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EVENTI
CENNI STORICI SUL TORCOLATO
Note scritte dall’Avv. Marino Breganze
Il territorio vicentino è, da sempre, vocato alla viticoltura:
e, da sempre, i suoi abitanti – residenti nel cuore di quel Veneto
che, si dice, deriva la sua denominazione da “enos” e sulle
sponde di quel fiume, il Bacchiglione, che potrebbe prendere il suo nome
da “Bacco” – sono vocati ad apprezzare il vino, come
evidenzia quel forse manicheo e minaccioso broccardo popolare per cui
“A chi non ghe piase el vin, Dio che toga l’acqua”.
E’ noto che resti di vinaccioli sono stati trovati presso Vicenza
– risalenti addirittura alla preistoria – al lago di Fimon,
e che, in epoca storica, ripetuti (e non solo ad opera degli antichi romani,
in una villa di uno dei quali a Montebello Vicentino agli inizi del secolo
furono parimenti rinvenuti vinaccioli) sono stati gli interessamenti non
solo per i vini veneti in genere (e basti pensare a Plinio il Vecchio
ed a Plinio il Giovane) ma specificatamente per i vini vicentini: che
Ateneo, sofista greco, già nel III secolo dopo Cristo descriveva
come stomatici e gradevoli e che sempre, nei secoli, allietarono le giornate
(o quanto meno i deschi) di signori e potenti. E basti, per tutti, pensare
al Re di Polonia (cui nel ‘600 venivano dalla Dominante regalati
“vini preziosissimi di Vicenza chiamati Marzemini”) od a Carlo
V Imperatore, che a Sandrigo fece il pieno di “quel rosso che fa
diluir i mali” o a Papa Farnese (Paolo III) che – gran appassionati
entrambi – Giangiorgio Trissino riforniva dei suoi vini.
Ed evidentemente dei pregi non di poco cale dovevano questi anche allora
avere se venne codificato il proverbio che suggerisce – anche se
si potrebbe discutere sulla assolutezza delle componenti non beriche –
“pan padovan, vin visentin, trippe trevisane, donne veneziane”.
Si comprende, dunque, che, coll’andar del tempo, illustri uomini
di cultura si siano occupati, spesso con ammirazione, dei vini vicentini:
da Fazio degli Uberti, nel suo trecentesco “Dittamondo”, ad
Aureliano Acanti, a Paolo Barbarano, All’Acerbi: che li elencarono
e codificarono. Anche se talora, per vero, con forse eccessiva campanilistica
ammirazione: come quando, nell’introduzione del ditirambo “Il
Roccolo”, il testè menzionato Aureliano Acanti, accademico
olimpico vicentino, scriveva (e l’edizione settecentesca della sua
opera è stata di recente ristampata in anastatica a cura della
Delegazione di Vicenza dell’Accademia Italiana della Cucina) con
toni entusiasticamente convinti e compiaciuti che “sovra tutto,
senza punto esitare, asserisco non esservi niun’altra Provincia
(d’una sola Città intendo dire, e d’un sol Contado)
che tante specie, e sì varie, e sì differenti, e sì
delicate di Vini produca, quante ne produce la nostra”.
Questo spiega anche perché, fin dal medioevo, gli statuti comunali
dei principali centri del territorio si siano preoccupati di disciplinare
la produzione e la vendita: come ricorda il Mantese nelle sue giustamente
celebri “Memorie storiche della chiesa vicentina”, vera miniera
di notizie, che rammenta come, ad esempio, nel darsi a Venezia, Bassano
avesse chiesto conferma delle antiche previsioni statutarie per cui nessuno
poteva “conducere vinum forense in dicta Terra Bassani ne mercantia
vinorum ipsius terre Bassani destruatur, exceptis Malvasiis ed aliis vinis
navigatis, quia vina dicte terre sunt valde meliora quam vina locorum
circumstantium”.
E la preoccupazione bassanese era ben comprensibile, dato che, pur senza
prevederne – ovviamente – una migliore qualità in senso
assoluto, rispetto ad altri siti, è indubbio che i vini della pedemontana
(ed oggi, dunque, in primis, della zona di Breganze – che con quella
dei Colli Berici e quella di Gambellara, rappresenta il miglior habitat
vinicolo nel territorio vicentino) abbiano delle peculiarità assai
significative.
