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A cura di Gianmichele Portieri e Laura Cottarelli

Con il contributo di Luigi Bellini, Ugo Bonazza, Mauro Capelloni, Riccardo Contessa, Antonio Felice Fiorentino, Costanzo Gatta, Michele Pasolini, Gianmichele Portieri, Valerio Pozzi, Silene Orsola Tomasini

201 pagine illustrate a colori – euro 10

Editore Fondazione Civiltà Bresciana ONLUS

Da un lato c’è voluta faccia tosta, dall’altro si è colmato un buco storico informativo sulla nostra provincia bresciana. La faccia tosta è legata al fatto che, andando indietro nel tempo, una vera tradizione salumiera a Brescia non esiste. Tutti i salumi che produciamo, in quantità non scarse, non possono a rigore dirsi frutto della tradizione bresciana. In realtà sono tutti copiati (benissimo) da altre provincie. Solo il salame forse è autoctono, se non fosse che il salame bresciano, quello duro, molto stagionato e macinato piuttosto fine, si è in pratica estinto. Ha vinto la tradizione salumiera mantovana (con tanto aglio) con quella cremonese (senza, anche se non sempre).

Ridendo tra noi ci siamo detti che abbiamo scritto un libro… sull’isola che non c’è.

Ma la lacuna andava colmata. Un testo completo, storicamente documentato e tecnicamente ineccepibile (i dieci autori sono tutti maestri assaggiatori diplomati e in molti casi norcini esperti) sui salumi prodotti nel Bresciano, non c’era e adesso c’è. È anche un po’ figlio dei tempi. Ora non è più vero che se vuoi mangiare un buon salame devi andare a Mantova o Cremona. Oggi a Brescia si produce di tutto, anche se è storia recente, recentissima. Torna in mente un anziano vicino di casa (di origini mantovane) che alla viglia di Natale partiva in auto alla ricerca del “cappello del prete” per il pranzo della vigilia. Se non fosse mancato in tarda età, oggi risparmierebbe il viaggio.

Resta però un dato: l’Italia ha 700 salumi tradizionali descritti (dagli affumicati nel Nord ai trionfi di peperoncino del Sud), di questi 43 sono tutelati (nel libro trovate l’elenco) che è un bel numero perché la Francia ne ha 20, la Germania 18 e la Spagna 17. Nessuno però è di natali bresciani. Mi è venuto il dubbio che fossero autoctoni alcuni salumi dell’alta valle Camonica (come il violino di capra). Macché, non sono neppure di origine italiana perché sono arrivati dalla Valtellina che li ha copiati dai norcini del Canton Grigioni in Svizzera. Così per redigere le schede dei 20 salumi descritti nel libro abbiamo dovuto attingere a fonti lontane da noi.

Ci consoliamo con il fatto che siamo i maggiori allevatori di suini in Italia (il 14% della produzione nazionale). In effetti nel Bresciano ci sono più suini che abitanti (un milione e 300 mila quadrupedi e un milione e 200 mila bipedi, immigrati compresi). Ma anche questa è una novità (nel libro trovate una illuminante testimonianza di un tecnico dello Zooprofilattico che ricorda quel passaggio in fondo molto recente). Subito dopo la seconda guerra mondiale, rimessi a posto i guasti del conflitto, siamo arrivati ad avere 80 mila suini in allevamento. Il milione e 300 mila suini di oggi sono in gran parte figlio del boom economico.

La storia del maiale che trovate nel libro è antichissima. Ha almeno 8 mila anni. Si dice che si allevassero i suini ancora prima della nascita dell’agricoltura (ci sono i grafiti nelle caverne). Da sempre il suino è l’animale da carne per antonomasia. Capre, pecore, cavalli ed anche vacche si sono sempre mangiati per fame o per disperazione. Ancora nella seconda metà del secolo scorso (l’altro ieri per i più anziani) le vacche venivano distinte in “da lavoro” o “da latte”. La bistecca è una novità moderna, la salamina no. Sarebbe arrivata a Roma tramite le schiave catturate in Lucania, diventando la lucanica.

Del resto greci ed egizi allevavano i maiali (nel libro trovate il passo dell’Odissea che descrive le porcilaie di Ulisse), ma gli antichi romani erano in gran parte vegetariani (banchetti nobiliari a parte).

Mangiatori di carne sono i barbari. I Longobardi hanno riempito la nostra Bassa di suini bradi. Del resto la nostra pianura era una selva inframezzata di acquitrini e paludi.

Poi è arrivata la fine del medioevo e il clima è diventato splendido. Si è tornati a coltivare i campi e allora i suini tornano in stalla (avrebbero saccheggiato i raccolti), ma si mangiano ancora poco. I nobili mangiano selvaggina, i poveracci cereali ed erbe selvatiche, che poi diventeranno polenta “surda” (cioè priva di companatico).

Il consumo di carne deve attendere il periodo tra le due guerre ed esplodere con il benessere economico diffuso, quindi dagli anni ‘50.

Nel libro non ci siamo dimenticati delle tradizioni, le nostre tradizioni, dei masadur che giravano per le cascine alle prime brume di novembre. Del (cruento) rito bresciano di uccisione del maiale. Abbiamo anche una testimonianza di come andavano le cose nel ‘500 grazie al poemetto di Galeazzo degli Orzi.

Però ci siamo anche ricordati di essere nel terzo millennio ed abbiamo dedicato un bel po’ di spazio all’allevamento fatto per bene, anche al benessere animale. È impressionante quanto la sensibilità ambientale e verso il benessere degli animali, sia cambiato in brevissimo tempo. Lo abbiamo fatto anche per ricordare a tutti che un salame buono nasce anzitutto dalle carni di un suino felice.

gp

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