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AZIENDE
E PRODOTTI
La birra artigianale non esiste (per legge)
Anche se con un po’ di ritardo rispetto ai mercati
esteri, anche in Italia si sta affermando la passione per la birra artigianale.
La passione, si sa, talvolta ripiega nel fanatismo o nella moda e così
sembra si sia innescata una corsa, tra ristoratori illuminati e sommelier
dell’ultim’ora, a riempire pagine e pagine dei loro menù
con birre di tutti i tipi, purché sia artigianale, è evidente.
La grande distribuzione ha fiutato l’affare e grandi marchi come
Esselunga e Coop hanno iniziato a farsi produrre in esclusiva birre artigianali
da vendere sui propri scaffali.
Secondo la lingua italiana il termine artigianale si riferisce a ciò
che è proprio dell’artigiano, a quello che quindi viene prodotto
a mano, senza l’ausilio di procedure meccanizzate che aumentando
il numero di pezzi prodotti, finisce con il determinare una riduzione
in termini di qualità. Stando a questa definizione sembra che la
birra artigianale e la grande distribuzione non possano andare tanto d’accordo.
Eppure il consumatore, spiazzato dinanzi a scaffali pieni zeppi di birra
di cui non riconosce nemmeno il nome, come fa ad essere tutelato? Come
fa a scegliere tra due birre di cui non conosce nome e provenienza se
su entrambe l’etichetta riporta la dicitura artigianale? Forse conviene
fare un po’ di chiarezza in modo che il bevitore nella sua scelta
sia quanto meno un po’ più consapevole.
In Italia la legge che disciplina la produzione e il commercio della birra
risale al 1962. Essa prevede una classificazione delle birre a seconda
del livello di grado Plato (livello zuccherino del mosto prima che avvenga
la fermentazione): così si distingue la birra analcolica, quella
leggera e così via fino alla doppio-malto. Questo tipo di strumento,
che prevede una tassazione crescente man mano che i gradi Plato e quindi
quelli alcolici aumentano, non offre al consumatore nessuna tutela circa
la qualità del prodotto in bottiglia, eppure esso è l’unico
riferimento esistente cui un produttore ha l’obbligo di sottostare.
Ogni altra aggiunta in etichetta è per questo fuori legge: qualche
mese fa infatti, il micro-birrificio pescarese Almond 22 si è visto
infliggere una multa dal ministero delle politiche agricole per via della
dicitura Birra Artigianale posta in etichetta sui suoi prodotti.
Ma il termine birra artigianale significherà pur qualcosa?
Purtroppo, non solo in termini di legge, una definizione non esiste, nonostante
abissali siano poi le differenze in termini di qualità tra la produzione
industriale e quella artigianale. I grossi produttori industriali di birra
infatti, aderendo alle logiche di mercato che impongono grossi numeri
a prezzi stracciati, non sempre utilizzano materia prima di alta qualità,
tagliando ad esempio il malto d’orzo con cereali meno nobili e costosi
come il mais; preferiscono estratti di luppolo rispetto ai fiori della
pianta amaricante o riutilizzano più volte ceppi di lieviti oltre
il massimo della propria vitalità. Inoltre, per garantire la massima
stabilità possibile, la birra viene sottoposta a pastorizzazione
o a micro-filtrazione, processi che abbattono la qualità della
birra in termini sia nutritivi che organolettici.
Quanto ai numerosi birrifici che in Italia utilizzano materie prime di
alta qualità, preferendo talvolta prodotti locali a Km zero, che
non pastorizzano, lasciando intatte le qualità e le virtù
di una birra dal sapore davvero artigianale, essi sono trattati alla stregua
dei colossi industriali e sono passibili di grosse multe, perché
poi in etichetta non possono scrivere di essere davvero artigianali (nonostante
quasi tutti ormai lo facciano).
Negli Stati Uniti la situazione è differente. L’associazione
dei birrifici americani è stata la prima e l’unica a redigere
criteri specifici: per poter definire la propria birra come “craft
beer” (birra artigianale), un birrificio deve rispettare i principi
di piccolo, indipendente e tradizionale.
Piccolo perché deve produrre meno di 6 milioni di US barrel l’anno.
Indipendente perché economicamente svincolato dalle grosse aziende
del beverage.
Tradizionale perché almeno la metà della produzione deve
essere rappresentata da birre prodotte con solo malto d’orzo.
Appare ovvio che questa definizione non può essere trasposta tal
quale alla realtà italiana, soprattutto per quanto riguarda i numeri,
eppure essa può rappresentare un canovaccio da cui partire. In
assenza di questo sforzo e in balia dell’obsoleta legge 1354 del
16 agosto 1962, il consumatore non è per nulla tutelato, troverà
sugli scaffali “birre artigianali” di dubbia fattura, magari
prodotte per conto terzi da mega-imprese della grande distribuzione, con
un grosso rischio: quello che la parola artigianale si svuoti di significato
e che il lavoro fatto fino ad ora dai veri artigiani della birra venga
disperso e spazzato via da qualche sciacallo del mercato che ha fiutato
l’affare in arrivo.
(Roberto Erro - http://www.ilfattoquotidiano.it)
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