Invero, tra l’Astico e il Brenta – ove vengono prodotti i
vini di Breganze -, nelle vulcaniche colline (nell’ottocentesca
traduzione di quel poco conosciuto poemetto di Marco Antonio Coccio Sobellico
stampato nel 1502 e dal significativo nome di “Crater vicentinus”
non a caso si parla di “aprichi colli, ch’aman le viti”)
e nelle ghiaiose piane ad esse sottostanti, il clima mite favorisce la
produzione di uve: che l’Abate Maccà, nella sua celebre Storia
del Territorio Vicentino, considerava “rare e preziose in quantità”
e che Andrea Scoto nel ‘600 ricordava per “li vini dolci et
saporiti” che producevano, mentre il suo contemporaneo Carlo Dottori,
ne “l’Asino”, cantava “Breganze dal buon vino,
dal ricco prete”.
Tra le tante qualità del vino di Breganze, sempre particolarmente
apprezzato è stato ed è – fin da quando del Meridione
(ma secondo taluni dalla Francia) fu alla fine del ‘600 importato
per sopperire alla mancanza, conseguente alle tristi vicende di Candia,
dei vini di Cipro e delle isole greche dalle tavole aristocratiche –
il Vespaiolo: dal succo dei grappoli con il quale è prodotto così
dolce, da essere particolarmente amato dalle vespe (al punto che le stesse
hanno dato il nome al vino) e così gustoso che l’Acanti invita
a trastullarsi “con quel grato Vespaiuolo Breganzino (che al parer
d’un uom Togato è miglior d’ogni altro vino)”.
Ed ovviamente, dato che per professione sono “uom togato”,
non mi è lecito contraddire l’illustre collega accademico
di due secoli or sono.
Orbene, proprio l’uva vespaiola è alla base del Torcolato:
vinsanto di antica origine (Andrea Scoto, nel suo “Itinerario”
del 1610, già parlava, come ricordavo poc’anzi, de “li
vini dolci e saporiti” di Breganze) ma, sino a non molti anni addietro,
celebre soprattutto a livello locale (dove pure non era diffusissimo:
e, senza andare troppo indietro nel tempo, stupisce notare come dal catalogo
degli Espositori e dei vini vicentini alla importante Mostra di Breganze
del 1965, un solo produttore presentasse un Torcolato): e solo di recente
fatto conoscere anche a livello internazionale, dopo un costante miglioramento
del prodotto, che , a dire il vero, agli inizi del secolo severe critiche
aveva ricevuto per come per lo più – così come gli
altri vini di Breganze – veniva preparato.
Giulio da Schio, nel suo “Enologia e viticoltura della Provincia
di Vicenza”, nel 1905 notava come a Breganze, “sebbene il
terreno sia generoso di ottimi frutti, l’uomo nella fabbricazione
del vino non aiuta a render perfetto il prodotto”. “Che il
tipo da dessert debba essere curato è cosa naturale, ma alla cura
deve essere aggiunta una buona maniera di fabbricazione, per modo che
il vino presentato sia una delicata bevanda e non un’imbevibile
miscela deteriorata e parzialmente lavorata”. Ma – notava
l’autore – se ben fatto “il Torcolato frutto di ogni
cura e venduto a prezzi elevati, esso è la specialità di
quelle ridenti colline. Riposata l’uva per due o tre mesi, vien
pigiata ed il vino dopo 24 ore di fermentazione è posto nei fusti.
Soltanto dopo 5 o 6 anni il vero torcolato vien posto nelle bottiglie,
tenute allora nel massimo onore. Con le graspe del vino torchiato si rende
più amabile il vino comune, facendolo attraverso ad esse passare,
l’onore, l’orgoglio di Breganze è il suo vino “Torcolato”,
quasi blasone del paese ridente”.
Il modo di preparazione – così, succintamente, enunciato
dal Da Schio – è rimasto pressochè lo stesso nel tempo.
