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Risotto superstar – Febbre Gialla – Risotto di Milano e una sua storia

Oggi, 21 gennaio, Paolo Marchi titola “Critici bocciati, i golosi votano un altro risotto”.
Nella giornata dedicata alla cucina italiana del mondo che cade ogni 17 gennaio, quest’anno è stato il turno del Risotto, fatto coincidere dai cuochi italiani nel mondo con il Risotto allo zafferano, che una giuria di esperti ha celebrato aggiudicandone la bontà al cuoco Silvano Prada del Four Seasons.

Il Risotto milanese, che nella seconda parte dell’Ottocento era noto come “Minestra di Milano” nelle citazioni londinesi e non si poteva confondere con il “Riso Piemontese” della letteratura gastronomica francese che ne attribuiva la denominazione alla particolare coltura del riso, è stato oggetto di confuse informazioni, sulle quali lo stesso Giuseppe Verdi intervenne a darne definitiva testimonianza per competenza a Parigi. In questi mesi il professore Alberto Salarelli, (tel. +39-0521-902272 (office) e-mail: alberto.salarelli@unipr.it) della Dip. dei Beni Culturali e dello Spettacolo - Sez. Beni Librari, dell’Università di Parma risponde ad una lettera d’auguri e di aggiornamento sul suo impegno di studio sul Risotto, anzi del Risotto alla Milanese indetto per la comunità gastronomica di tutto il mondo, mi ha stimolato a richiamare dai miei archivi d’autore i libri, libretti, conferenze e memorie sul tema “Storia e Tradizioni del riso italiano a tavola”, in parte accessibili anche sul web, in particolare nel sito www.oliopepesale.com, che conserva le comunicazioni della Delegazione Milano Internazionale della AIC, ricche di informazioni e documenti sul tema e sulle manifestazioni di successo organizzate con Il Comune di Milano e con la Regione Lombardia a ridosso del 2000.
Il 1° tomo di Oryza è esaurito, stampato in 300 copie il 25.02.2001, da Reggiani SpA Varese – Stampa digitale, per Lo Scalzo Associates e Accademia Italiana della Cucina. Il Secondo tomo… finalmente è in fase di preventivo di stampa, dopo 4 anni d’archivio e di altre indagini, in parte riflesse nella presentazione fatta a Borgomanero, Novara, nel 2007, su Risi e Panici.
Ho chiesto un aggiornamento al professore in quanto sono stato stimolato dalle favole comparse sabato scorso sul primo giornale d'Italia, di cui riproduco l’articolo, e dalle opinioni di un candidato alla classifica di primo chef d'Italia... che di tanto in tanto baldanzosamente "spara" in quanto la stampa "fa eco"… D'altro canto, anche il grande Escoffier non aveva capito nulla di “risotto”, tesi che dimostro nel 2° Tomo di Oryza e che ho avuto modo di commentare personalmente con il nipote del grande chef in occasione di un incontro alla Fondazione Escoffier a Villeneuve Loubet, Nizza di qualche anno fa.
Ritengo didascalica questa brevissima antologia dei due articoli apparsi in data 17.01 su Il Corriere della sera e Il Giornale in quanto rivelano approcci di divulgazione e comunicazione di differente impostazione. Ho aggiunto dai miei archivi il testo di una recente conferenza sulle origini della Minestra di Milano che ha fatto agio nella seconda metà dell’Ottocento sulla denominazione di Risotto per giustificare la fatica dell’attraversamento delle Alpi, che si doveva fare in carrozza! Il viaggio venne fatto da sir Habram Hayword, per incontrare Alessandro Manzoni, e visitare Milano, che ne ha pubblicato la cronaca in un interessante testimonianza, ripresa e ripubblicata dalle edizioni Viennepierre, Milano, pochi anni fa.

E.LS

La storia del Risotto, a parere dello scrivente, ha un filo di collegamento diretto con quella della Minestra di Milano, conseguente alla variante di preparazione di soffritto introdotta e citata nella prassi cucinaria lombarda dal maceratese Antonio Nebbia (Il Cuoco maceratese, 1781) e dal trentino Don Felice Libera (L’arte della cucina, ricette di libri e di dolci, manoscritto trentino del XVIII secolo attribuita al 1780). In Oryza – 1° Tomo – è presente un capitolo con storia e antologia di ricette che ne rappresentano l’intera evoluzione fino ai giorni nostri. La ricetta di riferimento moderna e storica è ripresa dalla ripubblicazione anastatica delle opere di Ottorina Perna Bozzi, che fa seguito alle primissime ricette popolari e borghesi condite con “cervellato milanese”, il cui uso cessa nella prima metà dell’Ottocento.
E.LS

Risotto "alla milanese" (ris giald)
(da Ottorina Perna Bozzi - da Milano in cucina, commentata per il ricettario della Lombardia, Accademia Italiana della Cucina, 1998-99)

Fino al 1909, quando Milano era ancora dei Milanesi, ho sempre mangiato risotti senza vino né birra (orrore), come dalle ricette del 1809, 1821, 1843. Il "cervellato" non si trova più e viene sostituito dal midollo o dal sugo d'arrosto(19) I pistilli di zafferano, garanzia di zafferano autentico, si possono trovare dagli erboristi o nelle zone di produzione, a San Gavino in Sardegna e all' Aquila in Abruzzo... (Ottorina Perna Bozzi)

(Oryza: Nota 19) Giuseppe Sorbiatti, nel 1866, cuoco lombardo, consiglia di arricchire il riso allo zafferano con sugo d'arrosto, ossia del famoso "gras de rost", versione meneghina della prestigiosa "demiglace" della grande cuisine. Questo suggerimento, sottolineato da Massimo Alberini, fa parte, come bene divulga Ottorina Perna Bozzi, dell’abitudine di avere sempre disponibile il fondo degli arrosti, soprattutto nelle cucine della borghesia, use a questo tipo di cotture da parte delle cuoche di casa.

