugenio Medagliani e ad Alex Guzzi...
o a Hoepli o a Lugano. Cordialissimi auguri!
N.B. Ogni notizia proveniente dai nostri
giornalisti e associati ASA è graditissima!
E.LS.
Da Il Giornale, 17 gennaio – Edizione di Milano - Al risotto
di Milano l’oscar della creatività di Paolo Marchi
Mai
come in questi giorni si è parlato di Risotto allo zafferano. Il
piatto per antonomasia della cucina milanese è stato scelto dal
Gvci, il Gruppo virtuale cuochi italiani, per celebrare oggi la Giornata
dell’orgoglio della cucina italiana. L’anno scorso tocco alla
Carbonara, l’anno prossimo chissà. La scelta cade su una
ricetta di sicura italianità e di conclamata popolarità,
una squisitezza che tutti gradiscono, in particolare quando viene offerta
loro inattesa e gratuita. Il presidente dell’associazione, Mario
Caramella, in forza all’Hyatt di Bali, ha riportato nel sito, <itchefs-gvci.com>,
la ricetta-base perché chi avesse dei dubbi possa consultarla.
Contrariamente a quello che tanti pensano, anche la tradizione è
in movimento e i passi si stratificano. Un tempo era vangelo sostenere
che «il riso nasce nell’acqua e muore nel vino». Ora
non più: a iniziare da Gualtiero Marchesi, il vino è stato
abolito e dopo il soffritto si passa subito alla cottura, una partenza
che vede diversi evitare anche le cipolle. Guai poi celebrare il risotto
che si attacca sul fondo della padella e conferisce alla massa uno sgradevole
odore di bruciato. L’affumicatura è tutt’altra cosa.
Il risotto poi dovrebbe essere al dente, guai non fosse così per
noi anche se gli spagnoli, gli altri maestri europei del riso, non sono
affatto d’accordo e ci contrappongono la cultura della paella. A
ognuno la sua cultura, però è giusto ricordare che a Milano,
un maestro come Carlo Cracco ama proporre il riso come crema, anche in
versione gialla con un midollo intero al centro (e non come un tempo all’inizio,
usato al posto del ben più costoso burro). Pure per questo è
il cuoco italiano più famoso in Spagna, per la mancanza di dogmaticità
che speso inchioda un cuoco al passato e alla sterilità perché
se tutto è scritto e deciso, perché ragionare?
Un tempo, ad esempio, il risotto giallo partiva dalla cervellata, sorta
di salsiccia speziata con lo zafferano, troppo costoso perché tutti
ne disponessero a piacimento. Non basta: il formaggio perfetto per la
mantecatura era il Lodigiano, cugino gagliardo del Grana Padano, estinto
da almeno vent’anni.
Importante notare come da un anno, seguendo il lavoro di alleggerimento
di Marchesi (lo stesso che ha reso il piatto più ricco per via
della foglia d’oro al centro) suoi allievi stanno togliendo anche
lo zafferano dalla fase di cottura per unirlo alla fine. Paolo Lopriore
a Siena strega con un Riso giallo (e non risotto...) che in pratica è
un riso consumato bianco, con lo zafferano vaporizzato con uno spray oltre
a quello in stimme, più polpa di pompelmo essiccata e polverizzata,
nonchè due bottoni di «sorbetto» di pompelmo. È
un caos primordiale, mentre Davide Oldani a Cornaredo è l’ordine:
pone un midollo di vitello al limone al centro e versa su un risotto alla
pavese una crema allo zafferano a mo’ di spirale. Morale: il Risotto
alla milanese prevede che arrivi a tavola giallo di zafferano. Tutto il
resto è pensiero.
Da Il Corriere della Sera. 17.01.2009 (dalla
copia telematica)
Risotto
superstar 900 chef ai fornelli da Tokyo a Bali (18/01/09 14:13)
Pagina 1 e 2 di 2.
ZAFFERANO DAY IN 70 PAESI SI CELEBRA
LA RICETTA MILANESE
Risotto superstar 900 chef ai fornelli da Tokyo a Bali
E al Macef prepareranno mille porzioni Leeman: «Il mio trucco?