Quando i grappoli d’uva, prevalentemente vespaiola, ma di norma
anche, in parte minore, Tocai, Garganega e, talora, Pedevenda o Durella
(e fino agli inizi del secolo anche Picolit di locale produzione) sono
maturi, essi vengono oculatamente scelti e quindi appesi con degli spaghi,
attorcigliati (e cioè “torcolati”, appunto: di qui
forse il nome del vino) alle travi di soffitte asciutte e aerate (ove
gli acini guasti gradualmente si staccano) o su graticci o cassettine
di legno in esse collocati.
Dopo qualche mese, in cui le uve sono state lasciate appassire, hanno
perso buona parte del peso ed il loro succo è diventato sempre
più dolce, si procede non già alla pigiatura degli ormai
asciugatisi acini – col rischio di rompere il graspo e provocare
un gusto amarognolo -, bensì alla loro torchiatura.
Le uve vengono cioè “torcolà”: ed anche questo
può giustificare il nome del vino, che, lasciato fermentare lentamente,
invecchia – oggi – in botticelle di rovere prima di essere
messo in bottiglia, dove può rimanere – cangiando nel frattempo
l’intensità del suo dorato giallo colore – per qualche
mese (per essere bevuto giovane e ricco del suo gusto variamente fruttato)
o svariati anni (anche una decina), per essere apprezzato ancor profumato
ma più maturo e pieno nel gusto. Questo prezioso frutto della natura
e della fatica dell’uomo, liquoroso, di elevata gradazione alcolica,
prezioso (da un quintale d’uva non si ricavano mediamente più
di 20-25 litri di vino), forse per il suo essere concentrato di zuccheri
era un tempo apprezzato e consigliato – oltre che a cagione del
suo gusto prelibato – soprattutto come tonico e medicamento: quasi
panacea d’ogni male. In una locandina pubblicitaria degli inizi
del secolo, il Torcolato di Carli Arnaldo veniva, allora, descritto come
“vino di uva passita, di sapore squisitissimo, il migliore dei vini
da dessert. Riconosciuto genuino dall’analisi chimica (Laboratorio
Chimico Municipale di Padova). Per le sue proprietà toniche ed
eccitanti riesce ottimo in tutti i casi di debolezza di cuore, nelle dispepsie,
da torbida funzionalità gastrica e nelle convalescenze di malattie
acute e consuntive. Per la sua ricchezza di acido fosforico dei fosfati
è pure indicatissimo nelle forme nevrasteniche e depressive nervose”.
Ora il discorso è mutato ed il vino è, ovviamente, apprezzato
più che per le sue qualità medicamentose per il suo gusto
ed il piacere che dà a coloro che lo bevono. Da soli (è
stato giustamente definito “vino da meditazione”) o in compagnia:
dolce (v’è chi parla allora di “vino da seduzione”)
o amichevole o familiare (“vino da conservazione”). Ed allora
quello che Orio Vergani, fondatore dell’Accademia Italiana della
Cucina, definì addirittura il “meraviglioso Sauternes di
Breganze”, servito a temperatura più o meno elevata a seconda
che si preferisca coglierne appieno i profumi (16-18°) o le sensazioni
gustative (6-10°), può essere gustato da solo o elegantemente
sposarsi a fine pasto con dolci, specie secchi e di mandorle, o frutta
secca, ma, ancor prima di concludere il convivio, abbinarsi con formaggi
erborinati o, addirittura, al foie gras.
Ed è fuor di dubbio che la serenità che il degustare questo
vino cagiona è foriera di rabbonimenti o addirittura apportatrice
di pace. Eugenio Candiago, nel suo simpaticissimo e ormai negletto “Itinerari
gastronomici vicentini”, ricordava al riguardo una pagina di Alberto
Maria Perbellini, giornalista politico. “Parlando dei torresani
di Breganze e dell’insuperabile torcolato, egli scrive di una scorpacciata
in quell’incantevole paese pedemontano, avvenuta nel 1920, sulla
Rivista “Tre Venezie”:”…E qualche volta accadeva
che dopo un ciclone comizievole di male parole, di minacce o peggio, scatenato
solidalmente dai rappresentanti di tutti i partiti sulle desolate piazze
di Asiago, i molteplici logòmachi, reduci dalla rissa, si fermassero
concordemente a Breganze, da Bonato, a degustare la profumata potenza
del torcolato e la sapidità dei torresani. Allora le sale basse
e fumose della trattoria “Al Ponte” si trasformavano in una
specie di Svizzera neutrale e fra gli opposti campioni intervenivano la
tregua, la pace separata. L’On. Galla, popolare, si trovava così
a contatto di gomito col socialista Faccio, mentre il giornalista cattolico
De Mori poteva impunemente starsene di fronte al sottoscritto “pennivendolo”
del Blocco Nazionale, accompagnato magari dal compianto On. Teso e dall’Avv.