Ricetta attuale

Ingredienti per sei persone:
Dodici pugni di riso (carnaroli, arborio o vialone), 50 g di burro, 30 g di midollo tritato, 2 cucchiai di grasso d'arrosto (1) di manzo chiaro e scuro, 1-2 litri di brodo bollente ristretto (el brodon), una cipollina, mezzo bicchiere di latte o panna o un pezzetto di burro crudo, un ciuffo di pistilli di zafferano o una bustina di zafferano, Parmigiano Reggiano o Grana Padano grattugiato

(1) - Se manca il grasso di arrosto, mettere 60 g di midollo di bue tritato invece di 30. Si possono aggiungere 20 g di funghi secchi oppure 1 tartufo bianco affettato sopra il risotto al momento di portarlo in tavola. Parmigiano abbondantissimo.

Mettere in una casseruola il midollo, il burro, il sugo di arrosto e la cipolla affettata sottile; lasciatela cuocere dolcemente a fiamma bassa per farle prendere un colore dorato. Versare il riso e rimescolarlo bene perché possa assorbire il condimento. A questo punto alzare la fiamma e iniziare a versare sul riso il brodo bollente, a mestoli, vero e non di dado, continuando a rigirare con un cucchiaio di legno. Man mano che il brodo evapora e viene assorbito, continuare a cuocere sempre a fuoco forte e aggiungerne dell'altro a mestoli fino a cottura ultimata, stando attenti che il riso resti al dente (da 14 a 18 minuti). Cotto che sarà per due terzi, lo tingerete con lo zafferano sciolto nel brodo.
Tenere conto che una volta si usava lo zafferano in pistilli, e perciò si metteva ai due terzi di cottura per dargli il tempo di sciogliersi, ma che, se è in polvere, conviene metterlo all'ultimo per non disperderne il profumo.
I funghi, tenuti a bagno 30 minuti prima, si mettono col riso.
In ultimo aggiungere un pezzo di burro, un bicchiere di latte o di panna. Il risotto va tenuto piuttosto liquido (all'onda), ossia i chicchi devono essere ben staccati, ma legati fra loro da un insieme cremoso.
Si serve con vino rosso(*), a differenza delle altre minestre. I veri milanesi lo mangiano col cucchiaio.

(*) I "brianzoli" e i "milanes arios" bagnano il riso con vino rosso, prima di aggiungere il brodo.

18.01. 2009 - Lettera dal professore Alberto Salarelli, Dip. dei Beni Culturali e dello Spettacolo - Sez. Beni Librari - Universita' di Parma (Italia) - Via D'Azeglio 85 - 43100 PARMA
tel. +39-0521-902272 (office) e-mail: alberto.salarelli@unipr.it

Caro Lo Scalzo,
che piacere risentirla! Ricambio di cuore gli auguri per l'anno appena iniziato che - ho letto pochi minuti fa l'articolo di Paolini sul Domenicale - si apre all'insegna del risotto. Molto bene!
La lettura di Oryza (volume che poi ho recuperato sia alla biblioteca dell'Accademia Italiana della Cucina, sia in quella della Barilla a Parma) è stata a tal punto illuminante che la mia ricerca sulle origini del risotto si è ampliata ben oltre le mie aspettative. Direi che è un buon segno. Ormai comunque mi manca più o meno l'ultimo capitolo, quello dedicato al Novecento. Conto di terminare la redazione in tempi brevi: mi piacerebbe che la ricerca venisse pubblicata entro l'anno, appunto
per festeggiare la ricorrenza risottifera.
Ad ogni modo la terrò aggiornata. Già che ci sono Le chiedo una cosa: fra i vari testi nei quali mi sono imbattuto, si citano due opere che non ho reperito in nessuna biblioteca e in nessuna bibliografia specializzata:
- La cuciniera che insegna il buon gusto a cucinare alla casalinga, almanacco dilettevole e istruttivo per l'anno 1809, Milano, Giuseppe Borsani, 1808.
- Il cuoco di buon gusto ossia modo facile per cucinare alla portata tanto de' servitori di campagna, che di città, come pure delle serventi, e di qualunque altra persona che dilettasi di cucinare, Milano, Pulini, 1808.
Sono entrambi citati nel portale "www.culturagastronomicaitaliana.it" al quale mi sono rivolto per avere lumi che sto ancora attendendo. Lei, per caso, sa dove potrei consultarli? Li vedo menzionati entrambi da Benporad nella sua "Storia della gastronomia italiana", eventualmente mi rivolgerò direttamente a lui. Un saluto cordialissimo, A. S.