Una goccia di limone».
Oldani: «Niente vino bianco, né soffritto di cipolla per
noi sedentari»
Altro che pizza e spaghetti, la star della gastronomia italiana è
il risotto alla milanese. O almeno così sarà oggi: in occasione
della Giornata Internazionale delle Cucine Italiane il più classico
dei piatti meneghini sarà infatti proposto in 150 ristoranti in
tutto il mondo. La ola globale al sapor di zafferano è promossa
dal Gruppo Virtuale Cuochi Italiani, nato nel 2001: un network di circa
900 chef che lavorano in oltre 70 Paesi nei diversi continenti e che si
incontrano quotidianamente in un forum su Internet per scambiarsi pareri
su alimenti e ricette, in difesa del made in Italy. «Quando si usa
il nome di una specialità tipica italiana la si deve cucinare secondo
la tradizione», dice Mario Caramella, tra i fondatori del GVCI e
chef di un noto ristorante a Bali. «Per questo celebriamo il risotto
alla milanese: è uno dei piatti più taroccati del pianeta,
lo preparano in modo
sbagliato non solo gli stranieri, ma persino molti cuochi italiani che
vivono da troppo tempo all' estero». E allora, tutti ai fornelli.
Per partecipare alla super-risottata Valter Gosatti del The Ivy di Ulan
Bator si è fatto spedire apposta gli ingredienti dall' Italia.
Andrea Tranchero dell' Armani di Tokyo ha pronta da giorni una locandina
in giapponese per pubblicizzare l' iniziativa. Frederik Farina del Grand
Hyatt Hotel di Bangkok si sta allenando tra mestoli, ramaioli e casseruole.
Ovviamente la nostra città farà la sua parte. Stasera il
risotto giallo sarà protagonista in una trentina di ristoranti:
dal Cracco Restaurant al Joia di Pietro Leeman, dal D' O di Davide Oldani
a Il Luogo di Aimo e Nadia, dal Sadler a El Brellin. E a mezzogiorno al
Macef ne saranno preparate più di mille porzioni, mentre riceverà
la Padella d'Argento come cuoco dell'anno Emanuele
Lattanzi, salito agli onori della cronaca per aver salvato la figlia Clarice
durante l' attacco terroristico di Mumbai.
Ma qual è la ricetta autentica del risotto alla milanese? Tutti
conoscono la leggenda secondo cui il celebre piatto meneghino sarebbe
nato nel 1574 dall' idea di un artigiano di mettere nel riso un pò
dello zafferano con cui era solito preparare i colori per le vetrate del
Duomo, per far colpo sugli invitati del suo banchetto nuziale. (Ndr: Questa
favola è ripresa sempre più frequentemente, anche da parte
di relatori di rilevanza nazionale: si tratta chiaramente di un falso
storico, supportato da un quadro d’epoca erroneamente interpretato)
Pochi concordano sulle modalità di preparazione. «Io seguo
lo schema classico - spiega
Pietro Leeman -. Faccio sudare la cipolla con un pò di burro, tosto
leggermente il riso con lo zafferano, poi lo bagno con il vino bianco
e aggiungo il brodo poco alla volta, in modo che venga assorbito lentamente.
Infine condisco il tutto con il parmigiano. Ma ho un trucco: aggiungo
una goccia di succo di limone per aumentare la freschezza».
Pensa ai tempi che cambiano Davide Oldani: «Rispetto ai nostri nonni
conduciamo una vita
sedentaria, va bene mantenere i sapori di una volta, ma bisogna alleggerire:
niente soffritto di cipolla né vino bianco».
Raffaella Oliva
Segue il Controcorrente Carlo Cracco:
Pagina 2 di 2
Oliva Raffaella - Pagina 19 (17 gennaio
2009) - Corriere della Sera
Ogni diritto di legge sulle informazioni fornite da RCS attraverso la
sezione archivi, spetta in via esclusiva a RCS e sono pertanto vietate
la rivendita e la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi modalitá
e forma, dei dati reperibili attraverso questo Servizio. É altresì
vietata ogni forma di riutilizzo e riproduzione dei marchi e/o di ogni
altro segno distintivo di titolarità di RCS. Chi intendesse utilizzare
il Servizio deve limitarsi a farlo per esigenze personali e/o interne
alla propria organizzazione.