Franceschini podestà di Vicenza. La tregua era completa, garbata
e spiritosa secondo le perfette tradizioni della signorilità locale…”.
E, in poesia, Zeffirino Agazzi, notava in proposito come:
“Se nei congressi a Le Nazioni Unite
i sgiozasse un quartin de torcolato,
tante busìe no saria più dite
e assà più onore se farìa ogni Stato;
un imbriago te sa dire ‘l vero,
mentre un ministro no l’è mai sincero”
Gran vino, dunque, il Torcolato: che però, fino a due anni or sono,
non poteva anche formalmente presentarsi con le sue patenti di nobiltà,
dato che la mancata inclusione tra i vini Breganze cui il D.P.R. del 1969
aveva riconosciuto la denominazione di origine controllata lo obbligava
al nome banale, non degno certo della sua schiatta, di “vino bianco
da tavola”.
A ciò ha posto tardivamente ma finalmente rimedio il Decreto pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale del 07.10.1995 (e, con il solito malvezzo, in
vigore retroattivamente dal 1° settembre: cioè da prima addirittura
che venisse firmato!) con cui è stato modificato il disciplinare
di produzione del DOC Breganze: con l’inclusione del Torcolato e
con la fissazione di alcune regole, per lo più (ma non esclusivamente)
tendenti a codificare e conservare la prassi esistente (sia pur obbligandola
in rigidi schemi).
Si è così previsto (a modifica parziale delle variabili
antecedenti) che la denominazione di origine controllata “Breganze
Torcolato” sia “riservata al vino passito ottenuto con le
uve provenienti dai vigneti iscritti all’albo della varietà
Vespaiola” almeno per l’85% del totale delle viti: solo il
residuo 15% potendo derivare da uve di altre varietà di vitigni
a bacca di colore analogo (art. 2 del Disciplinare).
Fissato il doveroso ambito territoriale limitandolo essenzialmente ai
comuni della Pedemontana, si è quindi stabilito che: “la
vinificazione di dette uve può avvenire solo dopo che le stesse
siano state sottoposte ad appassimento naturale, secondo tradizione, fino
a portarle ad un titolo alcolometrico volumico naturale minimo non inferiore
al 14%. La loro pigiatura deve avvenire entro la fine di Febbraio dell’anno
successivo a quello di produzione delle uve.
Nella vinificazione sono ammesse soltanto le pratiche enologiche locali
leali e costanti atte a conferire ai vini le loro peculiari caratteristiche”
(art.5).
Quindi è stato deciso che: “Il vino a denominazione di origine
controllata “Breganze” Torcolato non può essere immesso
al consumo prima del 31 dicembre dell’anno successivo a quello della
vendemmia”, con la qualificazione “riserva” se immesso
al consumo dopo almeno 2 anni (art.7).
Il prodotto, presentato, come una bella donna, in un “abbigliamento
consono ai caratteri di pregio” che lo contraddistinguono (art.8),
è quello di un vino che deve avere: “colore: da giallo oro
a giallo ambrato carico; profumo intenso, caratteristico di miele e di
uva passita; sapore: da abboccato a dolce, armonico, vellutato, deciso,
con o senza presenza gradevole di legno” (art.6).
Dopo tanta attesa, quindi –
e sia pur con il pagamento del prezzo d’una minor possibilità
di fantasia nei produttori – il Torcolato, che con l’andare
del tempo si era via via e vieppiù imborghesito e raffinato, ha
finalmente ottenuto il titolo nobiliare ed il blasone che gli mancavano:
e si può dunque ragionevolmente confidare – ora noblesse
oblige - che i produttori, orgogliosi, lo manterranno nel tempo all’altezza
della sua fama.
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