La risposta:
Carissimo, le farò sapere, intanto ho preavvertito Claudio e Simona Benporat della sua ricerca... Claudio aveva oltre 700 opere storiche.. E forse sono tante di più... Se posso esserle utile a Milano, ad esempio proverei a chiedere anche a Eugenio Medagliani e ad Alex Guzzi... o a Hoepli o a Lugano. Cordialissimi auguri!

N.B. Ogni notizia proveniente dai nostri giornalisti e associati ASA è graditissima!
E.LS.


Da Il Giornale, 17 gennaio – Edizione di Milano - Al risotto di Milano l’oscar della creatività di Paolo Marchi

Mai come in questi giorni si è parlato di Risotto allo zafferano. Il piatto per antonomasia della cucina milanese è stato scelto dal Gvci, il Gruppo virtuale cuochi italiani, per celebrare oggi la Giornata dell’orgoglio della cucina italiana. L’anno scorso tocco alla Carbonara, l’anno prossimo chissà. La scelta cade su una ricetta di sicura italianità e di conclamata popolarità, una squisitezza che tutti gradiscono, in particolare quando viene offerta loro inattesa e gratuita. Il presidente dell’associazione, Mario Caramella, in forza all’Hyatt di Bali, ha riportato nel sito, <itchefs-gvci.com>, la ricetta-base perché chi avesse dei dubbi possa consultarla.
Contrariamente a quello che tanti pensano, anche la tradizione è in movimento e i passi si stratificano. Un tempo era vangelo sostenere che «il riso nasce nell’acqua e muore nel vino». Ora non più: a iniziare da Gualtiero Marchesi, il vino è stato abolito e dopo il soffritto si passa subito alla cottura, una partenza che vede diversi evitare anche le cipolle. Guai poi celebrare il risotto che si attacca sul fondo della padella e conferisce alla massa uno sgradevole odore di bruciato. L’affumicatura è tutt’altra cosa.
Il risotto poi dovrebbe essere al dente, guai non fosse così per noi anche se gli spagnoli, gli altri maestri europei del riso, non sono affatto d’accordo e ci contrappongono la cultura della paella. A ognuno la sua cultura, però è giusto ricordare che a Milano, un maestro come Carlo Cracco ama proporre il riso come crema, anche in versione gialla con un midollo intero al centro (e non come un tempo all’inizio, usato al posto del ben più costoso burro). Pure per questo è il cuoco italiano più famoso in Spagna, per la mancanza di dogmaticità che speso inchioda un cuoco al passato e alla sterilità perché se tutto è scritto e deciso, perché ragionare?
Un tempo, ad esempio, il risotto giallo partiva dalla cervellata, sorta di salsiccia speziata con lo zafferano, troppo costoso perché tutti ne disponessero a piacimento. Non basta: il formaggio perfetto per la mantecatura era il Lodigiano, cugino gagliardo del Grana Padano, estinto da almeno vent’anni.
Importante notare come da un anno, seguendo il lavoro di alleggerimento di Marchesi (lo stesso che ha reso il piatto più ricco per via della foglia d’oro al centro) suoi allievi stanno togliendo anche lo zafferano dalla fase di cottura per unirlo alla fine. Paolo Lopriore a Siena strega con un Riso giallo (e non risotto...) che in pratica è un riso consumato bianco, con lo zafferano vaporizzato con uno spray oltre a quello in stimme, più polpa di pompelmo essiccata e polverizzata, nonchè due bottoni di «sorbetto» di pompelmo. È un caos primordiale, mentre Davide Oldani a Cornaredo è l’ordine: pone un midollo di vitello al limone al centro e versa su un risotto alla pavese una crema allo zafferano a mo’ di spirale. Morale: il Risotto alla milanese prevede che arrivi a tavola giallo di zafferano. Tutto il resto è pensiero.

Da Il Corriere della Sera. 17.01.2009 (dalla copia telematica)

Risotto superstar 900 chef ai fornelli da Tokyo a Bali (18/01/09 14:13)
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ZAFFERANO DAY IN 70 PAESI SI CELEBRA LA RICETTA MILANESE
Risotto superstar 900 chef ai fornelli da Tokyo a Bali
E al Macef prepareranno mille porzioni Leeman: «Il mio trucco? Una goccia di limone».
Oldani: «Niente vino bianco, né soffritto di cipolla per noi sedentari»