«Ci grattugerò sopra del cacao...» Il risotto alla
milanese non è veramente milanese. Parola di Carlo Cracco, chef
dell'omonimo ristorante di via Victor Hugo: «Ciò che rende
particolare questo piatto è che, a dispetto del nome, si prepara
con ingredienti che con Milano hanno poco a che fare: a parte il burro
e il midollo, effettivamente ricorrenti nella cucina meneghina, il riso
viene da Pavia, il parmigiano non è nostro, lo zafferano nemmeno».
(Ndr: affermazioni da “eco”, gratuite, a nostro parere motivato
storicamente)
Però il cosiddetto risotto alla milanese si è diffuso a
Milano e in Lombardia. «Certo, questa è la forza della cucina,
non è necessariamente legata a ingredienti locali». Esiste
una ricetta che possa essere considerata autentica? «Esisterà
pure, ma il mondo cambia, il nostro modo di intendere la cucina è
diverso da quello di una volta e anche le ricette si evolvono. Va salvaguardata
la qualità degli ingredienti, ma va lasciato spazio all'interpretazione».
Lei come interpreta il risotto alla milanese? «Dipende. Stasera
lo proporrò con grattugiato sopra del cacao, ingrediente leggermente
aromatico, con una punta acidula, che si fonde alla perfezione con la
dolcezza dello zafferano, senza alterarne il sapore».
NdR: L’articolo è riprodotto
con la clausola di responsabilità sopra esposta
ORYZA - Ripresentazione del capitolo La minestra di Milano, rivisitata
per il Convegno “Risi” e “panici” di Borgomanero,
3 settembre 2007
Il
divertimento col riso mi aveva dato la prima occasione di divulgazione
con la storia del minestrone, pubblicata nel 1995 in un piccolo volumetto
dal titolo “Un piatto di minestrone atipico al parco del Ticino”
(E. Lo Scalzo e R. Gabbani). Era un inno alla “paniscia del Ticino”
di Castelletto. Dall’occasione riprendo il tentativo di rielaborazione
della storia del minestrone alla milanese, archetipo del risotto, alla
luce di quanto è possibile immaginare, integrando col buon gusto
e buon senso la sequenza di ricette e di modi di esecuzione che dominano
la relativa letteratura specifica.
Rispetto alla riluttanza sia di Alberini che di Benporat al riconoscimento
di originalità a Milano per il suo risotto, ricordo il giudizio
di un grande gastronomo inglese, Sir Abraham Hayward, Q. C., in The art
of dining, Londra, prima edizione del 1852, di cui ho ammirato la sottigliezza
e appropriazione dei commenti e rilievi gastronomici sul “mangiarbene”,
esposti in una riedizione del 1899 con annotazioni di Charles Sayle.
Come mi è capitato altre volte di commentare, se Napoli è
famosa nel mondo per il pomodoro, Milano lo è per il riso nella
storia e fama della gastronomia, il Piemonte per la varietà tipica
del riso italiano. Di fatto il mondo gastronomico ha riconosciuto da oltre
un secolo questo “primato”. Ha ormai poca importanza discuterne
all’ombra del campanile..
Dalla geografia al Minestrone, attraverso “risi” e “panici”
L’orientamento verso nord della sfera d’influenza di Milano
diventa sempre più evidente a partire dal XIV secolo, col potenziamento
del traffico verso l’Europa “oltremontana”: funge meno
da confine il territorio oggi svizzero del cantone Ticino che quello al
di qua e al di là del fiume e del Lago Maggiore.
A parte i possedimenti dei Borromeo sulla sponda ovest del lago, amato
come soggiorno estivo da un selezionato numero di famiglie milanesi, lungo
il fiume, sotto Sesto Calende, i paesi lungo la sponda sinistra sono rarefatti;
Oleggio oggi è Piemonte e quel territorio resterà a lungo
dominato da Novara, non solo geograficamente. Dobbiamo scendere a Vigevano,
al di là de fiume, per ritrovare tradizioni lombarde.
