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Pistacchio di Bronte, quando i conti non tornano
I conti non tornano.
E questi li abbiamo fatti in seguito alla provocazione sollevata dal nostro
giornale sulla vera origine dei prodotti d’eccellenza proposti nei
ristoranti. Al riguardo abbiamo voluto interpellare chi produce o rappresenta
ufficialmente la produzione più pregiata della nostra Penisola.
Cominciamo con il famosissimo Pistacchio di Bronte. Guest star di tantissimi
menu. Dicevamo, i conti non tornano. Partiamo da uno sguardo sulla produzione
in Sicilia. Il novanta per cento è concentrata nel territorio di
Bronte (circa 30mila quintali sgusciato), il resto tra le province di
Caltanissetta e di Agrigento. L’oro verde etneo ha ricevuto nel
2010 il riconoscimento della Dop e quindi la commercializzazione adesso
dovrebbe essere più “blindata”, tutelata. Eppure, quanto
prodotto circola in giro per l’Italia, a tutte le latitudini, e
anche per il mondo che riporta la dicitura pistacchio siciliano e spacciato
per quello di Bronte? Un bel po’. E’ sotto gli occhi di tutti,
basta leggere l’etichetta o i tanti pack che sfruttano il brand
Sicilia. Quantitativo non giustificabile da quel 10 per cento prodotto
nel cuore dell’Isola. Altra anomalia. Il pistacchio di Bronte oggi
vale al chilo tra i 30 e i 35 euro e, purtroppo, gran parte non viene
venduto, come ci confermano Biagio Schilirò, il presidente del
Consorzio di Tutela del Pistacchio Verde di Bronte (che riunisce 200 produttori
per una produzione di 9mila quintali) e Pietro Bonaccorso, titolare dell’azienda
brontese Evergreen. “Rimane in magazzino il settanta per cento –
riferisce Bonaccorso -. Non riusciamo a smaltirlo, e non solo, adesso
a questo stock si aggiungerà anche la raccolta di quest’anno”.
E come lui ci sono tanti altri produttori a cui pesa il non venduto. Da
un lato allora c’è effettivamente una cospicua quantità
di autentico pistacchio di Bronte, considerando sempre le proporzioni
di una nicchia, che però resta dentro, dall’altro sono tantissimi
gli scaffali, le ceste o i menu di ristoranti e luoghi del gusto
che invece pubblicizzano il prodotto. Il cortocircuito potrebbe essere
spiegato dal prezzo di quel pistacchio che entra nel nostro Paese, venduto
tra le 14 e le 19 euro al chilo. La provenienza è varia, si spazia
dalla California, all’Iran passando per la Turchia. “Il pistacchio
di Bronte, che è Dop, teoricamente non può essere dichiarato
– dichiara Schilirò - Succede quindi questo, la diffusissima
e inflazionata dicitura “pistacchio siciliano” non può
che riferirsi a quel pistacchio "non siciliano" che viene lavorato
in Sicilia. Non può essere altrimenti”. Riassumendo. C’è
un pistacchio che è certificato e venduto in modeste quantità
, c’è tanto pistacchio “forestiero” a buon mercato,
magicamente il nome pistacchio di Bronte, e anche “pistacchio siciliano”,
compare ovunque. Siamo dinnanzi al classico caso di frode nei riguardi
del consumatore che vede vittima la produzione d’eccellenza Made
in Italy. Ci sarebbero tutti gli strumenti per intercettare l’origine
e attestare la qualità del prodotto. Il Mipaaf e i suoi organi
sono in costante attività per tutelare il Made in Italy e i consumatori.
Produttori e consorzi cercano fare opera di sensibilizzazione e
comunicazione. “Non ci sono altri mezzi – dice Schilirò
-. Dobbiamo da parte nostra comunicare il più possibile. Fare capire
al consumatore il valore del territorio e della qualità del prodotto
invitandolo anche a denunciare la frode. Ma se dovessimo scandagliare
tutti i ristoranti del territorio italiano o estero l’impresa sarebbe
impossibile. E’ più facile attuare controlli sui distributori,
ma difficile entrare nelle cucine. Non credo che ci siano molte soluzioni
al problema. Consideriamo anche che la frode la si può intercettare
nel caso del frutto intero, più arduo quando il pistacchio è
trasformato. Su questo fronte anzi, stiamo cercando di marcare anche chimicamente
il prodotto per individuare le qualità organolettiche. Ma posso
dire che non basta”. Rimane la carta allora, proprio quella della
bolla di accompagnamento. “A questo punto sì, concordo anche
io su quanto avete scritto, bisogna chiederla. Il consumatore deve stare
attento. Un altro ausilio per poterci difendere da ristoratori e operatori
che sono poco corretti”. Oggi sono 400 i produttori che hanno richiesto
la certificazione Dop. Rappresentano più del 60% della produzione
brontese.
(www.cronachedigusto.it)
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