Altro che pizza e spaghetti, la star della gastronomia italiana è il risotto alla milanese. O almeno così sarà oggi: in occasione della Giornata Internazionale delle Cucine Italiane il più classico dei piatti meneghini sarà infatti proposto in 150 ristoranti in tutto il mondo. La ola globale al sapor di zafferano è promossa dal Gruppo Virtuale Cuochi Italiani, nato nel 2001: un network di circa 900 chef che lavorano in oltre 70 Paesi nei diversi continenti e che si incontrano quotidianamente in un forum su Internet per scambiarsi pareri su alimenti e ricette, in difesa del made in Italy. «Quando si usa il nome di una specialità tipica italiana la si deve cucinare secondo la tradizione», dice Mario Caramella, tra i fondatori del GVCI e chef di un noto ristorante a Bali. «Per questo celebriamo il risotto alla milanese: è uno dei piatti più taroccati del pianeta, lo preparano in modo
sbagliato non solo gli stranieri, ma persino molti cuochi italiani che vivono da troppo tempo all' estero». E allora, tutti ai fornelli. Per partecipare alla super-risottata Valter Gosatti del The Ivy di Ulan Bator si è fatto spedire apposta gli ingredienti dall' Italia. Andrea Tranchero dell' Armani di Tokyo ha pronta da giorni una locandina in giapponese per pubblicizzare l' iniziativa. Frederik Farina del Grand Hyatt Hotel di Bangkok si sta allenando tra mestoli, ramaioli e casseruole. Ovviamente la nostra città farà la sua parte. Stasera il risotto giallo sarà protagonista in una trentina di ristoranti: dal Cracco Restaurant al Joia di Pietro Leeman, dal D' O di Davide Oldani a Il Luogo di Aimo e Nadia, dal Sadler a El Brellin. E a mezzogiorno al Macef ne saranno preparate più di mille porzioni, mentre riceverà la Padella d'Argento come cuoco dell'anno Emanuele
Lattanzi, salito agli onori della cronaca per aver salvato la figlia Clarice durante l' attacco terroristico di Mumbai.
Ma qual è la ricetta autentica del risotto alla milanese? Tutti conoscono la leggenda secondo cui il celebre piatto meneghino sarebbe nato nel 1574 dall' idea di un artigiano di mettere nel riso un pò dello zafferano con cui era solito preparare i colori per le vetrate del Duomo, per far colpo sugli invitati del suo banchetto nuziale. (Ndr: Questa favola è ripresa sempre più frequentemente, anche da parte di relatori di rilevanza nazionale: si tratta chiaramente di un falso storico, supportato da un quadro d’epoca erroneamente interpretato)
Pochi concordano sulle modalità di preparazione. «Io seguo lo schema classico - spiega
Pietro Leeman -. Faccio sudare la cipolla con un pò di burro, tosto leggermente il riso con lo zafferano, poi lo bagno con il vino bianco e aggiungo il brodo poco alla volta, in modo che venga assorbito lentamente. Infine condisco il tutto con il parmigiano. Ma ho un trucco: aggiungo una goccia di succo di limone per aumentare la freschezza».
Pensa ai tempi che cambiano Davide Oldani: «Rispetto ai nostri nonni conduciamo una vita
sedentaria, va bene mantenere i sapori di una volta, ma bisogna alleggerire: niente soffritto di cipolla né vino bianco».
Raffaella Oliva

Segue il Controcorrente Carlo Cracco:
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Oliva Raffaella - Pagina 19 (17 gennaio 2009) - Corriere della Sera
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«Ci grattugerò sopra del cacao...» Il risotto alla milanese non è veramente milanese. Parola di Carlo Cracco, chef dell'omonimo ristorante di via Victor Hugo: «Ciò che rende particolare questo piatto è che, a dispetto del nome, si prepara con ingredienti che con Milano hanno poco a che fare: a parte il burro e il midollo, effettivamente ricorrenti nella cucina meneghina, il riso viene da Pavia, il parmigiano non è nostro, lo zafferano nemmeno». (Ndr: affermazioni da “eco”, gratuite, a nostro parere motivato storicamente)
Però il cosiddetto risotto alla milanese si è diffuso a Milano e in Lombardia. «Certo, questa è la forza della cucina, non è necessariamente legata a ingredienti locali». Esiste una ricetta che possa essere considerata autentica? «Esisterà pure, ma il mondo cambia, il nostro modo di intendere la cucina è diverso da quello di una volta e anche le ricette si evolvono. Va salvaguardata la qualità degli ingredienti, ma va lasciato spazio all'interpretazione». Lei come interpreta il risotto alla milanese? «Dipende. Stasera lo proporrò con grattugiato sopra del cacao, ingrediente leggermente aromatico, con una punta acidula, che si fonde alla perfezione con la dolcezza dello zafferano, senza alterarne il sapore».

NdR: L’articolo è riprodotto con la clausola di responsabilità sopra esposta


ORYZA - Ripresentazione del capitolo La minestra di Milano, rivisitata per il Convegno “Risi” e “panici” di Borgomanero, 3 settembre 2007

Il divertimento col riso mi aveva dato la prima occasione di divulgazione con la storia del minestrone, pubblicata nel 1995 in un piccolo volumetto dal titolo “Un piatto di minestrone atipico al parco del Ticino” (E. Lo Scalzo e R. Gabbani). Era un inno alla “paniscia del Ticino” di Castelletto. Dall’occasione riprendo il tentativo di rielaborazione della storia del minestrone alla milanese, archetipo del risotto, alla luce di quanto è possibile immaginare, integrando col buon gusto e buon senso la sequenza di ricette e di modi di esecuzione che dominano la relativa letteratura specifica.
Rispetto alla riluttanza sia di Alberini che di Benporat al riconoscimento di originalità a Milano per il suo risotto, ricordo il giudizio di un grande gastronomo inglese, Sir Abraham Hayward, Q. C., in The art of dining, Londra, prima edizione del 1852, di cui ho ammirato la sottigliezza e appropriazione dei commenti e rilievi gastronomici sul “mangiarbene”, esposti in una riedizione del 1899 con annotazioni di Charles Sayle.
Come mi è capitato altre volte di commentare, se Napoli è famosa nel mondo per il pomodoro, Milano lo è per il riso nella storia e fama della gastronomia, il Piemonte per la varietà tipica del riso italiano. Di fatto il mondo gastronomico ha riconosciuto da oltre un secolo questo “primato”. Ha ormai poca importanza discuterne all’ombra del campanile..