Il territorio per il Ducato è prevalentemente riserva di sabbia,
brecciato, caccia ed agricoltura. Diminuiscono i rapporti di ritorno:
viene sviluppato solo il senso da ovest verso est, lungo i canali, soprattutto
per i trasporto di ghiaia e di sabbia. Grandi ville costruite lungo quei
percorsi dominano ad ovest, ma proseguono a nord di Milano.
Ne riscontriamo gli effetti anche nella tradizione gastronomica, che nel
novarese e Verbano ha sviluppato una linea autoctona, sia nella cucina
di campagna che della borghesia.
Negli anni ‘80 il conte Luigi Giannelli Viscardi, Delegato dell’Accademia
di Milano, tentò di organizzare un convegno interregionale sulla
tradizione della cucina sforzesca, rimasta vitale o perduta, in tutti
i territori del Ducato, nel periodo di massima espansione.
Quando l’amico Costantino Tromellini, delegato di Novara-Verbano-Ossola,
venne interpellato per la serata dedicata alle tradizioni culinarie milanesi-sforzesche
nel suo territorio, cercò a lungo di spiegare, e alla fine dovette
metterlo per iscritto per essere convincente, come, nonostante minuziose
ricerche, non avesse trovato proprio nulla di origine ducale nelle usanze
gastronomiche e di alimentazione, vecchie e nuove nel suo territorio!
Mutilata con seria motivazione, l’iniziativa venne rimandata ad
un nuovo avvento delle Signorie... e allo sviluppo del polo logistico
di Novara con quello di Busto e Malpensa, una volta scardinato con qualche
ponte in più il passaggio sul Ticino e superata la barriera provinciale
con Varese e Milano...
Quindi scarsa migrazione di tradizioni di tavola dal centro del Ducato
verso ovest, confermata oggi, in occasione di ogni incontro di approfondimento
sulla cucina delle radici.
Il Minestrone
Il minestrone, le cui origini certamente sono recenti, nasce a Milano
e immediati dintorni e vi resta con questa denominazione. Se fosse di
origine più antica, lo troveremmo diffuso anche in Piemonte, Emilia
e Veneto: nulla di tutto questo prima dell'edizione del Libro della scienza
in cucina e dell’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi o della
prima edizione del Re dei Cuochi di Nelli. Solo la Liguria, da cui arrivano
sale e verdura fresca nelle stagioni ancora poco adatte agli orti locali
ricopia in edizioni quasi sempre senza riso la diffusione della pietanza...
Strano, e lungo le sponde del Ticino?
Alla ricerca di radici popolari, sulle prime non riusciamo a convincere
un ristoratore sulle sponde del Ticino a cucinare un tradizionale minestrone
in occasione di una visita al Parco del fiume: da Severino però
è stata risuscitata la “paniscia”, quasi un “riso
con verdure”...
Diciamo subito che è più un “risotto” simile
ai “risi con” del Veneto che alla “panissa” o
“panizza” vercellina, che non hanno nulla a che vedere con
l’altra “panissa”, quella ligure!
Sarebbe interessante approfondire l’etimologia delle due denominazioni
che contengono la radice “pan-”: essa potrebbe richiamare
sia il cereale quanto il concetto di “tutto” dal greco “Pan”
(dio Pan, divinità campestre e pane) col significato di “molteplicità”
d’ingredienti compreso il riso.
Veniamo al minestrone: possiamo fare un’ipotesi
di nascita? Quando è nato? Dove? Chi avrà cominciato?
È indubbio che minestre o zuppe si cuociono da quando ci sono i
recipienti per fare brodo e bollire a lungo, nelle case. Più facilmente
in campagna che in città. Gli strumenti di cottura tuttavia non
sono popolarmente diffusi fino al ’700, ed è più frequente
l’uso di bollire in grandi pentolacce per una comunità allargata
che in piccole e medie pignatte per l’alimentazione d’una
sola famiglia.
