AZIENDE E PRODOTTI

Vino, Alleanza Cooperative: "l’export via maestra, ma non è l'Eldorado", protezionismi, dazi e instabilità politica un grosso freno  

Stati Uniti e Regno Unito guidano la classifica dei paesi importatori di vino. Ma i mercati esteri restano molto difficili per le nostre aziende specie se sono piccole. Le cooperative più dimensionate, con fatturati superiori ai 40 milioni di euro, fanno metà delle loro vendite all’estero.
Se ne è parlato alla prima Assemblea unitaria dell’Alleanza delle Cooperative – Settore Vino.

 
“Per le imprese del vino italiano l’export resta la strada maestra, ma attenti a non pensare che sia l’Eldorado. Ci sono mercati esteri molto difficili dove le piccole aziende non possono certo arrivare e anche per quelle strutturate il successo nei paesi lontani non è mai scontato”. Lo ha detto Ruenza Santandrea concludendo i due giorni di lavoro della prima Assemblea unitaria della cooperazione vitivinicola, che “rappresenta con orgoglio il 52% della produzione di vino del Paese”, riunitasi a Modena e a Reggio Emilia.
“Quando si guarda alla crisi strisciante dei consumi nazionali di vino italiano – ha spiegato la Santandrea – si ripete che l’export è l’unica via su cui puntare. Ma attenzione, molti mercati sono per certi versi saturi ed altri, una volta aperti, spesso si bloccano. Quest’anno le esportazioni di vino in Russia e Ucraina, anche se non direttamente colpite dalle restrizioni dell’embargo, hanno risentito della situazione politica e si sono ridotte. In Cina le importazioni sono calate pesantemente nell’ultimo anno, a risentirne soprattutto la Francia,  a seguito di scelte a favore dei vini locali imposte dal governo. Inoltre gli accordi di libero scambio con paesi come il Cile danneggiano la competitività dei nostri vini. In un altro paese potenzialmente interessante, come la Thailandia, vengono imposte accise sul vino quattro volte superiori a quelle dell’alcool".
Ma quali sono i paesi che importano più vino? La classifica, sulla base dei dati Winemonitor-Nomisma, è guidata dagli Stati Uniti, con quasi 4 miliardi di euro di importazioni nel 2013, seguita dal Regno Unito (3,7), Germania (2,3), Canada (1,5), Cina (1,1) e Giappone (1,1). Ma se si guarda alla percentuale del vino importato rispetto a quella prodotta, si scopre che gli Usa, primo importatore, hanno una produzione nazionale pari al 70% ed importano solo il restante 30%. Stesso discorso per la Cina, che pur avendo avuto una crescita esponenziale di importazioni, passando dai 30 milioni del 2003 ai 1.171 del 2013 (+ 3.800), ha una quota nazionale di vino dell’80%. Regno Unito e Giappone invece hanno una quota di importazione pari quasi al 100%; tuttavia, come ha spiegato Denis Pantini di Nomisma nella sua relazione, “si tratta di paesi con un tasso di cambio tutt’altro che favorevole. In Cina le esportazioni di vino italiano sono non a caso calate, con una quota italiana sul totale di vino importato che è passata nell’ultimo decennio dal 14% a 7%”.
“Nonostante tutte le insidie legate alle esportazioni del vino italiano – ha aggiunto Adriano Orsi – la cooperazione vitivinicola avanzata ha spinto con forza negli ultimi anni sul fronte dell’export. Oggi le nostre principali cooperative hanno raggiunto una quota di export sul fatturato che arriva in alcuni casi anche al 70% e oltre. Secondo gli ultimi dati, le cooperative che hanno un fatturato superiore ai 40 milioni hanno una quota di fatturato estero sul totale pari al 48%”.
Dimensioni aziendali, know how e capitalitazzione sono quindi premessa indispensabile per chi voglia avere successo sui mercati esteri. “Per esportare devi essere grande – ha commentato Ruenza Santandrea – ma a volte se sei grande non puoi accedere ai finanziamenti comunitari e questo non va bene”.
Un esempio in tal senso è stato portato in Assemblea dell’Assessore regionale all’agricoltura dell’Emilia Romagna Tiberio Rabboni che ha raccontato come la Commissione Agricoltura UE abbia posto alcuni rilievi al Psr regionale rispetto alle risorse stanziate per finanziare gli investimenti. “Non si può pensare che le nostre aziende restino competitive per sempre. I livelli di competitività devono essere mantenuti attraverso ulteriori investimenti, altrimenti si perdono”.
 
 
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Alina Fiordellisi
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