Dalla geografia al Minestrone, attraverso “risi” e “panici”

L’orientamento verso nord della sfera d’influenza di Milano diventa sempre più evidente a partire dal XIV secolo, col potenziamento del traffico verso l’Europa “oltremontana”: funge meno da confine il territorio oggi svizzero del cantone Ticino che quello al di qua e al di là del fiume e del Lago Maggiore.
A parte i possedimenti dei Borromeo sulla sponda ovest del lago, amato come soggiorno estivo da un selezionato numero di famiglie milanesi, lungo il fiume, sotto Sesto Calende, i paesi lungo la sponda sinistra sono rarefatti; Oleggio oggi è Piemonte e quel territorio resterà a lungo dominato da Novara, non solo geograficamente. Dobbiamo scendere a Vigevano, al di là de fiume, per ritrovare tradizioni lombarde.
Il territorio per il Ducato è prevalentemente riserva di sabbia, brecciato, caccia ed agricoltura. Diminuiscono i rapporti di ritorno: viene sviluppato solo il senso da ovest verso est, lungo i canali, soprattutto per i trasporto di ghiaia e di sabbia. Grandi ville costruite lungo quei percorsi dominano ad ovest, ma proseguono a nord di Milano.
Ne riscontriamo gli effetti anche nella tradizione gastronomica, che nel novarese e Verbano ha sviluppato una linea autoctona, sia nella cucina di campagna che della borghesia.
Negli anni ‘80 il conte Luigi Giannelli Viscardi, Delegato dell’Accademia di Milano, tentò di organizzare un convegno interregionale sulla tradizione della cucina sforzesca, rimasta vitale o perduta, in tutti i territori del Ducato, nel periodo di massima espansione.
Quando l’amico Costantino Tromellini, delegato di Novara-Verbano-Ossola, venne interpellato per la serata dedicata alle tradizioni culinarie milanesi-sforzesche nel suo territorio, cercò a lungo di spiegare, e alla fine dovette metterlo per iscritto per essere convincente, come, nonostante minuziose ricerche, non avesse trovato proprio nulla di origine ducale nelle usanze gastronomiche e di alimentazione, vecchie e nuove nel suo territorio!
Mutilata con seria motivazione, l’iniziativa venne rimandata ad un nuovo avvento delle Signorie... e allo sviluppo del polo logistico di Novara con quello di Busto e Malpensa, una volta scardinato con qualche ponte in più il passaggio sul Ticino e superata la barriera provinciale con Varese e Milano...
Quindi scarsa migrazione di tradizioni di tavola dal centro del Ducato verso ovest, confermata oggi, in occasione di ogni incontro di approfondimento sulla cucina delle radici.


Il Minestrone
Il minestrone, le cui origini certamente sono recenti, nasce a Milano e immediati dintorni e vi resta con questa denominazione. Se fosse di origine più antica, lo troveremmo diffuso anche in Piemonte, Emilia e Veneto: nulla di tutto questo prima dell'edizione del Libro della scienza in cucina e dell’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi o della prima edizione del Re dei Cuochi di Nelli. Solo la Liguria, da cui arrivano sale e verdura fresca nelle stagioni ancora poco adatte agli orti locali ricopia in edizioni quasi sempre senza riso la diffusione della pietanza...

Strano, e lungo le sponde del Ticino?
Alla ricerca di radici popolari, sulle prime non riusciamo a convincere un ristoratore sulle sponde del Ticino a cucinare un tradizionale minestrone in occasione di una visita al Parco del fiume: da Severino però è stata risuscitata la “paniscia”, quasi un “riso con verdure”...
Diciamo subito che è più un “risotto” simile ai “risi con” del Veneto che alla “panissa” o “panizza” vercellina, che non hanno nulla a che vedere con l’altra “panissa”, quella ligure!
Sarebbe interessante approfondire l’etimologia delle due denominazioni che contengono la radice “pan-”: essa potrebbe richiamare sia il cereale quanto il concetto di “tutto” dal greco “Pan” (dio Pan, divinità campestre e pane) col significato di “molteplicità” d’ingredienti compreso il riso.