Le grandi cucine del Rinascimento, nelle ville o palazzi, hanno in dotazione
gli strumenti, tuttavia l’organizzazione della casa popolare o borghese
con una cucina che assomigli a quelle moderne ha luogo solo dopo la rivoluzione
francese, come evoluzione socialmente diffusa. Il consommè deriva
il nome dal brodo servito in Francia agli ostelli durante il cambio dei
cavalli... Anche in Spagna è rimasta la denominazione di “caldo”.
Quindi ritengo corretto pensare al primo Ottocento come periodo in cui
possa diffondersi una tecnica di preparazione culinaria di non difficile
esecuzione e di basso costo, realizzabile con strumenti di casa ormai
a disposizione quasi di tutti. Ci troviamo, tra la fine del ’700
e i primi decenni del ’800, in periodo di dominazione austriaca
a Milano. L’intermezzo di Napoleone e della Repubblica Cisalpina
stimola la nuova primavera, riprende la costruzione di strade, monumenti,
scuole e palazzi che si aggiungono alla fama della Scala e fanno decollare
Milano come grande città europea. La darsena è alimentata
con i materiali del sistema fluviale che più ne è ricco;
con i materiali arrivano gli accompagnatori e le loro usanze.
Cosa c’era di più comodo da portare, che restasse buona al
caldo o freddo a tutte le ore, tiepida o fredda d’estate, facilmente
riscaldabile sui carboni in una latta sulla zattera, che una pentola di
paniscia, arricchita di cotiche e accompagnata da buon pane?
Si tratta dell’alimentazione più classica, completa del territorio
da cui arrivano ciottoli per strade e carrobbi per carri e carrozze: anche
i cittadini la conoscono, l’assaggiano e se ne innamorano rapidamente.
Forse sono i milanesi ad aggiungere le patate ed il pomodoro, già
a disposizione dei cittadini dopo le campagne di Napoleone, come a Genova.
La preparazione è solo lunga, ma, fatto il battuto e pulite le
verdure, sulla stufa a legna o carbone non c’è assillo di
tempo, senza bisogno di stare attenti a soffriggere... quindi “non
risotto”... ma lunga bollitura a fuoco basso...
All’inizio del ’800 a Milano la letteratura culinaria è
praticamente inesistente e non è diffusa quella degli altri territori.
Conferma Livio Cerini: “... si avverte nel paese una certa sterilità
di pensiero gastronomico e carenze di seri ricettari che si sono trovati
per tutto il secolo sempre genuflessi davanti allo straniero...”.
Senza un Re e senza rivoluzione, Milano eleva finalmente la buona cucina
del territorio a cucina raffinata. Riprende Cerini : “... un fenomeno
lento che non riuscì a eliminare le differenze regionali e che
non ebbe alcun codificatore: in Italia si cucina ancor oggi parlando in
dialetto. A nessuno, e neppure ad un buontempone venne in mente di dire:
ora facciamo la cucina italiana!...”
Il clima della Repubblica Cisalpina era ideale per un abbraccio tra la
paniscia del Ticino e la sua promozione a minestrone. Sarà vero?
Non abbiamo prove, né a favore, né contro. È solo
un’ipotesi. Ma ormai ci sono affezionato!
Un divertimento: il minestrone atipico del Ticino o “paniscia”.
Era
nel territorio di Cuggiono la pietanza di quasi tutti i giorni: la grande
scodella per il nonno e il papà, le medie scodelle per i ragazzi,
riempite magari due volte; quella sbucciata all’orlo per la mamma,
sacrificata in cucina: densa e fumante, oppure riscaldata e saltata in
padella nelle occasioni successive, magari con l’aggiunta di un
po’ di burro, quando c’era. Siamo in Lombardia, ma questo
minestrone “atipico” ha un nome piemontese, dell’altra
sponda del Ticino, si chiama “paniscia”. Il nome mi suggerirebbe
la derivazione da una zuppa molto densa di pane con le verdure, mangiare
di campagna certamente antico come l’uomo, che in un territorio
di caccia e pesca, quando è cattivo tempo, deve accontentarsi di
quello che si possa conservare. Il pane si nobiliterà alternandosi
successivamente col riso, accessibile dalla vicina Novara a tutta la popolazione,
conservabile anche di nascosto alle scorribande dei soldati di ventura
che nel ‘600 rovistano e rubano alimenti d’ogni genere, ma
mantiene il nome di paniscia,
È un’ipotesi non comune, da dimostrare o da cancellare! Cerchiamo
di confermare la trasversalità della preparazione ancestrale delle
ultime generazioni, ben descrittaci da Severino Merlo, che da anni ne
ha perpetuato a Castelletto, da Mario al Pescatore, riportandola al gusto
inconsapevolmente piacevole dell’avventore d’oggi.