Veniamo al minestrone: possiamo fare un’ipotesi di nascita? Quando è nato? Dove? Chi avrà cominciato?
È indubbio che minestre o zuppe si cuociono da quando ci sono i recipienti per fare brodo e bollire a lungo, nelle case. Più facilmente in campagna che in città. Gli strumenti di cottura tuttavia non sono popolarmente diffusi fino al ’700, ed è più frequente l’uso di bollire in grandi pentolacce per una comunità allargata che in piccole e medie pignatte per l’alimentazione d’una sola famiglia.
Le grandi cucine del Rinascimento, nelle ville o palazzi, hanno in dotazione gli strumenti, tuttavia l’organizzazione della casa popolare o borghese con una cucina che assomigli a quelle moderne ha luogo solo dopo la rivoluzione francese, come evoluzione socialmente diffusa. Il consommè deriva il nome dal brodo servito in Francia agli ostelli durante il cambio dei cavalli... Anche in Spagna è rimasta la denominazione di “caldo”.
Quindi ritengo corretto pensare al primo Ottocento come periodo in cui possa diffondersi una tecnica di preparazione culinaria di non difficile esecuzione e di basso costo, realizzabile con strumenti di casa ormai a disposizione quasi di tutti. Ci troviamo, tra la fine del ’700 e i primi decenni del ’800, in periodo di dominazione austriaca a Milano. L’intermezzo di Napoleone e della Repubblica Cisalpina stimola la nuova primavera, riprende la costruzione di strade, monumenti, scuole e palazzi che si aggiungono alla fama della Scala e fanno decollare Milano come grande città europea. La darsena è alimentata con i materiali del sistema fluviale che più ne è ricco; con i materiali arrivano gli accompagnatori e le loro usanze.
Cosa c’era di più comodo da portare, che restasse buona al caldo o freddo a tutte le ore, tiepida o fredda d’estate, facilmente riscaldabile sui carboni in una latta sulla zattera, che una pentola di paniscia, arricchita di cotiche e accompagnata da buon pane?
Si tratta dell’alimentazione più classica, completa del territorio da cui arrivano ciottoli per strade e carrobbi per carri e carrozze: anche i cittadini la conoscono, l’assaggiano e se ne innamorano rapidamente. Forse sono i milanesi ad aggiungere le patate ed il pomodoro, già a disposizione dei cittadini dopo le campagne di Napoleone, come a Genova. La preparazione è solo lunga, ma, fatto il battuto e pulite le verdure, sulla stufa a legna o carbone non c’è assillo di tempo, senza bisogno di stare attenti a soffriggere... quindi “non risotto”... ma lunga bollitura a fuoco basso...
All’inizio del ’800 a Milano la letteratura culinaria è praticamente inesistente e non è diffusa quella degli altri territori. Conferma Livio Cerini: “... si avverte nel paese una certa sterilità di pensiero gastronomico e carenze di seri ricettari che si sono trovati per tutto il secolo sempre genuflessi davanti allo straniero...”. Senza un Re e senza rivoluzione, Milano eleva finalmente la buona cucina del territorio a cucina raffinata. Riprende Cerini : “... un fenomeno lento che non riuscì a eliminare le differenze regionali e che non ebbe alcun codificatore: in Italia si cucina ancor oggi parlando in dialetto. A nessuno, e neppure ad un buontempone venne in mente di dire: ora facciamo la cucina italiana!...”
Il clima della Repubblica Cisalpina era ideale per un abbraccio tra la paniscia del Ticino e la sua promozione a minestrone. Sarà vero? Non abbiamo prove, né a favore, né contro. È solo un’ipotesi. Ma ormai ci sono affezionato!


Un divertimento: il minestrone atipico del Ticino o “paniscia”.
Era nel territorio di Cuggiono la pietanza di quasi tutti i giorni: la grande scodella per il nonno e il papà, le medie scodelle per i ragazzi, riempite magari due volte; quella sbucciata all’orlo per la mamma, sacrificata in cucina: densa e fumante, oppure riscaldata e saltata in padella nelle occasioni successive, magari con l’aggiunta di un po’ di burro, quando c’era. Siamo in Lombardia, ma questo minestrone “atipico” ha un nome piemontese, dell’altra sponda del Ticino, si chiama “paniscia”. Il nome mi suggerirebbe la derivazione da una zuppa molto densa di pane con le verdure, mangiare di campagna certamente antico come l’uomo, che in un territorio di caccia e pesca, quando è cattivo tempo, deve accontentarsi di quello che si possa conservare. Il pane si nobiliterà alternandosi successivamente col riso, accessibile dalla vicina Novara a tutta la popolazione, conservabile anche di nascosto alle scorribande dei soldati di ventura che nel ‘600 rovistano e rubano alimenti d’ogni genere, ma mantiene il nome di paniscia,
È un’ipotesi non comune, da dimostrare o da cancellare! Cerchiamo di confermare la trasversalità della preparazione ancestrale delle ultime generazioni, ben descrittaci da Severino Merlo, che da anni ne ha perpetuato a Castelletto, da Mario al Pescatore, riportandola al gusto inconsapevolmente piacevole dell’avventore d’oggi.

La paniscia, minestrone atipico del Naviglio.

Col lardo stagionato (è fresco solo in inverno, all’uccisione del maiale) si fa un battuto, senza prezzemolo, con cipollotte bianche. Se c’è si profuma e si aromatizza con un po’ di pancetta e una punta di mortadella di fegato. Il maiale è sempre l’animale di terra di riferimento, anche in questo territorio, dove può diventare selvatico e fare danni scorrazzando in aree caratterizzate da fitto bosco di pioppi, lecci, querce, faggi, bosso, sambuco, corniolo, carpino, frassino, nocciolo e ben irrorato da fontanili e rogge.
Il battuto viene tuttavia oggi “soffritto” inizialmente, per poi tostare nel suo condimento il riso e bagnarlo con un vino locale, tipicamente una Barbera. È il modo di far risotto del novarese e del biellese. Quindi, m’immagino senza averne cercato la conferma, anche di Borgomanero...
Le verdure? Sono state cotte a parte, in acqua arricchita dal brodo di un buon osso. Nei giorni di festa, in campagna, ci si procurava uno stinco per completare il desinare anche con la carne!
Quali verdure? quelle che c’erano, ma non mancava mai zucca o zucchette, patata e verza, e i borlotti di Vigevano, in tutte le stagioni. In primavera si aggiungeva un pomodoro, della famiglia dei multi lobati, che chiamiamo oggi liguri o Montecarlo o Cuore di bue.
Ho chiamato questa paniscia familiare, casereccia, di Castelletto di Cuggiono, “minestrone atipico del Naviglio”, arrogandomi la superbia di modificarne la denominazione originale: lo scopo è solo di servirmi di questo episodio, vero, per sostenere la tesi che il “minestrone alla milanese”, piatto portato in vacanza anche in Brianza, come appare dalla letteratura, nato forse spontaneamente intorno alla metà del ’800, potesse essere derivato da questo lontano parente. Un giorno, per confermare la tesi, ho portato anche la signora Ottorina Perna Bozzi, autrice ancora in vita – per quanto ne so anche quest’anno lo è – a Milano, autrice di riferimento della cucina milanese e lombarda di ogni piccolo territorio dell’intero novecento... E’molto probabile che, assieme a quarzo ed ai ciottoli, il Naviglio non abbia portato a Milano dalle rive di destra e di sinistra del Ticino questa pietanza antica. A quel tempo a Cuggiono si mangiava paniscia a colazione, pranzo, cena a casa ed in campagna.
Controcorrente, cioè dal Veneto, avrebbe potuto giungere notizia del “risoto de robinassi”, che si usava in campagna con il riso d’Isola della Scala cotto con tutti gli avanzi: oppure è stata la paniscia a percorrere tutta la pianura padana e consolidarsi in forme più o meno borghesi e campagnole in funzione dell’ambiente sociale trovato localmente?
Personalmente sono dell’opinione che le zuppe di pane e verdure, tipiche pietanze delle comunità monastiche, di buona tavola anche nei frequenti giorni di digiuno, note da tanto tempo ancor prima della testimonianza lasciatici da Maestro Martino, fossero diffuse in tutto il territorio fluviale padano; non dimentichiamo quale amore per gli orti avessero i monaci benedettini (dal santo di Norcia, 480-543), e quale apporto allo sviluppo della tecnologia agricola abbia fatto seguito con la riforma dell’ordine di San Bernardo agl’insediamenti di Cistercensi, dall’aratro ad avantreno per i terreni alluvionali, ai molini ad acqua, alle chiuse a doppia porta, all’orologio meccanico (XIII-XIV secolo)..., presenti in Piemonte, Lombardia fino all’Italia del sud. Ne deriverà uno stimolo alle Signorie e soprattutto alla coltivazione del riso...
Ne parleremo in un altro quaderno. Per ora, godiamoci i sapore del minestrone atipico, o di paniscia del Ticino, accompagnato, come nelle vere feste, da buoni insaccati di carni, di bosco e di cortile, di tradizione tutta locale per il rinforzo alle proteine di fiume.

Il Minestrone Milanese ed i suoi ingredienti

Per sintetizzare le notizie sugli ingredienti, senza inseguirne le varianti faremo riferimento alla descrizione di Goldschmied: riso, lardo, patata, pomodoro, zucchine, carote, sedano, fagioli, prezzemolo, aglio, salvia, Parmigiano. Resta aperta l’opzione ad altri ortaggi scelti con gusto stagionale ed estetico.