La paniscia, minestrone atipico del
Naviglio.
Col lardo stagionato (è fresco solo
in inverno, all’uccisione del maiale) si fa un battuto, senza prezzemolo,
con cipollotte bianche. Se c’è si profuma e si aromatizza
con un po’ di pancetta e una punta di mortadella di fegato. Il maiale
è sempre l’animale di terra di riferimento, anche in questo
territorio, dove può diventare selvatico e fare danni scorrazzando
in aree caratterizzate da fitto bosco di pioppi, lecci, querce, faggi,
bosso, sambuco, corniolo, carpino, frassino, nocciolo e ben irrorato da
fontanili e rogge.
Il battuto viene tuttavia oggi “soffritto” inizialmente, per
poi tostare nel suo condimento il riso e bagnarlo con un vino locale,
tipicamente una Barbera. È il modo di far risotto del novarese
e del biellese. Quindi, m’immagino senza averne cercato la conferma,
anche di Borgomanero...
Le verdure? Sono state cotte a parte, in acqua arricchita dal brodo di
un buon osso. Nei giorni di festa, in campagna, ci si procurava uno stinco
per completare il desinare anche con la carne!
Quali verdure? quelle che c’erano, ma non mancava mai zucca o zucchette,
patata e verza, e i borlotti di Vigevano, in tutte le stagioni. In primavera
si aggiungeva un pomodoro, della famiglia dei multi lobati, che chiamiamo
oggi liguri o Montecarlo o Cuore di bue.
Ho chiamato questa paniscia familiare, casereccia, di Castelletto di Cuggiono,
“minestrone atipico del Naviglio”, arrogandomi la superbia
di modificarne la denominazione originale: lo scopo è solo di servirmi
di questo episodio, vero, per sostenere la tesi che il “minestrone
alla milanese”, piatto portato in vacanza anche in Brianza, come
appare dalla letteratura, nato forse spontaneamente intorno alla metà
del ’800, potesse essere derivato da questo lontano parente. Un
giorno, per confermare la tesi, ho portato anche la signora Ottorina Perna
Bozzi, autrice ancora in vita – per quanto ne so anche quest’anno
lo è – a Milano, autrice di riferimento della cucina milanese
e lombarda di ogni piccolo territorio dell’intero novecento... E’molto
probabile che, assieme a quarzo ed ai ciottoli, il Naviglio non abbia
portato a Milano dalle rive di destra e di sinistra del Ticino questa
pietanza antica. A quel tempo a Cuggiono si mangiava paniscia a colazione,
pranzo, cena a casa ed in campagna.
Controcorrente, cioè dal Veneto, avrebbe potuto giungere notizia
del “risoto de robinassi”, che si usava in campagna con il
riso d’Isola della Scala cotto con tutti gli avanzi: oppure è
stata la paniscia a percorrere tutta la pianura padana e consolidarsi
in forme più o meno borghesi e campagnole in funzione dell’ambiente
sociale trovato localmente?
Personalmente sono dell’opinione che le zuppe di pane e verdure,
tipiche pietanze delle comunità monastiche, di buona tavola anche
nei frequenti giorni di digiuno, note da tanto tempo ancor prima della
testimonianza lasciatici da Maestro Martino, fossero diffuse in tutto
il territorio fluviale padano; non dimentichiamo quale amore per gli orti
avessero i monaci benedettini (dal santo di Norcia, 480-543), e quale
apporto allo sviluppo della tecnologia agricola abbia fatto seguito con
la riforma dell’ordine di San Bernardo agl’insediamenti di
Cistercensi, dall’aratro ad avantreno per i terreni alluvionali,
ai molini ad acqua, alle chiuse a doppia porta, all’orologio meccanico
(XIII-XIV secolo)..., presenti in Piemonte, Lombardia fino all’Italia
del sud. Ne deriverà uno stimolo alle Signorie e soprattutto alla
coltivazione del riso...
Ne parleremo in un altro quaderno. Per ora, godiamoci i sapore del minestrone
atipico, o di paniscia del Ticino, accompagnato, come nelle vere feste,
da buoni insaccati di carni, di bosco e di cortile, di tradizione tutta
locale per il rinforzo alle proteine di fiume.
Il Minestrone Milanese ed i suoi
ingredienti
Per
sintetizzare le notizie sugli ingredienti, senza inseguirne le varianti
faremo riferimento alla descrizione di Goldschmied: riso, lardo, patata,
pomodoro, zucchine, carote, sedano, fagioli, prezzemolo, aglio, salvia,
Parmigiano. Resta aperta l’opzione ad altri ortaggi scelti con gusto
stagionale ed estetico.
Riso: l’antichissima Oryza sativa
è fondamentale per il minestrone alla milanese, era stata introdotta
forse dai Benedettini qualche secolo prima ma certamente coltivata in
discrete quantità nel XVI secolo nel Ducato, in particolare nei
territori irrigati della Lomellina, del novarese, lungo i navigli. Il
riso era noto da molti secoli per le sue coltivazioni arabe in Sicilia
e in Spagna anche prima del X secolo.
Lardo: il suo uso è antichissimo, fresco, a cotenna morbida. Si
usa separare la cotenna dal lardo con un coltello grande, ben caldo. La
pelle bruciacchiata sulla fiamma per togliere i peli residui, poi, sbollentata
e tagliata a quadrettini più piccoli di un francobollo o a striscioline,
andrà aggiunta col battuto. La parte grassa è pestata con
odori ed erbe aromatiche col coltellone caldo e quindi dispersa nell’acqua
prima della bollitura delle verdure.
Patata: di origine centro americana, è stata tra i primi prodotti
naturali importati in Europa, dopo un esordio poco rassicurante in occasione
di una carestia in Irlanda. Il tubero verrà studiato a lungo negli
orti botanici delle università e solo nel settecento sarà
impiegata con buon accoglimento in cucina in Francia. Napoleone ne ordina
la coltivazione in Liguria per editto vescovile nel 1796 e si fa promotore
della sua coltivazione anche in Lombardia nel ’97. Da allora non
verrà più abbandonata e si diffonderà come tutti
sanno, soppiantando la coltivazione millenaria della pastinaca.
Pomodoro: di origine messicana, si diffonde nel mondo soprattutto per
il protagonismo di Napoli, a partire dalla fine del Settecento. Ecco uno
dei motivi per non condividere eventuali precursori al minestrone nella
sua corretta definizione, ormai accettata internazionalmente solo come
milanese e genovese e che comprende quest’ingrediente fin dalle
origini.
Zucchine: anche la zucchina italiana, Cucurbita pepo, è originaria
delle Americhe e si è diffusa rapidamente in Italia e in Europa
negli ultimi secoli. Un tempo si consigliava solo freschissima, al massimo
entro tre giorni dal taglio. La varietà “zucca”, già
presente in Europa, fa parte della stessa famiglia ed è conservabile
per tutto l’inverno.
Carote: di origine europea, Daucus carota, era già coltivata dagli
olandesi nel Medio Evo. Appartiene alla famiglia botanica che comprende
anche la pastinaca.
Sedano: i coltivatori italiani hanno ricavato quest’ortaggio, Apium
graveolens, dal sedano selvatico. È tipicamente nostrano nel caratterizzare
le minestre, come gli ortaggi già citati.