Riso: l’antichissima Oryza sativa è fondamentale per il minestrone alla milanese, era stata introdotta forse dai Benedettini qualche secolo prima ma certamente coltivata in discrete quantità nel XVI secolo nel Ducato, in particolare nei territori irrigati della Lomellina, del novarese, lungo i navigli. Il riso era noto da molti secoli per le sue coltivazioni arabe in Sicilia e in Spagna anche prima del X secolo.
Lardo: il suo uso è antichissimo, fresco, a cotenna morbida. Si usa separare la cotenna dal lardo con un coltello grande, ben caldo. La pelle bruciacchiata sulla fiamma per togliere i peli residui, poi, sbollentata e tagliata a quadrettini più piccoli di un francobollo o a striscioline, andrà aggiunta col battuto. La parte grassa è pestata con odori ed erbe aromatiche col coltellone caldo e quindi dispersa nell’acqua prima della bollitura delle verdure.
Patata: di origine centro americana, è stata tra i primi prodotti naturali importati in Europa, dopo un esordio poco rassicurante in occasione di una carestia in Irlanda. Il tubero verrà studiato a lungo negli orti botanici delle università e solo nel settecento sarà impiegata con buon accoglimento in cucina in Francia. Napoleone ne ordina la coltivazione in Liguria per editto vescovile nel 1796 e si fa promotore della sua coltivazione anche in Lombardia nel ’97. Da allora non verrà più abbandonata e si diffonderà come tutti sanno, soppiantando la coltivazione millenaria della pastinaca.
Pomodoro: di origine messicana, si diffonde nel mondo soprattutto per il protagonismo di Napoli, a partire dalla fine del Settecento. Ecco uno dei motivi per non condividere eventuali precursori al minestrone nella sua corretta definizione, ormai accettata internazionalmente solo come milanese e genovese e che comprende quest’ingrediente fin dalle origini.
Zucchine: anche la zucchina italiana, Cucurbita pepo, è originaria delle Americhe e si è diffusa rapidamente in Italia e in Europa negli ultimi secoli. Un tempo si consigliava solo freschissima, al massimo entro tre giorni dal taglio. La varietà “zucca”, già presente in Europa, fa parte della stessa famiglia ed è conservabile per tutto l’inverno.
Carote: di origine europea, Daucus carota, era già coltivata dagli olandesi nel Medio Evo. Appartiene alla famiglia botanica che comprende anche la pastinaca.
Sedano: i coltivatori italiani hanno ricavato quest’ortaggio, Apium graveolens, dal sedano selvatico. È tipicamente nostrano nel caratterizzare le minestre, come gli ortaggi già citati.
Fagioli: si usano anche bianchi di Spagna, o bianchi grossi, ma soprattutto i borlotti (Faseolus vulgaris). Sono di varia origine, ma il borlotto è varietà tipicamente coltivata in Italia del nord; il bianco di Spagna ha origini americane, come il Boston. Sono molto differenti dai fagioli asiatici.
Le preziose varietà di Veneto e Toscana... hanno altre destinazioni...
Prezzemolo: ha origini mediterranee; ne esistono anche varietà diverse da quella tipicamente italiana, che si presta a essere finemente tritata nel battuto (Petrosilinum crispum).
Aglio: originario dell’Asia, fin dai tempi antichissimi era usato da Egizi e Cinesi. L’Alium sativum ha la proprietà di esaltare i sapori di un’infinità di piatti. In ogni regione esistono varietà particolarmente pregiate.
Salvia: erba aromatica diffusissima e conosciutissima. L’uso nelle minestre è tipico in particolare della Lombardia e della Liguria, più che in altre regioni, per la tendenza a conferire un gusto predominante sui sapori più delicati. È necessaria una buona dose di sapienza per regolarne l’entità.
Parmigiano: tra i formaggi più antichi e nobili è tipico della pianura padana. Il suo uso è caratteristica fondamentale che fa del minestrone una pietanza tipicamente regionale. A Genova è ingrediente del pesto “della nobiltà”, rispetto all’uso più popolare del disponibile e forte Pecorino.

Una testimonianza fuori dubbio
Nella rivisitazione delle più antiche ricette, data l’ampia diffusione del piatto, la semplicità dell’esecuzione, la varietà degli ingredienti, le tradizioni di bollitura o sobbollitura in funzione delle attrezzature di cucina, riteniamo che come prima testimonianza di riferimento debba essere citata quella di Giovanni Rajberti (1805-1861), medico-scrittore-gastronomo. Mi ricorda lo stile dell’amico Giovanni Goria, avvocato-scrittore, di Asti, a cui non abbiamo fatto in tempo a chiedere un parere sulla attendibilità della nostra tesi, ma che a tutt’oggi non ne ha mai contestato la probabilità di essere ipotesi credibile

Nella “Arte di convitare” il Rajberti racconta:
“... A proposito, che cosa ci dai oggi per minestra?
- Se te lo dico, tremo d’una tua fierissima confutazione.
- Via, parla; già dobbiamo saperlo a momenti: vedrò di usare indulgenza.
- Ti do una minestra di cavoli, risi e fagiuoli, con un pochettino di sedano e carote, brodo superbo di manzo e cappone, un poco di salsa di pomi d’oro, una buona pestata di lardo e quattro fettine di cotica di maiale.
- Ah, Giorgio, mi hai toccato il cuore! Senti: tu puoi fallare perché manchi di un’esperienza di genere distinto, ma in fondo hai ottime disposizioni e io spero di farne un uomo.
Ciò che tu mi hai descritto timidamente e in aspettazione di un rimprovero, è nientemeno che la galba (minestra) per eccellenza del nostro buon popolo milanese, la minestra delle minestre che noi perciò onoriamo col nome energico di “minestrone”, del quale beato chi può cibarsene alla sera, così in piedi, una scodella fredda, se anche fosse reduce della mensa di Epulone: giacché per certe vivande un posticino si trova sempre.
E la si mangia dopo averla, direi quasi, vangata col cucchiaio, che vi resta dentro confitto come la zappa in fertile terreno inumidito appena da un po’ di pioggia.
Delizie ineffabili, riservate ai ventricoli omerici della gente alla buona, e sconosciute perfino ai monarchi”.

Con questa testimonianza, possiamo procedere alla rassegna delle varianti rispondenti all’idea del minestrone e della paniscia che ci siamo fatti per questa occasione di “Risi e panici” del 2007.

Enzo Lo Scalzo
Testo ripreso dal 1° Tomo di Oryza, edizione 2001, dello stesso autore e rielaborato per il 2° Tomo in preparazione di stampa