Fagioli: si usano anche bianchi di Spagna, o bianchi grossi, ma soprattutto
i borlotti (Faseolus vulgaris). Sono di varia origine, ma il borlotto
è varietà tipicamente coltivata in Italia del nord; il bianco
di Spagna ha origini americane, come il Boston. Sono molto differenti
dai fagioli asiatici.
Le preziose varietà di Veneto e Toscana... hanno altre destinazioni...
Prezzemolo: ha origini mediterranee; ne esistono anche varietà
diverse da quella tipicamente italiana, che si presta a essere finemente
tritata nel battuto (Petrosilinum crispum).
Aglio: originario dell’Asia, fin dai tempi antichissimi era usato
da Egizi e Cinesi. L’Alium sativum ha la proprietà di esaltare
i sapori di un’infinità di piatti. In ogni regione esistono
varietà particolarmente pregiate.
Salvia: erba aromatica diffusissima e conosciutissima. L’uso nelle
minestre è tipico in particolare della Lombardia e della Liguria,
più che in altre regioni, per la tendenza a conferire un gusto
predominante sui sapori più delicati. È necessaria una buona
dose di sapienza per regolarne l’entità.
Parmigiano: tra i formaggi più antichi e nobili è tipico
della pianura padana. Il suo uso è caratteristica fondamentale
che fa del minestrone una pietanza tipicamente regionale. A Genova è
ingrediente del pesto “della nobiltà”, rispetto all’uso
più popolare del disponibile e forte Pecorino.
Una testimonianza fuori dubbio
Nella rivisitazione delle più antiche ricette, data l’ampia
diffusione del piatto, la semplicità dell’esecuzione, la
varietà degli ingredienti, le tradizioni di bollitura o sobbollitura
in funzione delle attrezzature di cucina, riteniamo che come prima testimonianza
di riferimento debba essere citata quella di Giovanni Rajberti (1805-1861),
medico-scrittore-gastronomo. Mi ricorda lo stile dell’amico Giovanni
Goria, avvocato-scrittore, di Asti, a cui non abbiamo fatto in tempo a
chiedere un parere sulla attendibilità della nostra tesi, ma che
a tutt’oggi non ne ha mai contestato la probabilità di essere
ipotesi credibile
Nella “Arte di convitare” il
Rajberti racconta:
“... A proposito, che cosa ci dai oggi per minestra?
- Se te lo dico, tremo d’una tua fierissima confutazione.
- Via, parla; già dobbiamo saperlo a momenti: vedrò di usare
indulgenza.
- Ti do una minestra di cavoli, risi e fagiuoli, con un pochettino di
sedano e carote, brodo superbo di manzo e cappone, un poco di salsa di
pomi d’oro, una buona pestata di lardo e quattro fettine di cotica
di maiale.
- Ah, Giorgio, mi hai toccato il cuore! Senti: tu puoi fallare perché
manchi di un’esperienza di genere distinto, ma in fondo hai ottime
disposizioni e io spero di farne un uomo.
Ciò che tu mi hai descritto timidamente e in aspettazione di un
rimprovero, è nientemeno che la galba (minestra) per eccellenza
del nostro buon popolo milanese, la minestra delle minestre che noi perciò
onoriamo col nome energico di “minestrone”, del quale beato
chi può cibarsene alla sera, così in piedi, una scodella
fredda, se anche fosse reduce della mensa di Epulone: giacché per
certe vivande un posticino si trova sempre.
E la si mangia dopo averla, direi quasi, vangata col cucchiaio, che vi
resta dentro confitto come la zappa in fertile terreno inumidito appena
da un po’ di pioggia.
Delizie ineffabili, riservate ai ventricoli omerici della gente alla buona,
e sconosciute perfino ai monarchi”.
Con questa testimonianza, possiamo procedere
alla rassegna delle varianti rispondenti all’idea del minestrone
e della paniscia che ci siamo fatti per questa occasione di “Risi
e panici” del 2007.
Enzo Lo Scalzo
Testo ripreso dal 1° Tomo di Oryza, edizione 2001, dello stesso autore
e rielaborato per il 2° Tomo in preparazione di stampa
|
|
|